ècuba di Eurìpide traduzione di Ettore Romagnoli PERSONAGGI: ècuba Polissèna OMBRA di Polidòro ULISSE Taltìbio Agamènnone Polimèstore ANCELLA d'ècuba CORO di prigioniere Troiane La scena si svolge sulle coste del Chersoneso tracico. Molte tende degli Achei, e fra esse quella di Agamènnone. (Davanti alla tenda di Agamènnone appare l'ombra di Polidòro) OMBRA DI Polidòro: I recessi dei morti, e della tenebra le porte abbandonate, ove lontano dagli altri Numi Ade soggiorna, io giungo qui: Polidòro io son, d'ècuba figlio, che nacque da Cissèo: mio padre fu Prìamo, che, quando su la frigia rocca la minaccia incombé che sotto l'aste cadesse degli Achei, dal suol di Troia lontano mi mandò, di Polinèstore alla magion, dell'ospite di Troia, che il pian ferace piú d'ogni altro semina del Chersoneso, e quelle genti amiche di corsïeri, con la forza regge. E meco insieme, di nascosto il padre molto oro gl'inviò, perché, se mai vinte le mura d'Ilio procombessero, non dovessero i suoi figli superstiti conoscer la penuria. Ed il piú giovine ero io dei Priamídi; e dalla terra lungi per questo mi mandò: ché reggere col braccio giovinetto io non potevo scudo né lancia. Or, finché saldi stettero della terra i confini, e smantellate non fûr le torri del troiano suolo, e la fortuna sorrideva ad Ettore, fratello mio, nella battaglia, io presso l'ospite tracio di mio padre crebbi, misero me, come novello cespite, e fui nutrito. Ma poiché perirono Ettore e Troia, e furono distrutti i patrî Lari, e Prìamo stesso cadde presso l'ara, dei Numi opra, ed il figlio sanguinario d'Achille lo sgozzò, l'ospite di mio padre, a me tapino la morte die', per bramosia dell'oro, per tenerselo in casa; e dopo ucciso, fra l'estuar dell'onde mi gittò. Ed ora giaccio su la spiaggia, ed ora fra i tempestosi flutti, in corsa alterna trascinato dall'onde, e son di lagrime privo e di tomba. E adesso, abbandonata la morta salma, di mia madre, d'ècuba sovra il capo mi lancio. Il terzo giorno è questo già che in aria io son librato, da che la madre mia misera giunse dal suol di Troia al Chersoneso. Or tengono tutti gli Achei ferme le navi, e sostano di questo tracio suol sopra la spiaggia, perché su la sua tomba Achille apparso, il figlio di Pelèo, tutto l'esercito degli èlleni arrestò, mentre alla patria volgevano le prore: ei Polissèna chiede, sorella mia, che sul suo tumulo cada sgozzata, e averla in dono. E avrà quello che chiede, né del dono privo lo lasceran gli amici. Oggi il destino la mia sorella a morte adduce; e due salme vedrà di due figli la madre: di mia sorella misera, e di me: ch'io, per avere sepoltura, sopra l'estuare dell'onde apparirò ai piedi innanzi d'un'ancella: ch'io dai Numi che potere hanno in Averno, della madre impetrai che fra le braccia giunger potessi, e sepoltura averne: tutta paga sarà questa mia brama. Ma lungi dall'antica ècuba, or vado ch'essa già dalla tenda d'Agamènnone move il pie': la sgomenta il mio fantasma. (Dalla tenda esce ècuba sorretta da ancelle troiane) Ahimè! O madre mia, ridotta dalla reggia a servil vita, misera tu sei quanto beata un dí: ti strugge un Nume per contrappeso dell'antico bene. (Sparisce) (Sempre sorretta dalle ancelle, ècuba si avanza) ècuba: Questa vecchia dinanzi alla tenda conducete, o fanciulle, reggete questa schiava, ora vostra compagna, o Troiane, ed un tempo regina. Prendete, portate, guidate, sollevate il mio corpo, stringendo la vecchia mia mano; ed al curvo baston di tua mano reggendomi, farò che piú svelto l'incesso proceda del tardo mio pie'. (Si ferma sul davanti della scena) O notte di tenebre, o folgore di Giove, perché da terribili notturne fantasime son tanto agitata? Deh, Terra venerabile, madre dei Sogni alinegri, lontana stia quella visïone che in sogno m'apparve intorno al figlio mio che vive al sicuro fra i Traci, a Polissèna diletta mia figlia: terribile essa era! Sotterranei Numi, salvate mio figlio, ch'è l'àncora sola di mia casa, ed ora abita, all'ospite paterno affidato, nella Tracia coperta di neve. Qualche cosa di nuovo accadrà. E quelle che gemono avranno motivo di gemiti: mai non fu pel terrore il cuor mio cosí pieno di brividi. Dove piú vedrò l'anima d'Eleno divino, o Troiane, o Cassandra che i sogni mi spieghino? Vid'io gaietta cerva sgozzata dai denti d'un lupo dalle ginocchia mie strappata con furia crudele. E questo ancor piú mi sgomenta. Sulla vetta del tumulo apparve il fantasma d'Achille; e chiedeva che gli offrissero in dono qualcuna delle misere donne di Troia. Deh, lungi, deh, lungi dal capo di mia figlia, vi supplico, o Dèmoni, si sperda l'auspicio! (Entrano le prigioniere troiane che costituiscono il coro) CORO: A te, ècuba, venni in gran fretta, del Signore lasciando la tenda, ove io fui sorteggiata, e condotta come schiava, quand'io fui scacciata dalle Ilíache mura, prigione degli Achivi, per forza di lancia, non per darti sollievo dei mali, ma perché d'un messaggio il gran peso m'assunsi, ond'io giungo, o Signora, di gran triboli aralda per te. A quello che narrano, fu deciso nel pieno consesso degli Achei che tua figlia per vittima fosse offerta ad Achille. Tu sai quand'egli, sul tumulo apparso, nell'oro dell'armi, le navi già pronte a solcare il mar, già premendo le vele su gli stragli, rattenne, gridando cosí: «Dove mai veleggiate, o Dànai, privo d'offerta lasciando il mio tumulo?» E allor, fu tempesta fra gli Ellèni di gravi parole; e s'urtavano due pareri diversi: ché questi credevan che offrire la vittima convenisse, e quegli altri negavano. E zelava il tuo bene Agamènnone, per l'amor che lo stringe alla Mènade profetica. Invece i due figli di Tèseo, rampolli d'Atene facean due discorsi diversi. Però convenivano in questo: che di giovine sangue era d'uopo ghirlandar del Pelíde la tomba, né l'amor di Cassandra dovesse prevaler su la lancia d'Achille. E il fervor degli opposti discorsi pressoché si agguagliava, sin quando il figliuol di Laerte, il volpino demagogo dal labbro mellifluo, convinse l'esercito che mal convenía, per pietà d'una schiava, il migliore dei Dànai rinnegare, sicché, dei defunti qualcuno, giungendo a Persèfone, dicesse che i Dànai, partendo dal suolo di Troia, dei Dànai dimentichi furon che morte trovaron pugnando per gli Ellèni. E tra poco qui Ulisse a strappare verrà dal tuo seno, dall'annosa tua man' la fanciulla. Or tu corri alle navi, agli altari corri, pròstrati supplice ai piedi d'Agamènnone, e invoca i Celesti, i Súperi, e gl'Inferi. Infatti, o potrai con le preci impedire che tu resti orbata della misera figlia, o rovescia cader la vedrai sopra il tumulo, vermiglia del sangue sgorgante, fra gli ori che le ornan la gola, con rivolo negro. ècuba: Me tapina, che cosa dirò? che grido, che gemito devo lanciare? O me trista per la trista vecchiaia e la grave servitú ch'io non so tollerare. Ahi me misera! Chi mi difende, qual città, quali figli? Il vecchio mio sposo è sparito, i figli spariti. Per che via devo muover? Per questa? per quella? Ove debbo gittarmi? Qualche Dèmone c'è, qualche Dio, che soccorso mi porga? O Troiane, che tristi, che tristi cordogli m'avete annunciati, la morte inflitta m'avete, la morte: piú non amo la luce del