Le Tròadi (o Le Troiane) di Eurìpide traduzione di Ettore Romagnoli PERSONAGGI: Posidóne Atèna ècuba Taltìbio Cassàndra Andròmaca Menelào èlena CORO di prigioniere Troiane La scena rappresenta il campo dei Greci dinanzi a Troia. In fondo alcune tende, dove son chiuse le prigioniere troiane. Davanti ad una di queste, ècuba giace al suolo. In fondo, fumano le rovine di Troia. Albeggia. (Appare improvvisamente, invisibile per ècuba, il Dio Posidóne) Posidóne: Qui giunsi dell'Egèo dai salsi bàratri, dove, danzando, le Nerèidi volgono il bellissimo piede: io son Posídone. Poiché, da quando Febo ed io le pietre levammo a fil di squadra, onde le torri sursero, in questo suolo, a Troia intorno, mai dal cuor mio l'amor non fu bandito per la città dei Frigi. Essa conversa in fumo è adesso: ché le argive cuspidi l'hanno distrutta e saccheggiata. Epèo di Parnasso, il focese, costruí, per consiglio d'Atèna, un gran cavallo, pieno i fianchi d'armati, e lo sospinse, simulacro funesto, entro le torri. Da le genti venture, esso cavallo sarà detto di legno: ché di lancie legno chiudea nei fianchi. I boschi sacri fatti or deserti, e i templi dei Celesti corron di sangue: dall'altar di Giove protettor della casa, procombé sopra i gradini spento Priamo; e l'oro e le spoglie dei Frigi a gran dovizia mandan gli Achivi alle lor navi, e attendono da poppa il vento, sí che veder possano, dopo che dieci volte i campi furono già seminati, le lor mogli e i pargoli, gli Elleni che contro Ilio in guerra mossero. Ora io, poiché m'han vinto, Era, la diva d'Argo, ed Atèna, ch'àn distrutti i Frigi, Ilio illustre ed i miei templi abbandono: ché quando incombe sopra una città solitudine trista, il culto langue dei Numi, onore aver piú non potrebbero. Echeggia lo Scamandro pei fitti ululi delle captive, designate a sorte ai vincitori: agli Arcadi ed ai Tèssali queste, quell'altre ai príncipi d'Atene, figliuoli di Tesèo. Quelle Troiane per cui la sorte non fu tratta, sotto a queste tende, riserbate ai príncipi dell'esercito stanno; e la Tindàride èlena, la spartana, è insiem con esse: captiva, a dritto, è giudicata anch'essa. E se qualcuno vuol mirar la misera ècuba, è questa, a questa soglia innanzi, che assai lagrime versa, e n'ha ben donde: ché la sua figlia Polissèna è morta miseramente, tristamente, sopra il tumulo d'Achille: è morto Priamo, son morti i figli, e Cassàndra, la vergine, cui spinse Apollo a delirare oracoli, ogni pietà dei Numi, ogni rispetto posto in oblio, la vuole ora Agamènnone sposa furtiva del suo letto. Addio, città che fosti un dí felice, addio, bella cerchia di torri. Ove odïata Pàllade non ti avesse, ancor saresti. (Appare Atèna) Atèna: Esser può che al consanguineo piú prossimo al padre mio, possente Dèmone, e fra i Numi d'onor segno, deposta l'inimicizia antica, ora io favelli? Posidóne: Certo, Atèna. Parlar coi consanguinei non piccola lusinga è per i cuori. Atèna: Approvo l'umor tuo mite, e parole favellerò ch'entrambi c'interessano. Posidóne: Forse da parte degli Dei? Consiglio nuovo di Giove, o di qual mai fra i Dèmoni? Atèna: No, ma per Troia ove ora siamo; e chiedo il tuo potere aver col mio concorde. Posidóne: L'odio antico deposto, or tu commiseri Troia, poi ch'essa fu conversa in cenere? Atèna: A ciò ch'io dico prima torna: vuoi meco partecipar disegni ed opere? Posidóne: Certo: ma prima il pensier tuo conoscere vorrei: gli Achei riguarda, oppure i Frigi? Atèna: Lieti i Troiani, già nemici, rendere bramo, e agli Achei ritorno amaro infliggere. Posidóne: Dall'uno all'altro umor passi cosí, e mesci, troppo a caso, odio ed amore? Atèna: Non sai che me, che offeso hanno il mio tempio? Posidóne: Lo so: rapí Cassàndra Aiace a forza. Atèna: Né dagli Achei patí pena o rimprovero. Posidóne: Pure, col tuo soccorso Ilio distrussero. Atèna: Dunque, oprare con te voglio ai lor danni. Posidóne: E che vuoi far? Per conto mio son pronto. Atèna: Duro voglio un ritorno ad essi infliggere. Posidóne: Sul continente, oppur sui salsi flutti? Atèna: Come da Troia vêr la patria salpino. Pioggia su loro e interminabil grandine invierà Giove dall'ètra, e raffiche caliginose, e il fuoco a me del fulmine darà, mi disse, ch'io percòta e avvampi le navi degli Achei. Tu, per tua parte, fa sí che il passo dell'Egèo rimbombi di smisurati cavalloni, e vortici di salsedine; e colma di cadaveri gli anfratti dell'Eubèa, sí che gli Achivi a rispettare d'ora innanzi apprendano i miei sacrarî, a onorar tutti i Superi. Posidóne: Sarà cosí: non vuol troppi discorsi tale favore: i flutti dell'Egèo sconvolgerò: le spiagge di Micene, i Delî scogli a fior dell'onde, e Sciro e di Caferia i promontorî, e Lemno, di cadaveri molti avran le salme. Or tu l'Olimpo ascendi, assumi il folgore dalle man' di tuo padre, e aspetta il punto che lieta salperà l'argiva flotta. (Atèna lascia la scena) O stolto l'uom che la città distrugge, e templi lascia in abbandono, e tombe ai morti sacre; ei segna la sua pèrdita. (Posidóne parte) (ècuba si scuote e lentamente si solleva) ècuba: Su via, misera, il capo dal suolo, la cervice solleva. Non c'è piú Troia, non sono regina piú di Troia. Se il Dèmone muta la sorte, rasségnati. Naviga secondo la rotta, secondo la sorte: non volgere contro corrente la prora di vita: ai flutti del caso abbandónati. Ahimè, ahimè! Qual mi manca motivo di piangere, me tapina? La patria ho perduta, i figli, lo sposo. O degli avoli supremo fastigio magnifico, tu dunque eri nulla! Che devo tacere? Che devo non tacere? Che piangere? Oh misera, o angosciosa postura in cui giacciono le mie povere membra, su questo duro letto, prostrata sul dorso. O mio capo, o mie tempie, o miei fianchi, quale brama avrei pur di girarmi d'intorno al mio dorso, d'intorno alle vertebre verso entrambe le costole, ai gemiti e al pianto infrenabili. Rimane la Musa ai tapini, nei cordogli che vietan le vittime. (Si leva. La sua lamentela assume le modulazioni del canto) Strofe Prue delle rapide navi, che verso Ilio sacra il remeggio traverso il purpureo pelago e i comodi porti dell'Ellade volgendo, con voci soavi di sampogne, e peani di flauti odïosi, apprendeste d'egizio magisterio le compagini, ahimè, nella rada di Troia, per riprender la moglie esecrabile di Menelào, la macchia di Càstore, l'infamia dell'Eurota, che a Priamo, germine di cinquanta figliuoli die' morte, e me, questa ècuba misera, sospinse a misera morte. Antistrofe Ahi, dove giaccio! Alla tenda d'Agamènnone presso, e, da vecchia schiava son tratta lungi alla patria. E a lutto recise ho le chiome, disfatta la fronte, ed orrenda. Dei Troiani maestri di cuspidi o voi, misere spose, e voi, vergini che non saprete connubio, arde Ilio, si levino gemiti. Come lancia la madre agli aligeri l'appello, io lancio un cantico, da quello assai dissimile che, poggiata allo scettro di Priamo, intonavo, guidando coi miei piedi sicuri, le frigie danze, ad onor degli Dei. (Dalle tende del fondo escono le donne che formano il primo semicoro, e si avvicinano ad ècuba) CORIFEA A: Strofe prima ècuba, che piangi e ti lagni? Che nuove son giunte? I tuoi gemiti udii penetrar nella tenda; e invase terrore le donne troiane, ch'ivi entro lamentano il duro servaggio. ècuba: Degli Achei nelle navi, o figliuole, le mani già scuotono i remi. CORIFEA A: E perché, me tapina? Oltre il mare mi voglion strappare alla patria? ècuba: Non lo so; ma presento sciagure. CORIFEA A: Ahi ahi! Sciagurate Troiane, apprestatevi ad uscire ad udire sciagure: a partire s'affrettan gli Achivi. ècuba: Ahi ahi! Deh, fate che qui Cassàndra non esca, che infuria delira, e ludibrio non sia, per gli Argivi, e cruccio sui crucci per me. Ahimè! Troia, misera Troia, distrutta tu sei: tristi quei che si persero i vivi, e i già spenti. (Dalle tende escono le donne che formano il secondo semicoro) CORIFEA B: Antistrofe prima Ahimè! D'Agamènnone lascio le tende, o regina, tremando, per udirti. Gli Argivi decisero d'uccidermi, misera, oppure già chini sui bordi, al remeggio s'apprestano i nauti? ècuba: Da l'aurora, o figliuole, con l'anima percossa d'orrore, qui venni. CORIFEA B: Giunto è forse dei Danai un araldo? Di chi, trista me, sono schiava? ècuba: Sarà presto decisa tua sorte. CORIFEA B: Ahi ahi! Quale d'Argo signore o di Ftia, quale mai, me tapina, in un'isola m'addurrà schiava, lungi da Troia? ècuba: Ahi ahi! a quale signore servire, in che terra, da vecchia dovrò, come un fuco, effige funesta, immagine vana di morte? Ahi ahi! Della soglia a custodia, od a cura dei bimbi, io che onori riscossi a Troia regali! CORO: Strofe seconda Ahimè, ahi, con che gemiti l'estremo danno tuo tu piangi! Io, misera, piú non farò sopra l'Idèo telaio ire e redire i pettini. Dei padri miei la casa or miro l'ultima, l'ultima volta; e patirò durissime pene; o sospinta d'un Acheo nel talamo - oh, maledetta tal notte e tal Dèmone! - o di Pirène attingere dovrò la sacra linfa, ancella sordida. Alla beata celebre potessi pervenir terra di Tèseo! Ma, dell'Eurota ai vortici, d'èlena, alla dimora odïosissima, mai, deh, non giunga, agli ordini di Menelào, saccheggiator di Troia! Antistrofe seconda La terra venerabile del Penèo, che all'Olimpo è base fulgida, è d'ogni ben, narra la fama, prospera, tutta è di pomi florida. A questo suolo, dopo la santissima di Tesèo sacra terra, io vorrei giungere, o d'Efesto all'etnèa terra, che levasi sul mar, di fronte alla città fenicia, ed è madre dei siculi monti, e ghirlande il valor suo proclamano. Quindi la terra approssima, pel navicchier che solca il flutto Ionio, cui bagna il fulgidissimo Crati, la cui cesarie bionda e fulvida si snoda, e col santissimo umor nutre ed allieta un forte popolo. CORIFEA: Dalle schiere ecco giunge dei Dànai un araldo, di nuovi messaggi dispensiere, che l'orme sollecita dei rapidi piedi. Che reca? Che dice? Noi schiave siamo già della dorica terra. (Giunge Taltìbio) Taltìbio: ècuba, sai che spesse volte a Troia dell'esercito achivo araldo io venni. Taltìbio sono, a te già noto, o donna, ed un pubblico a te placito reco. ècuba: Ecco, dilette Troiane ciò che da tempo io temevo. Taltìbio: Se temevi le sorti, esse fûr tratte. ècuba: Ahi, di Tessaglia quale città quale di Ftia dicesti, o della terra di Cadmo? Taltìbio: Foste a varii assegnate, una a ciascuno. ècuba: Quale a ciascuno toccò? Quale attendere può delle donne di Troia prospera sorte? Taltìbio: Lo so; ma d'esse chiedi una alla volta. ècuba: Dimmi, a chi dunque toccò la mia povera Cassàndra? Taltìbio: Agamènnone, il re, per sé la scelse. ècuba: Serva alla donna di Sparta ella dunque sarà? Ahimè ahimè! Taltìbio: No, ma segreta sposa del suo talamo. ècuba: Di Febo la vergine, a cui diede il Dio chioma d'oro che vivere immune da nozze potesse? Taltìbio: L'innamorò la vergine fatidica. ècuba: Gitta, o figlia, le chiavi tue sante, dalle membra il velame disciogli dell'infule sacre. Taltìbio: Gran cosa è pur salire un regio talamo! ècuba: E la figliuola che or ora m'avete rapita, dov'è? Taltìbio: Di Polissèna vuoi dire? O di chi? ècuba: Di Polissèna. Con chi la stringeva la sorte? Taltìbio: Scelta ministra fu d'Achille al tumulo. ècuba: Ahimè! Perché fossi a una tomba ministra, io t'ho dunque concetta? Ma quale costume, qual rito, amico, è mai questo per gli Ellèni? Taltìbio: La figlia tua chiama beata: ha pace. ècuba: Quali parole son queste? Vede ancora la luce del sole? Taltìbio: Tal sorte ebbe, che piú mali non soffre. ècuba: E quale ebbe sorte la sposa d'Ettore, il bronzeo guerriero, la misera Andròmaca? Taltìbio: L'ebbe il figlio d'Achille: anch'essa scelta. ècuba: E a chi sarò serva io, ch'ho d'uopo del bastone, che sia terzo puntello al vecchio mio corpo? Taltìbio: Ulisse t'ebbe in sorte, il signor d'ìtaca. ècuba: Ahimè ahimè! Lacera il raso tuo capo, strappa entrambe le guance con l'unghia. Ahimè ahimè! Voluta la sorte m'ha schiava d'un uom sozzo, maestro di frode, nemico a giustizia, d'una belva che legge non ha, che le cose di lí, qui travisa, di lí quelle di qui, ch'ha duplice lingua, che semina l'odio dov'era amicizia. Compiangetemi, o donne di Troia. Io sono infelice, perduta son, misera me: ch'io m'ebbi fra tutte la sorte piú infesta. CORIFEA: Regina, il tuo signor tu sai. Ma quale fra gli Ellèni o gli Achivi il mio sarà? Taltìbio: Orsú, famigli, quanto prima è d'uopo che rechi alcuno qui Cassàndra, ed io al duce nostro la consegni, e poi le prigioniere scelte agli altri adduca. - Oh, qual bagliore entro la tenda brilla di fiaccole? Che mai fan le Troiane? Ardono forse gli àditi? In procinto d'esser condotte dalla patria ad Argo, dando alle fiamme il proprio corpo, vogliono morire? Certo, in tali eventi, un libero cuor, le sue pene mal sopporta. - Apri apri, ché questo evento a voi grato, ma infesto per gli Achei, me gittar non debba