giorno. O misero piede, sii guida, sii guida alle antiche mie membra, alla tenda. O fanciulla, o figliuola d'una madre fra tutte infelice, esci fuori, esci fuor dalla tenda. Ascolta la voce di tua madre, ed apprendi quale sorte - ne ho udita la fama - la tua vita, o figliuola, minaccia. (Da una tenda esce Polissèna) Polissèna: Madre, madre, che gridi? Qual nuova annunci, che fuor dalla tenda m'hai fatta balzare sgomenta a guisa d'augello? ècuba: Ahimè figlia! Polissèna: Perché queste infauste parole? Preludî per me son di mali. ècuba: Ahimè la tua vita! Polissèna: Il vero piú a lungo non celarmi: favella: io pavento o madre, pavento: ché gemi? ècuba: Figlia, figlia di misera madre! Polissèna: Quale annuncio tal grido m'arreca? ècuba: Degli Argivi il concorde giudizio ti sospinge alla tomba, ché vittima tu cada pel figlio di Pèleo. Polissèna: Ahimè, madre, questi orridi mali come sai? Dimmi, dimmelo, o madre. ècuba: Ti dico le infauste voci, o figlia, che udii: che coi voti la tua morte gli Argivi decisero. Polissèna: O bersaglio d'ogni orrido male, o misera in tutto madre mia, nella vita infelice, quale nuova sciagura, atrocissima, indicibile, alcuno dei Dèmoni contro te suscitava? Non piú io, tua misera figlia, compagna sarò della misera tua vecchiaia servil. Come cucciolo nutrito su l'alpe, o tapina vedrai me, tapina vitella, strappata dalla tua man, sgozzata, sospinta nell'Ade, fra le tenebre inferne, dov'io giacerò, trista me, tra i defunti. La sciagura tua, madre, deploro con flebili gemiti; ma la mia vita, vergogna e sozzura, non rimango; e per me fu morire la sorte migliore. CORO: ècuba, in fretta qui s'avanza Ulisse, che reca a te qualche novello annunzio. (Giunge Ulisse) ULISSE: La volontà credo io che dell'esercito già tu conosca, e il voto, o donna; eppure te lo dirò. Fu dagli Achei deciso che Polissèna, la tua figlia, vittima cada sopra la tomba alta d'Achille; ed impongono a me che guida e scorta della fanciulla sia. Del sacrificio sacerdote e ministro eletto fu il figliuolo d'Achille. Or sai che cosa tu devi fare? Non lasciar che a forza ti debbano strappar, né meco a zuffa venir di mani: alla tua poca forza e al mal che incombe sopra te rifletti. Fare senno conviene anche fra i mali. ècuba: Ahimè! Giunto è, mi sembra, il gran cimento, colmo di lagni, e non scevro di gemiti: ch'io non morii quando morir dovevo, né mi distrusse Giove, e mi risparmia perché, tapina, io veda altri malanni dei trascorsi maggiori. E s'è pur lecito che volga un servo ai liberi domande che non rechino cruccio, e il cuor non mordano, tu risponder dovresti, ed ascoltarti io che tali domande a te rivolsi. ULISSE: Chiedi: un istante ben voglio concederti. ècuba: Ricordi allor ch'esploratore ad Ilio venisti, brutto nelle vesti sordide, e giú dagli occhi lagrime di sangue a bagnare le tue guance stillavano? ULISSE: Sí; ma ricordo me ne resta appena. ècuba: Ti conobbe, e a me sola Elena il disse. ULISSE: Un gran periglio corsi, lo rammemoro. ècuba: Stringesti, in tal frangente, i miei ginocchi? ULISSE: Sí che restò la man fra i pepli torpida. ècuba: Ti salvai, ti lasciai da Troia uscire? ULISSE: Sí ch'io del sol veggo tuttor la luce. ècuba: E che dicesti allor? ch'eri mio servo. ULISSE: Mille, a schivar la morte, se ne dicono. ècuba: E tristo i tuoi consigli or non ti rendono, che il ben da me, pur lo confessi, avesti, e nessun bene a me rendi, anzi male quanto piú puoi? Misconoscente è il seme di quanti ambite il popolar suffragio. Mai rapporto io non debba aver con voi, che non badate a danneggiar gli amici, purché possiate dir ciò che riesca grato alla folla! Or via, quale pretesto presero mai, per decretar la morte contro quella fanciulla? E qual dovere umano sangue ad immolar li spinse sopra una tomba, ove immolar giovenchi piú si conviene? O per uccider quelli che l'uccisero, Achille a buon diritto contro costei la morte scaglia? Nulla di mal, però, costei gli fece: d'Elena chieder dovuto avrebbe il sacrificio su la sua tomba: a Troia Elena il trasse, e fu la sua rovina. E se morire dovea delle captive alcuna, eletta prima per la beltà, su noi cadere la scelta non dovea: bella d'aspetto di Tíndaro la figlia era fra tutte, e non meno di noi danno vi fece. Queste le mie ragioni, e le sostengo con la giustizia; e qual ricambio devi offrire a me che te lo chiedo, apprendi. Tu la mia man toccasti, e la mia vecchia guancia, prostrato innanzi a me, lo ammetti: or la tua mano e la tua guancia io tocco, e ti scongiuro, e a te chiedo la grazia ch'io t'accordai: che dalle man' la figlia tu non mi strappi, e morte non le diate. Bastan le stragi omai: questa fanciulla è la gioia per me, l'oblio dei mali, il conforto piú grande, la città che mi nutre, il baston che il passo regge. Non vogliano i potenti ordini dare che dare non conviene; e non presuma l'avventurato che la sua fortuna perennemente duri. Ebbi una volta anch'io fortuna, nulla sono or piú: valse un giorno a rapirmi ogni mio bene. Abbi, su via, te ne scongiuro supplice, pietà di me, misericordia: torna all'esercito argivo, ed ammoniscilo quanto sembri odïoso a morte porre donne che in pria non uccideste, quando le strappavate all'are, anzi ne aveste compassïone. E per gli schiavi e i liberi uguali pur sono tra voi le leggi capitali. Ed il pregio onde tu godi potrà persuadere, anche se male favelli tu: ché non ha già la stessa efficacia un discorso, allor che stima gode chi lo pronuncia, e allor che no. CORO: Esser non può sí dura indole d'uomo che i tuoi gemiti udendo e le querele dei lagni tuoi, frenar possa le lagrime. ULISSE: ècuba ascolta, e pel bollor dell'ira non reputar nel cuore tuo nemico chi ben favelli. A te salvar son pronto ond'ebbi il beneficio, e non rifiuto; ma non rinnegherò quanto pur dissi a tutti quanti: che, caduta Troia, convenia la tua figlia al piú gagliardo degli Achivi immolar, che la chiedeva. Ché di molte città questa è magagna, allor che un uom volonteroso e prode nessun vantaggio sui da meno ottiene; e fra noi, donna, d'onor degno è Achille, l'eroe che a morte soccombé per l'Ellade, con somma gloria. E non sarebbe turpe, se come nostro amico un uom trattassimo sin ch'egli vive, e quando è morto, no? Dimmi: e se si dovesse ancor l'esercito adunare, affrontar le ostili schiere, combatteremmo, oppure ai nostri giorni riguardo avremmo, quando il morto privo vedessimo d'onore? Infin ch'io vivo, anche se dí per dí ben poco avessi, mi basterebbe; ma la tomba mia onorata veder vorrei: ché a lungo questo onor dura. E poi che miserevoli dici le pene che tu soffri, ascoltami. Ci sono anche fra noi vegliarde, misere di te non meno, e vecchi, e spose prive dei prodi sposi onde le salme copre polvere d'Ida: ed anche tu rasségnati. E noi, se male ci apponiamo, quando rendiamo onore ai valorosi, semplici chiamate; e voi, gli amici vostri, o barbari, d'amici in conto non abbiate, onore non fate a chi morí da prode; e l'Ellade avventurata sarà sempre, e voi sorte conforme ai vostri sensi avrete. CORO: Ahi, triste cosa, servitú, che, vinta da forza, ognor ciò che non deve soffre! ècuba: O figlia, invano i miei discorsi andarono spersi, che per la tua vita io gittai. Or, se tu piú