in colpa. ècuba: Un incendio non è: la figlia mia Cassàndra, è: verso noi corre delira. (Entra in folle danza Cassàndra, vestita da sacerdotessa. Delira, e squassa una fiaccola) Cassàndra: Strofe Largo, fate ala! Io porto la fiaccola, io celebro, inondo di luce, vedete vedete, con questa mia lampada il tempio. O sire Imenèo, beato lo sposo, me beata che a talamo regio, che in Argo andrò sposa. Imèn, o Signore Imenèo! Perché mai, tutta in lagrime, o madre, tutta in ululi, il padre defunto stai gemendo, e la patria diletta? Io stessa, per queste mie nozze brillar fo le vampe del fuoco in raggio, in fulgore facendo per te, Imenèo, per te, Ècate, il fuoco brillare che a nozze virginee s'addice. Antistrofe Lancia nell'ètere il piede sublime, sii guida, sii guida alla danza, evoè evoè!, come già per gli eventi che prosperi piú al padre seguirono. Sacro è questo coro. Nel tuo tempio, fra i lauri, conducilo, o Febo, a onorarmi, tu stesso, Imen o Imene. Danza, o madre, su, volgi il tuo passo carolando, e dei pie' la cadenza alla nostra, o diletta, accompagna. Gridate Imenèo, con beate canzoni, acclamate, con grida di gioia, la sposa. O Frigie fanciulle dalle fulgide vesti, esaltate lo sposo che il fato concesse al mio talamo. CORO: Frena, ècuba, la tua figlia delira ché a pronti balzi al campo acheo non giunga! ècuba: Tu la fiaccola, èfesto in queste nozze reggi; ma troppo amara è questa luce che fai brillar, dalla speranza grande troppo diversa. Ahi, figlia mia, creduto mai non avrei che delle spade all'ombra e delle lancie achèe simili nozze celebrare dovrei. Dammi la fiaccola, ché, delira correndo, obliqua tu la reggi, o figlia; e la sventura il senno reso non t'ha, ma quale fosti or sei. Riportate le faci entro la tenda, donne di Troia, e ai cantici di nozze rispondan di costei le nostre lagrime. Cassàndra: La fronte mia vittorïosa cingi d'una ghirlanda, o madre, e per le mie regie nozze t'allegra, e siimi guida, e se ti par che poco io sia sollecita, spingimi a forza. Ché se Febo esiste, il re d'Acaia, il celebre Agamènnone, sposa m'avrà piú d'èlena funesta, ché morte a lui darò, saccheggerò la sua casa, a mia volta, a far vendetta dei fratelli e del padre. Altre sozzure dire non vo'. Non canterò la scure che taglierà la mia gola e l'altrui, e i matricidi agoni a cui principio le mie nozze daranno, e la rovina della casa d'Atreo. Ma vo' provare che la nostra città piú fortunata è degli Achivi. Invasa io son del Nume; ma tuttavia, desisterò, per farlo, dal furor mio. Per una donna sola e per un solo amor, quelli per èlena rïaver, mille e mille alme perdettero. E il duce lor, che proclamato è saggio, quanto piú caro avea, perdé, per quanto era piú infesto: della casa il gaudio, la figlia sua, diede al fratello, a causa della sua sposa, che rapita fu di suo buon grado, e non a forza. E quando dello Scamandro su le rive giunsero, morirono, non già perché minaccia fosse ai confini della terra o agli altri recinti della patria. E quei che caddero, non li videro i figli, e dalla mano della sposa non fûr nei pepli funebri composti, e in terra stranïera giacciono. E nella patria loro, altro avveniva: morian le donne vedove, di figli orbi i parenti, che nutriti i pargoli avean per altri, e sulle tombe loro nessuno verserà sangue di vittime. L'elogio è tal che merita l'esercito. Meglio tacere è poi le turpitudini: né la mia Musa cantatrice tale divenga mai, che le sozzure memori. Ed i Troiani, invece, pria morirono, fulgida gloria, per la patria; e quelli che la lancia abbatteva, addotti spenti alle lor case dagli amici, involucri nel patrio suolo ebber di terra, e il tumulo estrusse allor chi lo voleva. E quanti morîr dei Frigi nella pugna, in casa, giorno per giorno, con le spose e i figli, gioia agli Achivi sconosciuta, vissero. Ed il destino d'Ettore, che lugubre ti sembra, odi qual fu. Morí, poi ch'ebbe fama d'eroe conquisa; e ciò gli fecero gli Achei, venendo a Troia: ov'essi fossero restati in patria, il suo valor sarebbe rimasto ignoto. E Paride, la figlia sposò di Giove: senza quelle nozze, del parentado niun parlato avrebbe. CORO: Come dei mali tuoi soavemente ridi, ed intoni cantici, che certo il tuo stesso cantar falsi dimostra. Taltìbio: Se te demente non rendesse Apollo, impunemente ai duci miei congedo dare da Troia con sí tristi auguri, tu non potresti. No, chi saggio e accorto sembra, non val piú di chi nulla vale. Il supremo signor di tutti gli Ellèni, il figliuolo ad Atrèo caro, l'amore prescelto s'addossò di questa Mènade. Poverello sono io; ma non l'avrei voluta sposa. E a te, che il senno a posto non hai, perdóno i biasimi agli Achivi, gli encomî ai Frigi; e i venti li disperdano. Seguimi, del mio duce o sposa bella, verso le navi. E tu, quando comandi di Laerte il figliuol, dovrai seguirlo: serva sarai d'una donna pudica, a quanto dicon quei che ad Ilio vennero. Cassàndra: Che cianciatore è questo servo! Il nome perché dànno d'araldi a questi famuli e di tiranni, e di città, che l'odio son degli uomini tutti? Andrà, tu dici, serva mia madre alla casa d'Ulisse? E dove son gli oracoli d'Apollo, espressi a me, che qui morta sarebbe? Taccio l'altre ignominie. O sciagurato, egli non sa che pene ancor l'attendono! Oro, al confronto, gli parranno i mali dei Frigi, i miei: ché dieci anni, oltre quelli trascorsi qui, passare ancor dovranno, pria che soletto alla sua patria giunga: non sa lo stretto ove abita Cariddi, fra le rupi tremenda, e non l'alpestre d'umane carni vorator Ciclope, né la ligura Circe, onde sembianza l'uomo assume di ciacco, e non le navi frante tra i flutti, né il desio del loto, né i buoi sacri del Sole, onde le carni emetteranno un dí voce che amara suoni ad Ulisse. E ad esser breve, all'Ade scenderà vivo, e, al pelago sfuggito, in casa troverà mali infiniti. Ma perché contro il destino d'Odisseo scaglio i miei dardi? A uno sposo nell'Averno devo unirmi: or non si tardi. Sull'esequie tue, che tristo sei, che insigne sembri, o duce degli Achei sommo, saranno tristi tenebre, e non luce. Il mio corpo, giú scagliato nei burroni dove piomba dei torrenti l'acqua, ignudo, del mio sposo sulla tomba, pasceran le fiere: e famula fui d'Apollo. O dell'Iddio caro a me su tutti, bende, delle feste infule, addio. Io le sagre ove incedevo già superba, ecco, abbandono: da me lungi ite, vi lacero, sinché pura ancora io sono: alle brezze, che le sperdano, Dio profeta, io le consegno. In qual nave ho da salire? Del signore dov'è il legno? Se propizio il vento spira, non tardare, ed apri i lini; con me tu da questa terra una adduci dell'Erínni. Madre, salve: e tu non piangere. E tu, padre, e voi, germani già sepolti, lungo tempo non saremo ancor lontani: tra i defunti, coronata di vittoria, io verrò presto: ché il lignaggio avrò distrutto degli Achivi a noi funesto. (Esce con Taltìbio e le guardie. ècuba piomba al suolo) CORO: Vedete, o dell'antica ècuba ancelle, come piombata senza voce al suolo è la regina vostra? Or soccorretela. O patirete che una vecchia resti cosí prostrata, o tristi? Sollevatela. ècuba: Qui dove io caddi, poiché il grato ufficio grato non m'è, lasciatemi ch'io giaccia, o fanciulle: giacer s'addice a ciò che soffro, che soffersi, e soffrirò. O Numi - invoco in voi tristi alleati, lo so, ma pure è qualche illusïone i Celesti invocar, quando ci coglie la mala sorte - io voglio adesso il bene che un tempo ebbi, cantar: pietà maggiore cosí le mie sciagure ispireranno. Regina fui, d'un re sposa; e da lui ottimi figli m'ebbi; e non il numero m'è vanto inane: i primi eran tra i Frigi. Nessuna donna di Troia né d'Ellade, né barbara, menar vanto potrebbe d'averne tali procreati, e tutti cader li vidi sotto l'aste d'Ellade, e su le tombe i lor crini recisi, e quei che vita in loro infuse, Priamo, non per udita altrui morto lo piansi, ma sopra l'ara del recinto io stessa immolare con questi occhi l'ho visto, e la città cadere. E le mie figlie io le crebbi a prescelto onor di sposi, ma per altri le crebbi; e dalle mani mi furono strappate; e non ho speme ch'esse mai piú mi veggano, nè ch'io piú vegga loro. E, culmine di mali ultimo, schiava andrò, già vecchia, in Ellade. E le bisogne che meno convengono alla vecchiaia, a me quelle imporranno: o rimanere a guardia, io madre d'Ettore, delle porte ai serrami, o fare il pane, e al rugoso mio dorso aver giaciglio la nuda terra, e letti ebbi regali, e vesti sopra le consunte membra indossare consunte, e disdicevoli a chi visse già ricco. Ahi, me tapina, quante sventure, a causa d'una infida sposa, già m'ebbi, e quante ancor n'avrò! O figlia mia, partecipe dell'estro divin, Cassàndra, e tu, per che sciagure la purità perdesti! E dove sei tu, Polissèna misera? Ahi, né figlio mi soccorre, né figlia; e tanti n'ebbi, povera me. Perché mi sollevate dunque? Per che speranza? Il pie' che a Troia incedeva superbo, ora guidate ove giaciglio avrò di terra, e sassi per origliere, ch'io vi cada, e muoia, di lagrime distrutta. Oh, non crediate felice, innanzi che sia morto, alcuno. (Si accascia di nuovo al suolo) CORO: Strofe O Musa, per Ilio intona fra lagrime il canto funereo degl'inni novelli che adesso per Troia m'appresto a cantare. Come io per il cocchio dall'orma quadruplice perduta fui, misera, fui schiava agli Argivi, allor che dinanzi alla porta il cavallo dagli aurei frontali lasciâr, pieno d'armi, che al cielo mandava il rimbombo. E, asceso sovr'essa la rocca, il popol di Troia gridò: «Cessaron le pene: quest'idolo, su dunque, alla vergine d'Ilio offrite, alla figlia di Giove». Chi mai non uscí dalla casa, delle giovani, chi dei vegliardi? E, gioendo, canzoni intonando, accolsero il loro esterminio, Antistrofe E tutti alle porte accorsero i Frigi, stupiti ammirando l'agguato dei Dànai, nel pino montano foggiato; e alla Vergine ambrosia, che giogo non sa, lo donarono, a pari di scafo di negro naviglio con funi di lino l'addussero alle sedi marmoree di Pallade, al suolo che scorrer doveva del sangue dei nostri. E sopra il travaglio ed il gaudio calò la notturna caligine. E il flauto di Lidia suonò, e i canti di Frigia; e le vergini, dei pie' fra l'aereo scalpito, levarono un cantico lieto. E il baglior delle faci, irrompendo nelle case, il fulgore languente sopiva dei fuochi domestici. Epodo Frattanto io, nel tempio d'Artèmide alpestre, la vergine figliuola di Giove, cantavo, danzavo; ed un ululo sanguineo s'effuse per tutta la città, per le strade di Pergamo. I pargoli cari tendevano le mani sgomente, a stringere i pepli alle madri; e Marte proruppe dall'agguato, e fu opra di Pàllade. Cominciarono, all'are d'intorno, le stragi dei Frigi. Le vergini recidevan le chiome nei talami, cordoglio alla patria dei Frigi, corona pei figli dell'Ellade. (Si vede giungere un carro, e sopra Andròmaca col figlio Astianatte. Accanto a lei le armi di Ettore ed altre armi predate ai Troiani) CORIFEA: A noi giunge, vedi, ècuba, tratta sopra un cocchio degli Ellèni, Andròmaca. Sul suo sen tutto palpiti, è il figlio d'Ettore, Astïanatte. O infelice, dove mai, di quel carro sul dorso tratta sei, presso all'armi di bronzo del tuo sposo, e alle spoglie dei Frigi predate con l'armi, onde il figlio d'Achille farà, tornato da Troia, ghirlanda ai templi di Ftia? Andròmaca: Strofe prima Mi traggono i miei - signori: gli Achei. ècuba: Ahimè! Andròmaca: Qual peana tu plori... ècuba: Ahimè! Andròmaca: pei miei dolori... ècuba: O Dio! Andròmaca: per la trista mia sorte? ècuba: O figli! Andròmaca: Siam giunti alla morte. ècuba: Antistrofe prima Distrutta è Troia, - distrutta è la gioia. Andròmaca: Tapina! ècuba: O miei figli fiorenti! Andròmaca: Ahi ahi! ècuba: Ahi che tormenti... Andròmaca: m'angosciano! ècuba: O trista fortuna... Andròmaca: di Troia... ècuba: che in cenere fuma! Andròmaca: Strofe seconda Vieni, o mio sposo, vieni. ècuba: Il figlio mio, che posa nell'Ade invochi, misera! Andròmaca: Soccorri la tua sposa. ècuba: Antistrofe seconda E tu, scorno degli Ellèni... Andròmaca: e tu, vegliardo Prìamo, ècuba: tu, de' miei figli padre... guidami giú nell'Ade. Andròmaca: Grandi son tali brame. ècuba: Grandi, o misera, i nostri dolori. Andròmaca: Caduta è la città. ècuba: Sopra doglie s'aggravano doglie. Andròmaca: Per il corruccio dei Numi, poiché a morte sfuggiva il tuo figlio, che per un letto odïoso distrusse la rocca di Troia. Presso Pàllade stese, preda ai vulturi, stanno le salme sanguinolente. Il giogo servile egli a Troia acquistò. ècuba: O patria sventurata... Andròmaca: mentre io t'abbandono, ti piango. ècuba: Vedi or la misera fine... Andròmaca: e la casa ove madre io divenni. ècuba: Deserta è Troia: o figli, la madre da voi si separa. O quanto il mio tormento, o quale il mio canto di doglia! Or nella nostra casa su lagrima lagrima stilla. Ma