della tua madre puoi, sciogli alla prece, affréttati, ogni accento, simile a gola d'usignolo, tenta di schivare la morte. Alle ginocchia d'Ulisse cadi, e a pietà commovilo. Un argomento hai pure: anch'egli è padre, sí che dovrà la tua sorte compiangere. Polissèna: Io vedo, Ulisse, che la destra ascondi sotto il mantello, e torci il viso, ch'io la tua guancia non tocchi? Oh, non temere, contro te non invoco il Dio dei supplici. Ti seguirò, perché lo vuole il fato, pronta a morire. Ov'io mi ribellassi, codarda sembrerei, ligia alla vita. E a che viver mi giova? Era mio padre signor dei Frigi tutti, e della vita era questa per me prima ragione; e fra speranze eccelse io crebbi, a re destinata consorte, e le mie nozze non piccolo argomento eran di gare, di chi dovessi alla magione, all'ara andare sposa. Ero signora, misera me, fra le donne d'Ida, fra le vergini ero ammirata, e, tranne ch'io dovevo morir, pari alle Dive. Or sono schiava; e già tal nome insolito mi fa bramar la morte. E poi, trovar potrei d'animo duro il mio padrone, quello che col denaro comperasse me, d'Ettore e d'altri molti eroi sorella, ed in sua casa a preparare il pane mi destinasse, ed a spazzar la casa, attendere alla sposa, costringendomi a ben miseri giorni; ed uno schiavo chi sa donde comprato, insozzerebbe il mio talamo; e un dí fui destinata a nozze regie. Oh no! L'ultimo sguardo libero vo' che dal mio ciglio brilli, all'Ade offrendo questo corpo. Guidami, Ulisse, e la tua guida a me sia morte. Ché sostegno di speme e di fiducia non ho d'aver piú mai fortuna. E tu non opporti con fatti o con parole, o madre mia, bensí brama con me ch'io muoia, prima di patir qualche onta di me non degna: perché quei che avvezzo ai malanni non è, certo li tollera, ma nel piegare il collo al giogo, soffre. E meglio val per lui morir che vivere: ché vivere tra i mali, è pena grande. CORO: Chiaro insigne sigillo è pei mortali il nobil sangue; e nobiltà grandeggia in quelli piú che degni se ne mostrano. ècuba: Nobilmente hai parlato; eppure, o figlia, a nobiltà dolore s'accompagna. Se il biasimo fuggir dovete, e grati mostrarvi al figlio di Pelèo, costei non uccidete, Ulisse, e me guidate alla pira d'Achille, e trafiggetemi senza pietà: ch'io partorito ho Paride che con le frecce pose a morte Achille. ULISSE: Di tua figlia la vita agli Achei chiese il fantasma d'Achille, e non la tua. ècuba: E con mia figlia allor me trafiggete, e doppio beveraggio avran di sangue la negra terra, e il morto che lo chiese. ULISSE: Basta una sola morte, della vergine; né conviene a quest'una un'altra aggiungerne. Cosí costretti a questa pur non fossimo! ècuba: Che con mia figlia io muoia è necessario. ULISSE: Come? Ho qui dei padroni? Io l'ignoravo. ècuba: A lei m'avvinghierò, come a quercia èllera. ULISSE: No, se a quei che piú senno hanno vuoi credere. ècuba: Non lascerò di mio grado mia figlia. ULISSE: Né io di qui via me n'andrò, lasciandola. Polissèna: Odimi, o madre. E tu, piú remissivo con una madre sii, che a buon diritto s'adira, o figlio di Laerte. E tu, non contrastare coi piú forti, o misera. Cadere al suol vuoi tu, vuoi trascinare a forza spinta, le tue vecchie membra, ed una turpe vista offrir, via tratta da un braccio giovanil? Questo accadrebbe. Oh no, degno non è! Porgimi invece la dolcissima destra, o madre cara, e ch'io la guancia alla tua guancia appressi: ch'io non potrò mai piú del sole scorgere il raggio e l'orbe, e questa è l'ultimissima volta. E tu, madre, i miei saluti estremi accogli, o madre: io già nell'Orco scendo. ècuba: O figlia, ed io vivrò, schiava sarò. Polissèna: Sposo e imenei dovevo aver, né li ebbi. ècuba: Tu sei misera, o figlia, io sventurata. Polissèna: Da te divisa giacerò nell'Ade. ècuba: Che fare, ahimè! Dove finir mia vita? Polissèna: Morirò schiava, eppur nacqui d'un libero. ècuba: Io di cinquanta figli orba rimasi. Polissèna: Dir che debbo al tuo vecchio sposo, ad Ettore? ècuba: Dí ch'io son delle donne la piú misera. Polissèna: O petto, o sen che dolce mi nutristi! ècuba: Trista, immatura la tua sorte è, figlia. Polissèna: Salute, o madre! Ed anche a te, Cassandra. ècuba: Salute han gli altri; ma tua madre, no. Polissèna: O Polidòro, e a te, fratel, che presso ai Traci vaghi di cavalli vivi. ècuba: Se pure vive: io non lo spero: tanto sono in tutto infelice. Polissèna: Vive; e a te gli occhi in punto di morte ei chiuderà. ècuba: Spenta pria di morir son dagli affanni. Polissèna: Guidami, Ulisse, e sotto il manto ascondi il volto mio, ché, pria di cader vittima, pei lagni di mia madre in cuor mi struggo, e faccio che costei si strugga in lagrime. O luce, il nome tuo posso invocare; ma sol di te potrò godere il tempo che alla pira d'Achille e al ferro io giunga. ècuba: Ti perdo ahimè! Le membra mie si fiaccano. Affèrrati alla madre. La man tendimi, porgimi figlia. Non lasciarmi priva di figli. (Polissèna è tratta via da Ulisse. ècuba piomba al suolo) Amiche son perduta! Deh, a tal sorte ridotta dei Dïoscuri la spartana sorella Elena io vegga! Coi suoi begli occhi, a sorte nefandissimo Troia, ch'era felice, ella ridusse. CORO: Strofe prima Vento del mare, vento che le rapide navi che il ponto solcano sopra le gonfie spingi acque del pelago, dove addurrai me misera? Chi sarà l'uomo a cui serva sarò, poi che venduta fui? A un porto forse della doria sponda, o a Ftia, dove l'Apídano, che padre è, come narrano, di bellissime linfe, i campi inonda? Antistrofe prima O col remeggio che percòte i vortici sarò condotta a vivere misera vita, a servitú, nell'isola ove la primigenia palma, ed il sacro alloro offrirono a Latona i rami loro, onde il parto divino s'adornò? E con le delie vergini, della divina Artèmide l'auree bende e l'arco esalterò? Strofe seconda Oppure andrò di Pàllade, la Dea dal cocchio fulgido, nella città, sul cròceo peplo puledre aggiogherò, tessendole sopra i licci che floridi brillano; o la progenie dei Titani, che il figlio di Crono prostra col folgor vermiglio? Antistrofe seconda O figli, o figli miseri, miseri avoli! O patria mia, che vinta precipiti sotto le argive cuspidi, fra vortici di fumo! Or debbo muovere, in una terra estranea servire, or le contrade lascio dell'Asia, e in cambio muovo all'Europa, al talamo dell'Ade. (Giunge Taltìbio) Taltìbio: O fanciulle troiane, ove si trova ècuba, che regina un dí fu d'Ilio? CORO: Vicina a te, che al suol supina giace, Taltìbio, e tutta è nel suo peplo avvolta. Taltìbio: O Giove, che dirò? Forse che tu sopra gli uomini vegli? O che tal fama tu godi a torto, e che soltanto il caso guida gli eventi dei mortali tutti? Dei ricchissimi Frigi un dí signora non fu costei? Non fu del felicissimo Prìamo consorte? Ed or, sotto le lancie cadde tutta la rocca, ed essa, vecchia schiava, senza piú figli, a terra giace, e insozza nella polve il capo misero. Ahimè, ahimè! Vecchio sono io, ma pure possa io morir, prima ch'io piombi in qualche vituperoso affanno! Or sorgi, o misera, solleva il fianco e il capo candidissimo. ècuba: Ahimè, chi sei, che il corpo mio giacere non lasci? A che la doglia mia riscuoti? Taltìbio: Taltìbio io son, ministro son dei Dànai; e Agamènnone, o donna, a te mi manda. ècuba: O carissimo! Giungi per uccidere anche me su la tomba? Hanno deciso questo gli Achei? Dolcissime parole! Affrettiamo, corriamo! O vecchio, guidami. Taltìbio: Io ti chiamo, io son qui, perché tu, donna, la morta figlia seppellisca. Entrambi gli Atrìdi, e gli Achei tutti qui m'inviano. ècuba: Che dici, ahimè! Non per condurmi a morte giungi, bensí per annunciar sciagure. T'hanno strappata dalla madre, e t'hanno uccisa, o figlia; ed io, per la tua parte orba sono di figli. O me tapina! E come a morte la poneste? Forse con riverenza? Oppur con vïolenza, quasi nemica l'uccideste, o vecchio? Cose ingrate dirai: pure favella. Taltìbio: Donna, tu vuoi che a doppio io versi lagrime per la pietà della tua figlia: ch'ora queste pupille bagnerò, narrandoti quella sciagura, e piansi presso al tumulo quando morí. Presente era la turba dell'esercito acheo tutta, raccolta al sepolcro dinanzi, ove immolata cader dovea la tua fanciulla. E il figlio d'Achille per la man prese, e recò sul tumulo alto Polissèna; ed io gli ero vicino. E giovinetti illustri seguían, prescelti fra gli Achivi, pronti i sobbalzi a frenar della fanciulla. E preso un aureo calice ricolmo, il figliuolo d'Achille, a sommo il braccio lo sollevò, per offerire al morto padre le libagioni. E a me fe' segno che silenzio bandissi agli Achei tutti. Ed io, sui pie' sursi fra lor, gridai: «Tacete, Achei, taccia la turba tutta, state muti, silenzio!» - E nella turba alito piú non corse. E quegli disse: «O di Pelèo figliuolo, o padre mio, queste libagïoni incantatrici da me gradisci, che i defunti attraggono. Vieni, ché tu l'immacolato negro sangue possa libar di questa vergine, che l'esercito ed io doniamo a te. Sii benigno con noi, fa' tu che sciogliere possiam le poppe, l'àncore, le gómene, e che torniam dal suol d'Ilio alla patria, avendo in sorte un prospero ritorno». Parlò cosí, tutto pregò l'esercito. Per l'elsa indi impugnò l'aurëa spada, dalla guaina fuor la trasse, e segno fece ai prescelti degli Argivi che prendesser la fanciulla. Ed essa, come se ne avvide, cosí mosse la voce: «Voi che la mia città struggeste, Argivi, di buon grado io morrò: nessun mi tocchi, senza tremar la mia gola offrirò: libera, in nome degli Dei, lasciatemi a morte andar, sí ch'io libera muoia: onta sarebbe a me fra i morti schiava essere chiamata: ché regina io sono». Il popolo levò grida di plauso. E Agamènnone, il sire, impose ai giovani che la fanciulla libera lasciassero. Ed essa, udito dei signori l'ordine, al sommo della spalla il peplo prese, e sino a mezzo il fianco lo strappò, vicino all'umbilico; e il petto e il seno bellissimi mostrò, come di statua. Ed il ginocchio al suol chinato, disse parole piene di coraggio. «Vedi, se questo seno vuoi colpire, giovine, colpiscilo: se vuoi questa mia gola, ecco offerta la gola». Ed ei, volendo e non volendo insiem, per la pietà della fanciulla, del respiro infine le vie recise con la spada; e rivoli ne sgorgarono. Ed ella, anche morendo, gran riguardo a cader compostamente ebbe, e celò quanto celare agli occhi degli uomini conviene. E poi ch'emise, per la piaga mortal, l'ultimo anelito, diverso ufficio ebbero ognun gli Argivi. Alcuni d'essi, con le mani frondi spargean sulla defunta: altri, recando ceppi di pino, alzavano una pira, e chi nulla recava, udia rampogne da chi recava: «Te ne stai cosí a mani vuote, o sciagurato, e peplo non rechi, o fregio alcuno a questa giovine? Nulla doni a costei, ch'ebbe magnanimo spirito, e grande cuor?» Questo dicevano della tua figlia morta. Onde a me tu sembri la donna avventurata piú d'ogni altra, pei tuoi figli, e la piú misera. CORO: Pei Priamídi e per la mia città, il Destino divampa in doglie orribili. ècuba: Ignoro a qual di tanti mal che premono debba, o figlia, affissarmi. Ove all'un d'essi m'appigli, un altro nol consente, e súbito un nuovo affanno mi distoglie, e mali fa succedere a mali. Ed or, non posso cancellar dalla mente il tuo martirio, cosí ch'io non lo pianga; eppur, la nobile tua fin, vieta del duolo a me l'eccesso. Strana cosa non è? Quando una terra sterile, arrisa è dai favor' del cielo, colma la spiga germina, e la fertile, defraudata dei favori debiti, cattivo arreca il frutto. Invece il tristo fra gli uomini, altro mai non è che tristo, e il buono buono, e non corrompe l'indole per le sciagure, e onesto ognor si serba. E la causa qual n'è? Forse i parenti, o l'educazïon? Questa, se buona, insegna il bene; e chi conosce il bene, anche conosce il mal, ché lo misura col modulo del bene. Ah, ma che invano saetta l'arco di mia mente! (A Taltìbio) Or tu muovi, e agli Argivi imponi ciò: che niuno tocchi la mia figliuola, e che la folla tengan lungi da lei. Ché non conosce freno la turba d'un immenso esercito, e piú trista del fuoco è la licenza della gente di mare; e chi non fa male, è un dappoco. (Taltìbio esce. ècuba si rivolge ad un'ancella) Or tu prendi una brocca, o vecchia ancella, e attingi e porta qui acqua di mar, ch'io la mia figlia, sposa e non sposa, fanciulla e non fanciulla, con gli estremi lavacri asperga, e come n'è degna, esponga. Ahimè, come n'è degna non posso: come mi sarà possibile. Che devo far? Qualche ornamento ad una delle captive chiederò, che stanno dinanzi a queste tende, a me vicine, se dalla propria casa alcuna ai nuovi padroni alcuna cosa abbia sottratta. O della reggia mia parvenza, o case un dí felici, e tu che un giorno avevi tante ricchezze e tante meraviglie, e tanti figli, o Prìamo; oh me di pargoli antica madre, come ora piú nulla non siamo, privi dell'antico orgoglio! E c'è fra noi chi superbisce ancora, questi perché chiude ricchezze in casa, quegli perché segno d'onore è fatto tra i cittadini. E tutto è nulla, e vani gli accorgimenti, del pensiero, e i vanti son della lingua. Il piú felice è l'uomo che giunge senza alcun malanno a sera. (Entra nella tenda) CORO: Strofe La mia sorte funesta principio ebbe, il mio lutto, quando gli abeti dell'idèa foresta Alessandro abbatté prima, e del pelago spinse le navi sopra il gonfio flutto, verso il talamo d'Elena, la piú bella fra quante donne contempla il sole aureo fiammante. Antistrofe Ché duolo, e d'ogni duolo un destin piú fatale volgon lor giro. La follia d'un solo tutta una gente, del Simèto ai margini, travolge a rovinoso ultimo male. La gara, onde giudizio diede fra i picchi idèi un pastor, sopra tre figlie di Dei, Epodo fu con la lancia, con lo sterminio decisa, e il crollo dei tetti miei. Ma pure, qualche lacona vergine lunghessi i fluidi rivi d'Eurota bagna le ciglia, piú d'una madre sopra la candida fronte la mano batte, la gota lania, nei solchi l'unghia invermiglia. (L'ancella che era stata incaricata di cercar l'acqua per la salma di Polissèna, giunge recando un cadavere nascosto in un mantello) ANCELLA: O donne, ècuba ov'è, l'infelicissima, che di sciagure ogni altro uomo, ogni donna supera? Niun le rapirà tal serto. CORO: Ah sciagurata, che sinistre grida! Mai non han fine i tuoi messaggi lugubri? ANCELLA: Questo cruccio ti reco, ècuba: facile non è muti restar nelle sciagure! CORO: Eccola: dalla tenda il passo avanza. A udir le tue parole, in punto giunge. ANCELLA: O in tutto piú ch'io non so dire misera, sei perduta, o regina; e luce vedi e non sei piú: non hai sposo né figlio né patria: sei d'ogni sciagura al fondo. ècuba: Nuove cose non dici, e mali enumeri ben noti a me. Ma perché mai qui giungi e rechi a me di Polissèna il corpo? Detto mi fu che tutti si apprestavano con gran zelo gli Achivi a seppellirla. ANCELLA: Tutto ella ignora, e Polissèna piange, né conosce le sue nuove sciagure. ècuba: Ahimè tapina! Di Cassandra forse la profetica salma a me tu rechi? ANCELLA: Di chi vive favelli, e questo morto non gemi. Guarda questo ignoto corpo: nuovo infausto prodigio a te non sembra? (Scuopre il cadavere, che è quello del fanciullo Polidòro) ècuba: Ahimè, che spento Polidòro io veggo, il figlio mio, che il re di Tracia aveva nella sua reggia in sua custodia! Misera me, son perduta! Nulla io sono piú. (La sua declamazione lamentosa diviene canto) O figlio, figlio mio! L'inno deliro io gemo: or or le offese conobbi del Dèmone che non conosce oblio. ANCELLA: Di Paride la colpa or vedi, o misera! ècuba: Nuove incredibili nuove incredibili calamità io veggo: l'una dall'altra nasce; senza lagrime senza ambasce mai verun giorno per me passerà. CORO: Orrendi orrendi guai soffriamo, o misera. ècuba: O figlio figlio di madre misera, qual morte ti colpí, di quale fato vittima giaci? Per man di chi? ANCELLA: Non so: sopra la spiaggia io lo rinvenni. ècuba: Dal mar gittato sulla liscia sabbia oppur da lancia che trafitto l'abbia? ANCELLA: Del mar l'avea sospinto il flutto gonfio. ècuba: Ahimè, ahimè! Ora la visïone m'è chiara, che al mio ciglio notturna apparve: chiara la fantasima cinta di negre piume io vidi; e tu, mio figlio, piú non vedevi lume. CORO: Sai chi l'uccise, poi che i sogni interpreti? ècuba: L'ospite nostro, l'ospite, il re dei cavalieri traci: a nasconderlo a lui l'annoso padre lo die'. CORO: Ahimè, che dici? Ucciso l'ha per lucro? ècuba: Indicibile infamia, inesprimibile, che supera ogni orrore, insopportabile, empia. Ove la giustizia è piú degli ospiti? Oh, maledetto fra tutti! Percosso tu l'hai col ferro affilato, le tenere membra hai recise a brani, né d'un fanciullo a pietà ti sei mosso. CORO: Come un Dèmone avverso, o sciagurata, te, d'ogni altra mortale assai piú misera, rendea! Ma giunger qui veggo Agamènnone, il signor. D'ora in poi si taccia, o amiche. (Entra Agamènnone) Agamènnone: ècuba, a che la figlia tua nel tumulo indugi a seppellir? Venne Taltìbio a dirmi ciò, che la tua figlia niuno toccar dovesse degli Argivi; e noi l'abbiam lasciata lí, né la tocchiamo. Ma tu tardi, sí ch'io ne meraviglio, e per mandarti lí giungo, ché tutto bene disposto è là, se in tanto misera sorte, parlar si può di bene. (Scorge il cadavere di Polidòro) O via, qual dei Troiani è questi mai, che spento veggo alla tenda presso? Non annuncia certo un Argivo, il peplo ch'egli indossa. ècuba (Rimane prostrata sul cadavene di Polidòro, e durante le domande di Agamènnone séguita a parlare fra sé, non dando alcun segno di essersi accorta della presenza del sovrano): Misera - ch'io mi volgo a me, volgendomi, ècuba, a te - che debbo fare? Taccio, oppur cado ai ginocchi d'Agamènnone? Agamènnone: Perché la schiena a me tu volgi, e lagrimi, e nulla dir mi vuoi? Costui chi è? ècuba: Cruccio a cruccio apporrò, se mi respinge da sé, schiava e nemica reputandomi. Agamènnone: Indovino io non son, sí che la via dei tuoi pensier', se tu non parli, io scopra. ècuba: Forse piú che non sia giudico infesto il cuore suo? Non tanto m'odia, forse. Agamènnone: Se di ciò nulla dir mi vuoi, t'accordi bene con me; ché nulla udire io bramo. ècuba: Senza costui, di me né dei miei figli trarre vendetta non potrei. Che indugio? Conviene ardire, ch'io riesca, o no. (Alza il capo e tende supplice le braccia verso Agamènnone) Per le ginocchia tue, per la tua guancia, per la tua giusta mano io ti scongiuro! Agamènnone: Che cosa brami? Che tu possa libera la tua vita condurre? è cosa facile. ècuba: No, no! Se mai vendetta avrò degli empî, schiava tutta la vita eleggo vivere. Agamènnone: E a che mi chiami? Qual soccorso invochi? ècuba: Nulla di quanto, o re, supponi. Vedi questa salma su cui lagrime verso. Agamènnone: Veggo, ma ignoro a che tu miri, o donna. ècuba: Costui portai nel grembo, e a luce il diedi. Agamènnone: Uno è costui dei tuoi figliuoli, o misera? ècuba: Sí, non di quelli che sotto Ilio caddero. Agamènnone: Oltre quelli ne avesti, o donna, un altro? ècuba: L'ebbi, costui che vedi; e invano l'ebbi. Agamènnone: Dov'era, quando la città fu presa? ècuba: La sua vita a salvar, l'inviò Prìamo. Agamènnone: Dove, lui sol, dagli altri figli lungi? ècuba: In questa terra, ove caduto è spento. Agamènnone: All'uom ch'è qui sovrano, a Polimèstore? ècuba: A lui, di molto infausto oro custode. Agamènnone: E qual fu la sua sorte? E chi l'uccise? ècuba: Chi altri se non lui? L'ospite tracio. Agamènnone: Ah, malvagio! Usurpar l'oro bramò! ècuba: Quando dei Frigi udí la fine, appunto. Agamènnone: Tu lo trovasti, o alcun recò la salma? ècuba: Costei, che la trovò sopra la spiaggia. Agamènnone: E lo cercava, o intenta era ad altra opera? ècuba: Per Polissèna linfa iva ad attingere. Agamènnone: L'uccise, dunque, in mar lo gittò l'ospite? ècuba: Dilacerato, alla balía dell'onde. Agamènnone: O smisurati tuoi travagli! O misera! ècuba: Ogni pena ho sofferto, e son perduta. Agamènnone: Ahi ahi! Qual donna fu tanto infelice? ècuba: Niuna, se pure la Sventura stessa dir tu non voglia. Odi or perché mi prostro supplice ai tuoi ginocchi; e se a te sembra che giusto sia che tale pena io soffra, io mi rassegno; ma se no, divieni vendicatore mio, tu, contro un uomo ospite mio, d'ogni altro uomo piú empio, che, senza aver dei Numi di sotterra né dei Celesti riverenza, un'opera compie' d'ogni altra piú nefanda; e spesso partecipata la mia mensa aveva, e degli amici primo era nel novero per l'ospitalità. Ma poi che ottenne quanto voleva, e si credé sicuro, lo uccise; e poi che spento fu, di tomba non lo degnò, ma lo gittò nel pelago. E schiave ora noi siam, senza potere; ma potere i Celesti hanno, e la Legge che fin su loro dòmina, per cui ai Celesti abbiam fede, e nella vita poniam confine tra l'ingiusto e il giusto. Ora, se questa legge in te rimessa vïolata sarà, se non dovranno pagare il fio quelli che uccidon gli ospiti, oppur le cose sacre manomettono, niuna giustizia sarà piú fra gli uomini. Vituperoso ciò reputa, ed abbi di me riguardo, abbi pietà. Da lungi guardami, a guisa di pittor, considera che mali io soffro. Fui regina un giorno, ed or sono tua schiava: ebbi figliuoli belli, ed or vecchia sono, e senza figli, senza città, reietta, la piú misera d'ogni mortale... Ahimè tapina! Dove ritraggi il pie'? Nulla otterrò, lo vedo. Misera me! Perché con tanta pena noi mortali studiam l'altre scïenze, come pure convien, con tanta brama, e Suada, che pur sola regina è dei mortali, non poniamo affatto di zelo piú, per impararla a fondo, la mercede sborsando? Eppur con essa convincere si può, ciò che si brama conseguire si può. Or di buon esito quale speranza avere io posso? I figli sopravvissuti piú non sono: io stessa parto, a servaggio d'ignominia: il fumo veggo dalla