piú non versa pianto chi, spento, dimentica i crucci. CORIFEA: Come son dolci, a chi soffre, le lagrime, e i tristi canti delle nenie, e i gemiti! Andròmaca: Madre dell'uom che tanti Argìvi spense, vedi queste sciagure, o madre d'Ettore? ècuba: L'opere vedo dei Celesti, come esaltano i da nulla, e i grandi abbattono. Andròmaca: Preda son tratta con mio figlio. Fui nobile, e schiava son: mutò mia sorte. ècuba: Terribile è il destino: or or Cassàndra fu da me lungi trascinata a forza. Andròmaca: Ahi ahi! Un altro Aiace, a quel che dici, apparve per la tua figlia: e mali altri ti premono. ècuba: Mali senza misura e senza numero, che l'uno contro l'altro a gara vengono. Andròmaca: Polissèna tua figlia, fu sul tumulo spenta d'Achille, offerta a salma inanime. ècuba: Ecco, misera me, ciò che Taltìbio in via d'enigma, e non chiaro, mi disse. Andròmaca: La vidi io stessa; e giú dal carro scesi, di pepli la coprii, la salma piansi. ècuba: Ahi scellerato sacrificio! Ahi ahi figlia, quanto la morte tua fu trista! Andròmaca: Fu quale fu la morte sua; ma pure miglior destino ebbe di me, che vivo. ècuba: Non son tutt'uno vivere e morire. La morte è il nulla; ma chi vive spera. Andròmaca: Non son le tue parole ineccepibili, o madre. Odimi e in cuor qualche sollievo accoglierai. Morire e non esistere la stessa cosa, dico io, sono; e meglio vale morir, che turpemente vivere. Niun male sente e niun dolore un morto; ma chi, beato un dí, piomba in miseria, l'alma si danna, ripensando al tempo della ventura. Polissena, come se mai la luce vista non avesse, è spenta, e nulla piú sa dei suoi mali. Io, che alla buona fama ebbi la mira, poi che l'ottenni, tanto piú frustrata fui da fortuna. Quante si registrano femminili virtú, tante solevo esercitarne nella casa d'Ettore. E prima, i luoghi ove una donna, solo con la presenza, o buono o tristo sia il suo contegno, mal nome s'attira, io ne scacciai la brama, e in casa stetti. E in casa non lasciai che penetrassero le adorne ciance femminili; e il senno maestro ottimo avendo, a me bastai. E sereno lo sguardo e muto il labbro al mio sposo offerivo; e ben sapevo quando io dovessi averla vinta, e quando la vittoria lasciare a lui dovessi. E questa fama, degli Achivi giunta all'esercito, me trasse a rovina: ché, poi che presa io fui, d'Achille il figlio sposa mi volle avere; e nella casa degli assassini nostri io sarò schiava. Or, s'io da me respingo il caro volto d'Ettore, e schiudo al nuovo sposo l'anima, trista al defunto sembrerò: se l'odio, odïata sarò dai miei signori. Dicono, è vero, che una notte basta l'odio a placare che una donna nutra per il letto d'un uom; ma quella femmina che il primo sposo per un nuovo talamo repudia, ed ama un altro, io l'aborrisco. Sin la puledra, dalla sua compagna separata, a malgrado il giogo soffre; e un bruto è pur, senza parola od uso di senno, e inferïore è per natura. E sposo qual bramavo, Ettore, io t'ebbi, per nobiltà, per senno, per ricchezza, per insigne valore. E intatta dalla casa del padre tu m'avesti, e primo nel mio virgineo letto entrasti. E adesso tu sei caduto, ed io, sopra un battello, tratta a giogo servil sarò ne l'Ellade. Mal minore non trae seco la morte di Polissèna, che tu piangi? A me nemmeno resta la speranza, l'ultimo ben di tutti i mortali; e non m'illudo d'aver mai bene; eppur, soave è illudersi. CORO: Siam di sciagura al punto istesso; e conscia dei miei cordogli il gemer tuo mi rende. ècuba: Mai non entrai nei fianchi d'una nave, ma per udita so, dipinto vidi come i nocchieri, quando affrontar debbono men tremenda tempesta, ogni lor zelo impiegano a salvarsi; e al timon questi corre, e un altro alle vele, e fa riparo dall'acqua un terzo alla sentina. Ma quando troppo sconvolto il pelago estua, s'abbandonano all'impeto dei flutti, s'affidano alla sorte. Anche io cosí, da tanti mali oppressa, muta resto, cedo senza parlar: ché mi soverchia dei mali il flutto onde gli Dei m'opprimono. Ma tu, figlia diletta, al suo destino Ettore lascia: richiamarlo in vita non potranno le tue lagrime: onora il tuo nuovo signore, e la lusinga cara offri a lui dei tuoi costumi: lieti con ciò tu renderai tutti gli amici, e di mio figlio il figlio alleverai, grande conforto a Troia, ove i suoi figli d'Ilio possano un dí novellamente le mura alzare, e la città risorga. Ma nuova a nuova s'avvicenda. Quale famulo degli Achei vedo, che nuovi divisamenti reca, e a noi s'appressa? (Giunge Taltìbio) Taltìbio: Non volermi odïare, o sposa d'Ettore, del piú prode tra i Frigi: a mal mio grado giungo, dei Dànai nunzio e dei Pelòpidi. Andròmaca: Che c'è? Sciagure il tuo preludio annunzia. Taltìbio: Deciso han che tuo figlio... Oh come dirlo! Andròmaca: Ch'abbia un altro padrone, e non il mio. Taltìbio: Niun degli Achivi sarà suo padrone. Andròmaca: Lo lascieran dei Frigi qui superstite? Taltìbio: Blande parole a dirti il mal non trovo. Andròmaca: Ti approvo, sol che un mal tu non m'annunzi. Taltìbio: Un male, e grande: uccideran tuo figlio. Andròmaca: Ahi, male delle nozze anche maggiore! Taltìbio: Convinse Ulisse l'assemblea, dicendo... Andròmaca: Ahimè dolor ch'ogni misura supera! Taltìbio: che sconvien d'un tal padre il figlio vivere, Andròmaca: Sui figli suoi ricada un tal giudizio! Taltìbio: e che bisogna giú scagliarlo dalle torri di Troia. E tu non far contrasto, e non serrarti al figlio; e i tuoi tormenti nobilmente sopporta. Alcun soccorso tu qui non hai. Considera. Perduto hai lo sposo e la patria, e schiava sei; e noi capaci siamo di combattere contro una donna sola. Ond'io t'esorto che tu lite non cerchi, e non commetta atto veruno indecoroso o basso, e neppure agli Achei scagli rimproveri. Ché, se tu dici motto onde l'esercito s'adiri, privo resterà di tomba, di nenie, il figlio tuo: se muta, in pace sopporterai le tue sciagure, il figlio non lascierai senza sepolcro, e piú benigni a te ritroverai gli Achivi. Andròmaca: O carissimo, o tu sopra ogni cosa adorato figliuolo, or la tua madre misera lascierai, morrai per mano dei tuoi nemici; e ucciso la grandezza di tuo padre t'avrà: che agli altri suole recar salute; e fu quel suo valore per te retaggio inopportuno. O letto mio sventurato, o nozze, o casa d'Ettore, dove un giorno entrai sposa, e non perché vittima un figlio procreassi ai Dànai, ma un sovrano alla fertile Asia. O figlio, tu piangi: intendi la sciagura tua? Perchè