città balzare. E forse a un punto vano del discorso io giungo se a Cípride ricorro, e pur favello. Al fianco tuo la figlia mia fatidica giace, che i Frigi chiamano Cassandra. Mostrar come potrai riconoscenza delle dolci vigilie, e quali grazie dai carissimi amplessi, e dal tuo talamo riscuoterà mia figlia, ed io da lei? Somma nel cuore all'uom la gratitudine dalle tenebre nasce, e dai notturni gaudî amorosi. Or dammi ascolto. Vedi tu questo morto? Se per lui t'adoperi, lo fai per tuo cognato. Una parola sola soggiungo. Oh, se favella avessero le mie braccia, le mani, i miei capelli, l'orma dei piedi, per l'arte di Dèdalo e d'alcuno dei Numi, e si stringessero tutti a un tempo, piangendo, ai tuoi ginocchi, e preci d'ogni specie a te volgessero! O re, luce degli Ellèni suprema, commuoviti, la man vendicatrice a questa vecchia porgi, anche se a nulla essa è ridotta, fallo. Un uom dabbene deve servire la giustizia, e infliggere castigo, sempre e in ogni luogo, ai tristi. CORO: è strano! Cosa non si dà fra gli uomini che non possa avvenir. Segnano varie necessità le varie leggi, e amici rendon fra loro quei che nimicissimi erano, e ostili quei che già si amavano. Agamènnone: Io pietà di te sento, e di tuo figlio, ècuba, della tua misera sorte, della supplice mano; e quanto chiedi voglio accordarti, per riguardo ai Numi, alla giustizia. Deh, potessi a te far cosa grata, senza che all'esercito sembrasse ch'io dei Traci al re tramata per amor di Cassandra abbia la morte! Ché un punto c'è, che l'anima mi turba: quest'uomo amico reputa l'esercito, e nemico il defunto: esso t'è caro, ma tale amore è nel tuo cuore, in quello dell'esercito no. Perciò rifletti: volonteroso tu m'avrai, partecipe del tuo dolore, e pronto al tuo soccorso; ma tardo, ove gli Achei m'infliggan biasimo. ècuba: Ahimè! Fra i mortali nessun c'è che sia libero. Uno della ricchezza e un altro è servo della fortuna; e dalla turba questo dei cittadini è trattenuto, e quello dalle leggi sancite, e agir secondo l'indole sua non può. Ma poi che temi ed alla turba oltre il dovuto indulgi, io di questo terror ti farò libero. Basta, se contro l'uccisor del figlio mio qualche male tramerò, che tu connivente a me sia, non che m'aiuti. Ché, se tumulto poi nasca, e al soccorso dell'uom di Tracia, quando ei patirà quello che patirà, corron gli Achivi, frenali tu, senza parer che sia per far cosa a me grata. A tutto il resto - fa cuore - ordine porre io ben saprò. Agamènnone: E come? Che farai? Forse la spada con la vetusta man stretta, a quel barbaro infliggerai la morte? Oppur coi tossici? Con alcun che t'assiste? E chi man forte ti darà? Dove troverai gli amici? ècuba: Questa tenda rinchiude assai troiane. Agamènnone: Le schiave, dici tu, preda degli Ellèni? ècuba: Con queste l'assassino io punirò. Agamènnone: Come mai donne vinceranno gli uomini? ècuba: Può molto, e piú congiunto a frode, il numero. Agamènnone: Certo; ma poca stima ho delle femmine. ècuba: E perché? Donne forse non uccisero d'Egitto i figli, e spopolata d'uomini tutta non reser l'isola di Lenno? Ma facciamo cosí: la tua promessa tu non disdire, e fa' che quest'ancella sicuramente fra le schiere passi. (Si volge all'ancella) E tu, récati all'ospite di Tracia, e di': «Colei che fu regina d'Ilio, ècuba, a sé, pel bene tuo, non meno che per il suo ti chiama; e i figli tuoi con te: che i suoi discorsi anche i tuoi figli devono udire». (Ad Agamènnone) E tu, fa' che s'indugino di Polissèna i funerali, o re, sinché l'un presso all'altro, i due fratelli, duplice cura della madre, bruci sola una fiamma, e nella terra scendano. Agamènnone: Sarà fatto cosí. Ché, se potesse l'esercito salpare, io non potrei questa grazia accordarti. Adesso, invece, il Dio non spira aura benigna, e inerti forza è restare e che s'attenda il vento. Vada or tutto pel meglio. A tutti giova, a ciascun uomo, alla città, che al tristo tocchino i mali, ed agli onesti il bene. (Parte) CORO: Strofe prima Ilio, diletta patria mia, nel novero piú non sei delle rocche inespugnabili, tale d'Ellèni te nasconde un nuvolo, dalle lancie distrutta, dalle cuspidi. Il serto è raso delle torri, orribile è la macchia su te della fuliggine: mai piú non potrò, misera, il piede a te rivolgere. Antistrofe prima Fui perduta che a mezzo eran le ténebre, quando ha tregua il convito, e su le palpebre si effonde il dolce sonno; e dopo i cantici, dopo i gioiosi sacrifici, il talamo accoglieva il mio sposo; e la sua lancia presso il piòl: ché piú le moltitudini non vedeva dei nauti venuti al sacco d'Ilio. Strofe seconda Io componea fra i vincoli delle bende i miei riccioli, e le luci, degli aurei specchi figgevo nel fulgore intèrmine, e movevo al giaciglio. Ed uno strepito corse per la città: su tutta Troia questo bando volò: «Figli de gli Ellèni, infin, presa l'acròpoli, infin, le case d'Ilio dar potete al saccheggio!» Antistrofe seconda E allora, il caro talamo lasciai, la sola tunica cingendo, a mo' di vergine doria, ed ai pie' della divina Artèmide caddi, e fu vano; e spento al suol procombere vidi il mio sposo, e tratta fui sul pelago, da lungi Ilio mirando; e il pie' rivolsero i legni, e dalla Tròade lungi fui tratta, misera, nella ferale ambascia, Epodo Elena, dei Dïoscuri la sorella, e l'obbrobrio d'Ida, il bifolco Paride maledicendo: ché mi manda profuga dalla mia casa, e strugge la mia patria questa sposa non sposa, anzi sterminio di Dèmone maligno! Oh, piú del pelago l'estuar non la tolleri, né la sua casa piú la vegga reduce. (Giunge Polimèstore con due figli e un séguito) Polimèstore: O fra gli uomini tutti a me carissimo, Prìamo, e tu, diletta ècuba, io piango, nel veder te, la tua città, la figlia tua, morta or ora. Ahimè cosa non c'è sicura al mondo: non l'egregia fama; né la fortuna ch'or t'arride, pegno sarà che il male sopra te non piombi: ché tutto quanto su e giú confondono con gran tumulto i Numi, affinché gli uomini di tutto ignari, venerar li debbano. Ma che giova di ciò far lagno, quando esser non può che i mali un uom fronteggi? Se dell'assenza mia poi ti lagnassi, non far: ch'io mi trovavo fin mezzo ai monti di Tracia, allor che qui giungesti. E quando tornato fui, di casa uscivo appena, ed incontrai l'ancella tua, che a me fece i discorsi ond'io qui sono accorso. ècuba: Il tuo volto fissare, o Polimèstore, io n'ho vergogna: in tanto male io giaccio. Di chi mi vide quando ero felice pudor m'assale, or che mi trovo in questa calamità, né gli occhi miei negli occhi fissargli ardisco. Che sia per mal animo verso te, non supporre, Polimèstore. Altra n'è la cagione; e per le donne è uso in volto non fissare gli uomini. Polimèstore: Ragion non c'è di meraviglia. Ma quale bisogno hai tu di me? Da casa perché m'hai fatto qui volgere il piede? ècuba: A te voglio parlar d'una bisogna che mi riguarda, e ai figli tuoi. Dà ordine che dalla tenda lungi stiano i servi. Polimèstore (Ai servi): Andate pure. è questa solitudine sicura. Amica tu mi sei, gli Achivi mi sono amici. (Ad ècuba) E adesso, dimmi: un uomo avventurato, come può soccorrere gli amici sventurati? Io sono pronto. ècuba: Prima del figlio mio, che ricevesti dalla mia mano, dalla man del padre in casa