t'afferri con le mani a me, stringi le vesti mie, come augelletto ripari sotto l'ali mie? Dal suolo Ettore fuor non balzerà, stringendo la sua lancia tremenda, a tua salvezza, non del padre i parenti, e non la forza dei Frigi: un salto luttuoso, senza pietà, col capo in giú, spiccar dovrai, spirar l'alito estremo. O dilettissimo tenero amplesso per la madre, o dolce fragranza delle membra! Invano, dunque, te nelle fasce il sen mio nutricò, invan mi travagliai, mi macerai nelle fatiche! Or, la tua madre abbraccia, ché piú non lo potrai, sèrrati a me che t'ho concetto, al collo mio le braccia serra, la bocca alla mia bocca stringi. O inventori di pene orride, o Ellèni, questo fanciullo, d'ogni colpa scevro, perché mai l'uccidete? O tu, germoglio di Tíndaro, non sei figlia di Giove, ma molti i padri tuoi furono. Primo lo Sterminio, poi l'Odio, l'Assassinio, l'Invidia, e quanti orror nutre la terra. Mai non dirò che t'ha concetta Giove, Parca funesta a tanti Ellèni e barbari. A te la morte: ché coi tuoi bellissimi occhi, a turpe rovina hai sterminati gl'incliti campi della Frigia. Su, se scagliar lo volete, giú dai muri, prendetelo, portatelo, scagliatelo, le sue carni cibate: i Numi vogliono la mia rovina, e allontanar la morte da mio figlio non posso. (Consegna il fanciullo reluttante a Taltìbio) Or nascondete questo misero mio corpo, gittatelo dentro la nave. Ad un soave imene, or che perduto ho il mio figliuolo, io muovo! (Il carro la trascina via) CORO: Mille e mille hai perduto, o Troia misera, per una donna e un odïoso talamo. Taltìbio: O fanciullo, su, dunque, l'amplesso della misera madre abbandona, e t'avvia delle torri paterne verso l'alta ghirlanda: sentenza fu che quivi esalare lo spirito tu dovessi... Prendetelo. Oh, simili ambasciate affidar si dovrebbero ad un uom d'impudenza piú amico ch'io non sia, che pietà non conosca. (Parte, coi soldati che portano via Astianatte) ècuba: O fanciullo, o figliuolo del mio sventurato figliuolo, ci rubano la tua vita, a tua madre ed a me, empiamente. Che cosa farò? Come posso, tapina, soccorrerti? Questi colpi che vibro al mio capo, t'offro, queste percosse al mio seno, questo solo or posseggo. Oh città, oh fanciullo infelice! E che manca, che s'aspetta, perché sia completa la rovina in cui tutti crolliamo? (Cade nuovamente prostrata al suolo) CORO: Strofe prima Nell'isola d'api nutrice, re Telamóne, abitavi, in Salamina cinta dai flutti, dov'essa declive volgesi ai colli sacri là dove il germoglio da prima fece sbocciare Atèna del glauco ulivo, ghirlanda celeste, ornamento d'Atene opulenta. Quindi movesti, movesti - col figlio d'Alcmèna, maestro dell'arco, per compier la gesta, distrugger la nostra città, allor che da l'Ellade tu prima partivi. Antistrofe prima Quando ei, pei puledri crucciato, primo de l'èllade il fiore condusse, e del Simèta fermò su le belle fluenti le navi solcatrici del mare, e le gómene strinse da poppa, e l'arco tolse che mai non falliva, per Laomedonte fatale, e i muri coi moduli estrutti di Febo, con la furia purpurea del fuoco abbatté. La terra di Troia, e le mura dardanie, con duplice cozzo due volte distrusse la lancia cruenta. Strofe seconda Invano, dunque, molle incedendo fra gli aurei calici, di Laomedonte progenie, colmi le coppe di Giove, ufficio su ogni altro bellissimo. Ma la tua patria le fiamme divorano; e le spiagge del pelago echeggian, quasi aligeri che su gl'implumi strepono. Queste gli sposi, i figli altre, le vecchie madri altre ancora piangono. I tuoi lavacri roridi, le palestre e le rapide lizze non sono piú. Ma presso al soglio di Giove, il viso tuo sereno, amabile, brilla di grazie colmo; ma struggon le cuspidi degli Ellèni la terra di Priamo. Antistrofe seconda O Amore, Amore! - Spirando un giorno nel cuore ai Superi, giungesti alle case di Dàrdano. Deh, come allora esaltare tu Ilio sapesti, a che vertici, quando fra i Numi e lei stringesti un vincolo! Taccio di Giove il biasimo. Ma con luce funerea Aurora, cara agli uomini dall'ali bianche, oggi mirò di Pergamo la terra e lo sterminio. Eppur, quivi ebbe origine lo sposo del suo talamo padre ai suoi figli. Lo rapí tra i sideri l'aurea quadriga. E fu per la sua patria grande speranza; ma furono sperse di Troia le lusinghe che i Numi allettarono. (Giunge Menelào) Menelào: Quanto è, raggio del Sol, bello il tuo lume, oggi ch'io riaver la sposa mia, èlena, posso! Ch'io son Menelào da tanti mali travagliato; e questo è l'esercito achivo. E a Troia io venni, non, com'è fama, a causa d'una femmina, bensí d'un uomo, che rapí la sposa mia dalla reggia, ospite infido. Ora egli, come voller gli Dei, scontò la pena, egli e la sua città, caduta sotto le lance Ellène; e la Spartana a prendere io vengo qui: ché della donna il nome che fu mia sposa, non dirò. Fra l'altre prigioniere di Troia, in questa tenda ella or si trova. Quelli che patirono per riaverla, in guerra, or l'affidarono, ch'io l'uccidessi, a me: se pur non voglio ricondurmela in Argo, e non ucciderla. Ed io decisi che il destino d'èlena non si compiesse in Troia, e in terra d'Ellade sopra le navi ricondurla, e là in mano darla a quanti ebbero morti presso a Troia i lor cari, e quei l'uccidano. Su via, ministri, nella tenda entrate, conducetela qui, per quella sua obbrobrïosa chioma trascinatela. Come da terra spirerà propizia la brezza, la ricondurremo in Ellade. ècuba: Tu che sostegno della terra sei, e in terra hai sede, o Giove, o sopra ogni altro arduo concetto, o che tu sia degli uomini illusïone, o di natura legge fatal, t'imploro: ché per muto tramite movendo, tu giustizia arrechi agli uomini. Menelào: Chi sei? Qual nuova prece innalzi ai Superi? ècuba: Io ti lodo, se tu la sposa uccidere vuoi, Menelào; ma se la vedi, fuggi ché con la brama non t'adeschi. Affascina essa gli occhi degli uomini, le case brucia, dirocca le città. Lusinghe ha troppe: io, tu, quanti patîr, lo sanno. (Durante le ultime parole di ècuba, le guardie hanno trascinato fuori dalla tenda èlena, vestita e agghindata con somma cura) èlena: O Menelào, questo preludio è tale ch'io ne sgomento. Fuor di questa tenda qui tratta fui dai servi tuoi. So bene che oggetto d'odio io son per te; ma pure, dimandare ti vo': qual fu degli Elleni la sentenza per me? quale la tua? Menelào: Non ci fu dubbio: a me che offeso avevi tutti a un voto ti diêr, ch'io t'uccidessi. èlena: Lecito è ch'io parole aggiunga, e provi che ingiusta, se morrò, sarà la morte? Menelào: Non a discuter venni, anzi ad ucciderti. ècuba: Odila, Menelào, ché di tal grazia non muoia priva; e affida a me la replica. Del mal che in Troia ella commise, nulla tu sai: quando saran tutte raccolte le accuse, non potrà schivar la morte. Menelào: Sarà tempo perduto. Eppur, se vuole, parli. Ma sappia ben ch'io lo concedo per udir te, non già per compiacerla. èlena: Forse, ch'io parli bene o mal, rispondermi tu non vorrai, ché a te mi credi infesta. Ma le accuse che tu, parlando, immagino, mi volgeresti, tenterò ribattere. La prima causa generò dei mali nostri, costei, che diede a luce Paride. Secondo, il vecchio fu, che non uccise pargoletto Alessandro, in sogno apparso come lugubre face. E adesso, ascolta il resto, come andò. Vennero tre Dive, triplice gruppo, al suo giudizio. Ad Alessandro Pàllade promise che, condottier dei Frigi, ei conquistata tutta l'èllade avrebbe. Era promise che dell'Asia i confini e dell'Europa, quando il vanto a lei desse, avrebbe Paride. La mia persona a lui promise Cípride, e l'esaltò, se nella gara avesse l'altre Dee superate. Ora, considera quali ne fûr le conseguenze. Cípride vinse le Dive; e un tal vantaggio agli Elleni han procurato le mie nozze, che non conosceste signoria di barbari, né doveste impugnar l'arme a respingerle, né tirannia. Ma quello che per l'Ellade fortuna fu, sventura fu per me, ché fui venduta per la mia bellezza, che d'obbrobrio coperta son per cause onde al capo dovrei corona cingere. Dirai che ancor non ho toccato il punto piú prossimo: come io dalla tua casa fuggii di furto. Una possente Diva con sé condusse il Dèmone maligno, d'ècuba figlio, o Paride o Alessandro che tu voglia chiamarlo. E in casa tua tu lo lasciavi, o malaccorto sposo, sopra un legno salivi, e andavi a Creta. E volgo una domanda, or, non a te, anzi a me stessa. Che mi venne in mente, che il mio letto lasciai, tradii la patria mia, la mia casa, e, tenni dietro a un barbaro? La Dea punisci, e piú possente renditi di Giove, ch'è signor degli altri Dèmoni, servo di quella: onde perdono io merito. Ma specïoso un argomento addurre tu vorrai contro me. Poi che Alessandro della terra calò morto negli aditi, sciolte oramai le nozze, opra dei Superi, la sua casa lasciare avrei dovuto, ed alle navi degli Achei fuggirmene. Bene prova io ne feci; e testimonî delle torri i custodi esser mi possono, e le vedette delle mura, che fuor dai merli piú volte mi trovarono, ad una fune, per fuggire, appesa. Ma Dëífobo, il mio nuovo signore, rapita a forza mi tenea sua sposa, contro il voler dei Frigi. Or dunque, come potrai la morte giustamente infliggermi, o signor mio, se fui sposata a forza, e il ben che la mia patria ebbe per me, non trofei di vittoria, anzi mi frutta amara schiavitù? Se tu pretendi i Numi dominar, pretesa è stolta. CORIFEA: La patria, i figli tuoi, regina, vendica e confuta i suoi detti: essa favella bene, ed è trista: è questa arte terribile. ècuba: Difender prima io vo' le Dee, mostrare che il giusto essa non parla. Era, e la vergine Pàllade, io mai non crederò che giungere a tal follia potessero, che quella Argo vendesse ai barbari, che Pàllade ponesse Atene in servitú dei Frigi. Per lusinga, per gioco, esse convennero sull'Ida a gara di bellezza. E a che Era tanta mai brama avrebbe avuto d'aver la palma di beltà? Di Giove uno sposo miglior cercava forse? A qualche sposo Atèna, in mezzo ai Numi dava la caccia, ella che al padre chiese schivar le nozze, e restar sempre vergine? Per mascherare il vizio tuo, non fingere stolte le Dee: ché non convinci i savî. Hai detto - e questa è poi troppo ridicola - che con mio figlio Cípride alla casa giunse di Menelào. Ché, non poteva, tranquilla in cielo rimanendo, te con tutta Amícla trasportare ad Ilio? Ma troppo insigne per bellezza fu mio figlio; e come lo vedesti, Cípride per te divenne la tua brama. Gli uomini ad Afrodite tutte quante addossano le follie proprie; e nelle prime sillabe del nome della Dea la follia suona. Come, lucente d'or, nelle sue vesti barbare t'apparí, folle di brama tu divenisti, ché vivevi in Argo povera vita; ma, lasciando Sparta per la città dei Frigi, ove dell'oro scorreano i fiumi, di guazzar nel fasto certo credevi. A te, di Menelào la casa non bastò, per le sfacciate lascivie tue. Su via, dici che a forza il mio figliuolo ti rapí. Ma quale degli Spartani mai t'udí? Qual grido levasti? Eppure, il giovinetto Càstore viveva ancóra, e il suo gemello: ancóra non erano fra gli astri. E quando a Troia giungesti, e sulle tue traccie gli Argivi, ed era il cozzo di battaglia, quando a Menelào propizia era la sorte, tu lo esaltavi, per crucciar mio figlio, ché un insigne rivale in lui vedesse: quando i Troiani poi vinceano, nulla era piú Menelào. Solo badavi alla fortuna, in guisa tal, che sempre tu la seguissi: e nulla alla virtú. Di funi, dici, il corpo tuo stringevi, per giú calare dalle torri, come se mal tuo grado tu fra noi restassi. Ma quando fosti mai trovata, che lacci appendessi, od affilassi un ferro, come una donna generosa avrebbe fatto, per brama del suo primo sposo? Eppure, quante volte io t'ammonivo: «O figlia, parti! I miei figliuoli avranno altre consorti, ed io farò che tu torni di furto ai legni Achivi: termine poni alla guerra tra gli Ellèni e noi». Ma questi detti amari ti sembravano, ché nella casa d'Alessandro tu superbire volevi, aver dei barbari l'omaggio: a cuor ti stava molto. E adesso, per venir fuori ti sei fatta bella, e l'aria stessa che il tuo sposo mira, miri, o donna esecranda! E qui dovresti venir come pitocca, avvolta in cenci tremando a verga a verga, e rasa il capo come una Scita, ed umiltà mostrare, non impudenza, pei tuoi falli antichi. Ora odi, o Menelào, ciò ch'io concludo: cingi a l'èllade un serto, èlena uccidi, e tale norma fissa anche per l'altre femmine: chi tradí lo sposo, muoia. CORIFEA: Degli avi tuoi, della tua casa degno móstrati, Menelào, la sposa uccidi, ché fiacco te chiamar non debban gli Elleni quando ai nemici tuoi prode apparisti. Menelào: Coincidono i tuoi coi miei pensieri, che costei di buon grado abbandonò la casa mia, nel letto entrò d'un altro, e che il suo mentovar Cípride, fu vana iattanza. (Ad èlena) Va' dove t'attendono per lapidarti; e i patimenti lunghi sconta in brev'ora degli Achei, morendo; e a non coprirmi