tua, di Polidòro dimmi se vive: il resto poi ti chiederò. Polimèstore: Certo: felice sei, da questo lato. ècuba: Dolci parole, o caro, e di te degne. Polimèstore: Quale altra cosa vuoi saper da me? ècuba: Se di me, madre sua, memoria serba. Polimèstore: E a te venire qui volea, di furto. ècuba: E in salvo è l'oro che recò da Troia? Polimèstore: In salvo: i tetti miei lo custodiscono. ècuba: Curalo: e non bramar la roba d'altri. Polimèstore: Punto! La mia sempre mi basti, o donna. ècuba: Sai ciò che dire a te bramo, e ai tuoi figli? Polimèstore: Io no: dal labbro tuo fa' ch'io l'apprenda. ècuba: Oh tu che amo come amo, c'è molto... Polimèstore: Che cosa, ch'io saper debba e i miei figli? ècuba: antico oro sepolto dai Priàmidi. Polimèstore: Scoprire al figlio tuo vuoi tal tesoro? ècuba: Sí, per tuo mezzo: poi che un pio tu sei. Polimèstore: Ed a che giova che i miei figli assistano? ècuba: Se tu morissi mai, meglio è che sappiano. Polimèstore: Dici bene: è cosí maggior prudenza. ècuba: Sai dove son d'Atèna Ilia le cripte? Polimèstore: è quivi l'oro? E segno v'ha che l'indichi? ècuba: Negra una pietra che dal suolo sporge. Polimèstore: Intorno a queste cose altro vuoi dirmi? ècuba: Di serbare il tesor ch'io meco addussi. Polimèstore: Dov'è? Lo ascondi sotto il peplo, forse? ècuba: Fra molte pelli, in queste tende ascoso. Polimèstore: Dove? Il campo naval questo è dei Dànai. ècuba: In quelle ove prigioni son le femmine. Polimèstore: C'è sicurezza? Alcun uomo non c'è? ècuba: Niun degli Achivi: siamo sole. Su, entra: ché già gli Argivi delle navi scioglier bramano il pie' via dalla Tròade. Fa' quel che devi, e poi coi figli insieme torna là dove il figlio mio ponesti. (Polimèstore e i suoi figliuoli entrano con ècuba nella tenda) CORO: Nulla sospetti; ma pure dovrai pagare il fio. Giú piombare dovrai dal desio del tuo cuore, perdendo la vita, come chi obliquo precipita in fondo a una sentina. Ché dove s'accordano il debito verso i Superi e verso Giustizia, qui s'addensa l'estrema rovina. La speranza che qui ti condusse mendace, a un Averno ti guida fatale, e una mano ti stermina imbelle omicida. (Dall'interno della tenda si levano altissime grida) Polimèstore: Ahimè, la luce degli occhi ho perduta! CORO: L'ùlulo del re Tracio, amiche, udite? Polimèstore: Di nuovo ahimè! Che strage orrida, o figli! CORO: Nuove iatture entro la tenda avvennero. Polimèstore: Ma fuggir non potrete, ancor che rapido il vostro piede sia; ma spezzerò con questi sassi della tenda gli aditi. (Un sasso scagliato dall'interno della tenda giunge sulla scena) CORO: Vedi? Scagliato giunge qui da mano gagliarda un sasso. Entro la tenda irrompere or non dobbiam? L'occasïone chiama: rechiam soccorso alle Troiane e ad ècuba. (Esce dalla tenda ècuba) ècuba: Senza pietà le porte squassa, abbattile, ma non potrai restituire agli occhi il fulgor della vista, e i figli piú non vedrai, che son morti, ed io li uccisi. CORO: Dunque, davvero l'ospite di Tracia o regina, fiaccasti? Il vero parli? ècuba: Ben presto lo vedrai giungere cieco, col cieco piede vacillante, innanzi a questa tenda, e i corpi dei due figli, ch'io, con le prodi iliache donne uccisi. La pena ei mi pagò. Ma dalla tenda esce: potrai vederlo. Io m'allontano, e lontana starò dall'uom di Tracia che ribolle di furia incoercibile. (Esce Polimèstore cieco, brancolante) Polimèstore: Ahi, dove andrò, dove starò, me misero! Dove trovar l'approdo, e mani e piedi, a modo di montana quadrupede fiera, spingendo su le lor vestigia? Su questo o su quel tramite spinger mi devo, a coglier le assassine, che m'han ridotto a sí misera fine? O tristi, o tristi figlie di Frigia! Dove, dove s'appiattano, maledette, a fuggirmi? In che recessi? Deh, se quest'occhio di sangue vermiglio, tu, Sole, guarire potessi, guarire il cieco, e rendere la luce a questo figlio! Ahimè, ahi! Zitto: ché sento di queste femmine furtivamente suonar le peste. Dove sarà ch'io, lanciandomi, d'ossa e di carne mi renda sazio con un festino di belva agreste, e faccia di loro uno scempio pari al mio strazio? Dove andrò, poi che soli lasciati a queste Mènadi d'Averno ebbi i figliuoli, che li sbranassero, che li sgozzassero, che li esponessero sopra montani gioghi, sanguínea preda pei cani? Dove andrò, dove starò, dove mi volgerò? Al par di nave che i lini ammàina, serrando ai fianchi questo mio manto, starò su questo ferale talamo, ai miei figliuoli vigile accanto. CORO: Fu, sciagurato, la tua colpa orribile; ed un turpe martirio degno del tuo delitto un Dèmone a te avverso ora t'ha inflitto. Polimèstore: Ahimè, ahimè, di Tracia stirpi, maestri di lancia, guerrieri di Marte prediletti, maestri di corsieri. Ahimè Achèi! Ahimè, Atrídi, udite i miei gridi i miei gridi i miei gridi? Venite qui, correte, per gl'Iddei. Non m'ode alcuno, nessun m'aiuta? Che mai s'indugia? Le femmine m'uccisero, le femmine prigioni entro le tende. Orrende sono le mie pene, orrende. Ahimè, vergogna mia! Volgermi dove posso, a qual via? A volo, forse, nell'etèreo loco dove Orïone e Sirio dagli occhi dardeggiano i fiammëi raggi del fuoco? Oppure, o tapin, per le strade che negre discendono all'Ade? CORO: Perdonare convien, se, afflitto alcuno da pene tali che patir non possa, abbandona la sua misera vita. (Giunge Agamènnone) Agamènnone: Ho udite grida, e qui giungo: poiché inquïeta volò sopra l'esercito l'Eco, la figlia dell'alpestri rupi, mandando alto rimbombo. E se non fossimo consci che al suol, sotto le lancie achive cadute son le frigie torri, assai spaventati ci avrebbe un tal frastuono. Polimèstore: O carissimo, ch'io la voce tua odo, vedi ciò ch'io soffro, Agamènnone? Agamènnone: Ahimè! Polimèstore! Chi t'ha rovinato, infelice, cosí? Chi le pupille t'insanguinò, chi gli occhi ti accecò, chi uccise i figli tuoi? Chiunque sia, grande odio avea per te, per i tuoi pargoli! Polimèstore: ècuba ucciso m'ha, con queste femmine vostre prigioni: ucciso no, ma peggio! Agamènnone: Che dici? - E tu compiesti un tale scempio? Questo ardire inaudito, ècuba, avesti? Polimèstore: Ahimè, che dici? Essa è vicina a me? Dimmi, insegnami ov'è, ch'io la ghermisca con questa man, la insanguini, la sbrani. Agamènnone: Ehi, che fai? Polimèstore: Per gli Dei, ti prego, lasciami che su lei gitti la furente mano. Agamènnone: Férmati; e, posto dal tuo cuore in bando questo selvaggio umor, parla, ch'io v'oda a volta a volta, e nella causa possa onde soffri formar giusto giudizio. Polimèstore: E dunque, parlerò. C'era il piú giovine dei Priamídi, Polidòro, figlio d'ècuba. Prìamo l'inviò da Troia a me, ché presso me dovesse crescere: ché la fine di Troia ei presentiva. Ed io l'uccisi. Ma perché l'uccisi? Odi se saggio fui, se previdente. Io temea che se fosse, a te nemico, sopravvissuto il pargolo, di nuovo raccogliere i Troiani, e la città ricostruir potesse. E, quando avessero gli Achei saputo che viveva ancora dei Priamídi alcuno, leverebbero contro la terra frigia ancor l'esercito, e, mettendola a sacco, struggerebbero queste tracie pianure, e sui vicini di Troia, ancora piomberebbe, o re, questo flagello onde or soffriamo. Ora, ècuba, come del figlio appresa ebbe la morte, qui m'attirò con tal pretesto, ch'essa m'insegnerebbe ove nascosto in Ilio erano l'arche d'oro dei Priàmidi. E solo me coi figli entro la tenda guidò, perché nessun altro sapesse. Proprio in mezzo alla tenda io mi sedei. E molte, alcune a destra, altre a sinistra sedute presso a me giovani d'Ilio, queste lodavan dell'edonia spola l'opra, alla luce il mio peplo ammirando, altre, la tracia lancia esaminando, privo mi fêr della difesa duplice. E quante aveano figli, i due fanciulli fra le braccia prendean, sí che lontani rimanesser dal padre; e li passavano da mano a mano. E poscia, dai propositi soavi - creder lo potresti? - a un tratto, spade impugnando sotto i pepli ascose, mi trafiggono i figli: altre s'avvinghiano a me, simili a polpi, e mi trattengono e piedi e mani. Io, correre al soccorso volea dei figli; ma se alzavo il volto, mi tratteneano pei capelli; se agitavo le mani, oh me tapino!, nulla potevo: tante eran le femmine. E infine, male d'ogni mal peggiore, compiono quest'orror: prese le fibule, degli occhi miei le misere pupille insànguinano, forano; e si sbandano poi per la tenda, qua e là fuggiasche. In piedi io balzo allora, e a fiera simile sulle cagne omicide mi precipito, a mo' di cacciatore, ogni parete frugando, rovesciando, fracassando. Questi mali, Agamènnone, ho patiti, per far cosa a te grata, per uccidere un tuo nemico. Ma non vo' piú fare lunghe parole. Se qualcun già disse o dice ora, o dirà mal delle femmine, io tutto quanto il mal cosí compendio: né mar né terra nutre una piú perfida razza; e lo sa chi mai con lor s'acconta. CORO: Non parlar temerario, e non confondere, pel mal che ti percòte, in un sol biasimo tutta la stirpe femminile: alcune di noi degne ne sono, altre nel mare delle sciagure siamo tratte a forza. ècuba: Esser concesso non dovrebbe agli uomini che le parole loro piú valessero delle azïoni; ma chi bene adopera bene parlar dovrebbe; e chi commette opere turpi, pronunciar dovrebbe solo parole obbrobrïose; e l'empio favellar non dovrebbe onestamente. Saggi son certo quanti signoreggiano la parola; ma saggi infino all'ultimo mai non saranno, e a tristo fin soccombono: niuno sfuggito è mai. Tale è il preludio, ch'io volgo a te, del mio discorso. Adesso a costui mi rivolgo, e ai suoi propositi risponderò: ché per tener lontano dagli Achei, dice, un duplice travaglio, e per far cosa grata ad Agamènnone, uccise il figlio mio. Ma, scellerato, prima di tutto, degli Ellèni un barbaro amico esser potrebbe? E quale grazia cercavi tu con tanto zelo? Forse sposar volevi alcuna donna d'Ellade? Eri parente di qualcuno? O quale ragione avevi? Delle tue contrade le piantagioni saccheggiato avrebbero, se qui di nuovo navigato avessero? Chi pensi tu farne convinto? L'oro, se tu vuoi dir la verità, la tua sete di lucro il mio figliuolo uccisero. Se no, spiegami questo. Come va che, quando Troia prosperava, e un cerchio di torri la città cingeva ancora, quando in vita era ancor Prìamo, e d'Ettore fulminava la lancia, or come va, se proprio ambivi di costui le grazie, che, crescendo il mio figlio, ed ospitandolo nella tua casa, allor non l'uccidesti, né vivo l'adducesti al campo achivo; ed ora, ch'è per noi spenta ogni luce - segno col fumo la città ne diede - sotto i nemici, adesso uccidi l'ospite all'ara tua venuto? Odimi ancora, ché ben si veda quanto sei malvagio. Se tu davvero amico eri agli Achivi, quelle ricchezze che non tue, l'ammetti, ma di questo fanciullo erano, ad essi recar dovevi ed offerirle, ch'erano in gran penuria, e dalla patria lungi da sí gran tempo. E invece, tu, nemmeno ora ti basta il cuor di separartene, ma le tieni per te, né ti ricredi. Eppur, se avessi custodito, e in vita serbato il figlio mio, come dovevi, la fama tua sarebbe stata bella: perché nella sventura i veri amici si distinguono meglio: accatta amici sempre, da sé, la prospera fortuna. Ché se ricchezze t'occorreano, e vivo fosse costui rimasto, un gran tesoro il mio figlio per te stato sarebbe. Adesso, piú non t'è quell'uomo amico, l'oro e i figli hai perduto, e sei tu stesso cosí ridotto. E a te dico, Agamènnone, che farai, se vorrai dargli soccorso, la figura d'un tristo: aiuto a un ospite perfido tu darai, che fede a quelli a cui doveva non serbò, che pio non è, non giusto. Anche di te diremo, se ciò farai, che il male oprar ti piace. Ma non voglio ai Signori oltraggi volgere. CORO: Evviva evviva! Come dànno agli uomini buoni spunti a parlar, le buone cause! Agamènnone: Giudicare altrui mali, è per me duro, ma necessario: ché sarebbe scorno avere assunto un tale impegno, e poi repudïarlo. Ora a me sembra, sappilo, che non per grazia mia, né degli Achivi, ma per tenerti quel tesoro, tu abbia l'ospite ucciso; e dici adesso, che ti trovi nei guai, ciò che ti giova. Forse cosa da poco uccider gli ospiti sarà fra voi; ma per noialtri Ellèni è cosa turpe. E potrei forse, quando giudicassi che il tuo non fu delitto, il biasimo fuggir? No certo. Adesso che osasti oprar quanto non era giusto, quanto non è gradito ora sopporta. Polimèstore: Ah, vinto, pare, da una schiava, devo ai da meno da me pagare il fio? ècuba: Giusto non è? Da tristo non opravi? Polimèstore: Ahimè figliuoli, ahimè pupille mie! ècuba: Ti duoli? E io no, pel mio figliuolo, immagini? Polimèstore: Tu m'oltraggi, e ci godi, o scellerata! ècuba: Godere non dovrei? Non t'ho punito? Polimèstore: Ma presto non godrai, quando i marosi... ècuba: Mi condurranno verso i lidi Ellèni? Polimèstore: T'accoglieran piombata giú dall'albero. ècuba: Chi farà che tal salto a forza io spicchi? Polimèstore: Salirai da te stessa in vetta all'albero. ècuba: Le penne al dorso avendo? O in che maniera? Polimèstore: Diverrai cagna, ed occhi avrai di fuoco. ècuba: Come sai tu questa mia metamorfosi? Polimèstore: Dei Traci il vate l'annunciò, Dïòniso! ècuba: E dei tuoi mali a te nulla predisse? Polimèstore: No. M'avresti se no tratto in inganno? ècuba: Tramuterò da viva, oppur già morta? Polimèstore: Morta. E la tomba tua detta sarà... ècuba: Dal mio nome avrà nome? O come intendi? Polimèstore: della cagna; e sarà segnale ai nauti. ècuba: Nulla mi fa, poi che pagasti il fio. Polimèstore: E Cassandra morrà: l'ucciderà... ècuba: Sputo sul vaticinio, e a te lo giro. Polimèstore: la sposa di costui, trista custode. ècuba: Non divenga sí folle la Tindàride. Polimèstore (Ad Agamènnone): E te con una scure ucciderà. Agamènnone: Ehi tu, sei pazzo? Cerchi il tuo malanno? Polimèstore: Dammi pur morte; ma t'aspetta un bagno di sangue in Argo. Agamènnone: Non volete a forza, o servi, trarlo via? Polimèstore: Ti cruccia udirmi? Agamènnone: Non gli serrate la bocca? Polimèstore: Serratemela: ho favellato già. Agamènnone: Non v'affrettate a gittarlo in qualche isola deserta, quand'ei con tanta tracotanza parla? - ècuba, e tu, meschina, i due cadaveri va' seppellisci. E voi, donne troiane, dei padroni alle tende avvicinatevi, ché si levano già, vedo, propizie queste brezze al ritorno. Or verso l'Ellade felicemente veleggiar si possa, ed in casa trovar che tutto prosperi, poi che liberi siam da tanti affanni. (Esce) CORO: Alla spiaggia, o compagne, alle tende dei padroni si muova, alle pene del servaggio: ché dura è la sorte.