d'onta apprenderai. èlena: No, ti scongiuro, il mal che i Numi vollero non m'imputar! Perdona, non uccidermi! ècuba: Non tradir gli alleati che morirono per lei: per essi e i lor figli ti supplico. Menelào: Taci, vecchia; per lei non ho riguardi. Dico ai ministri che dei legni a bordo ove in patria tornar deve la rechino. (èlena è trascinata via) ècuba: La stessa nave tua, deh, non ascenda! Menelào: Perché? Pesa piú forse ora che avanti? ècuba: Non c'è amante che amor sempre non serbi. Menelào: Secondo il cuor di chi riscosse amore. Ma sarà come vuoi: nella mia stessa nave non entrerà: ché mal non parli. E, giunta in Argo, morirà di trista morte, la trista, come essa n'è degna, ed a tutte le donne insegnerà che si deve esser caste. Non è facile; ma pur, la fine di costei, terrore nella loro follia susciterà, anche se infeste piú fossero d'èlena. CORO: Strofe prima Or cosí, Giove, il tempio d'Ilio, e l'are balsamiche hai tradite agli Achèi, e il fumo dell'eterea mirra, e le fiamme dei libami, e Pergamo, Pergamo, la città sacra, e gl'Idèi valloni, ombrati d'ellera, ove disciolte nevi erran di fiumi, e, santissima sede, il sommo vertice, ove prima del sole ardono i lumi. Antistrofe prima Tutto è finito: e vittime, e feste, fra le tenebre notturne, ai Numi, e suono fausto di balli, e statue d'oro, e il rito santissimo di Frigia delle dodici lune. Incerta io sono, o Signor che nell'ètere abiti, incerta io son se la tua mente alla nostra città volgi, cui l'impeto ha divorata della vampa ardente. Strofe seconda O sposo, o diletto, né tumulo né lavacro tu avesti; ed or vagoli defunto; e una nave, con impeto alivolo, ad Argo prolifera di corsieri ne adduce, oltre il pelago, dove al cielo si levano pietre - di mura ciclopie. E in braccio alle madri, fra lagrime si lamenta una turba di pargoli. E geme la vergine: «Madre, ahimè, ché soletta mi strappano da te lunge gli Achei, con la furia dei remi, sul ceruleo naviglio, alla santissima Salamina, od all'istmio duplice eccelso vertice, dove, dicon, di Pèlope le soglie si dischiudono». Antistrofe seconda Deh, quando nel mezzo del pelago Menelào sarà giunto, del folgore il duplice sacro barbaglio in mezzo alla nave precipiti nell'Egeo, mentre me dalla patria servitú lagrimosa conduce - lontano nell'èllade. Frattanto, nell'aureo specchio, di fanciulle delizia, la figlia di Zeus si vagheggia. Deh, la terra piú mai di Lacònia non rivegga, né l'ara domestica, nella città di Pítane, né della Dea la bronzea porta, poiché la femmina riprese, che per l'èllade obbrobrio fu, pei vortici del Simoenta sterminio. (Giunge Taltìbio con guerrieri che recano il cadavere d'Astianatte) CORO: Ahimè, ahimè! S'avvicenda novella sciagura a novella sciagura, sul suolo di Troia. Mirate, o consorti dei Troiani infelici, il cadavere d'Astïanatte. Lo scagliarono giú dalle mura con impeto amaro; e lo recano quei che l'uccisero. Taltìbio: ècuba, immoti d'una sola nave restano i legni, e quanto del bottino riman del figlio del Pelíde, a Ftía trasporteranno: in mare Neottòlemo s'è messo già, ché di Pelèo novelle ricevé tristi: ché scacciato Acasto, figlio di Pelia, l'ha dalla sua patria. Brama perciò di rimaner non ebbe, e partí senza indugio, e seco Andròmaca, che a versar mi costrinse amare lagrime, quando la terra abbandonò, la sua patria, gemendo, salutando il tumulo d'Ettore, e al nuovo suo signore chiese di dar sepolcro a questa salma, al figlio d'Ettore tuo, che giú piombò dai muri, e l'anima spirò: chiese che questo scudo di bronzo, che portar soleva, schermo al suo fianco, il padre suo, di Pèleo non lo recasse al focolare, né al suo talamo, dove essa, la madre del pargoletto, Andròmaca, andrà sposa, a contristar gli occhi di lei; ma in quello si seppellisca il pargolo, e non già in recinto di pietra, e non in tavole di cedro: chiese che alle mani tue s'affidasse il cadavere, perché tu di bende l'ornassi e di corone, quanto la forza te ne basta, quanto il tuo stato consente, or ch'è partita la madre sua: ché del signor la fretta le proibí di dar sepolcro al figlio. Quando la salma ornata avrai, di terra la copriremo noi; poi salperemo. L'opera tua tu dunque affretta. Io t'ho risparmïata una fatica. Quando traversai lo Scamandro, ho nei suoi gorghi lavato il corpo e terse le ferite. Ora la terra a fender vo', la fossa scavo, sicché l'opera mia, la tua, congiunte a un tempo, la partenza affrettino. ècuba: Al suol ponete dello scudo d'Ettore l'orbe: lugubre vista agli occhi miei, e men che grata. O Achei, per l'armi insigni piú che pel senno, e che mai temevate, che con novello scempio avete ucciso questo fanciullo? Ch'ei Troia abbattuta risollevasse un dí? Nulla eravate, dunque, allorché pugnava Ettore, e seco mille e mille altre schiere, ed anche noi sopraffatti eravamo? E adesso, che Troia è caduta, e sterminati i Frigi, d'un fanciullo temete? Il terror, quando invade i cuor senza ragione, io biasimo. - Deh, quanto sciagurata, o dilettissimo, fu la tua morte! Se caduto fossi per la patria pugnando, o già godute la gioventú, le nozze avessi, o il regno che l'uom pari agli Dei rende, felice ti chiamerei, se pur felicità in tali cose esiste. Or tu, nessuna di queste cose sai, né di scïenza, figlio mio, né di prova: il bene in casa avevi, e nulla pur tu ne godesti. Come, infelice, le paterne mura, opra di Febo, dal tuo capo i riccioli hanno estirpati! Li educò la madre, di baci li copriva: adesso ride dall'ossa infrante il sangue: io dir non voglio parole orrende! O mani, in cui soave delle mani paterne è ancor l'impronta, come dinanzi a me giace la vostra compagine distrutta! O caro labbro, che tanti e tanti puerili canti pronunciavi, or sei spento! E tu mentivi quando, saltando sul mio letto: «O madre - dicevi - un lungo ricciolo per te reciderò delle mie chiome, e schiere guiderò di compagni al tuo sepolcro, dolci saluti a te rivolgerò». Ed or, non a me tu, ma io, vegliarda senza patria né figli, a te fanciullo darò sepolcro, al tuo misero corpo. Ahi son finiti i tanti baci, e i giorni ch'io ti nutrivo, i tuoi sonni vegliavo. Un poeta che mai scriver potrebbe sulla tua tomba? «Uccisero gli Argivi questo fanciullo, per temerlo». O epigrafe vituperosa per gli Ellèni! Or tu non fosti erede dei paterni beni, ma pure avesti il suo scudo di bronzo, dove sepolcro avrai. - Scudo, che il braccio d'Ettore bello un dí schermivi, hai perso l'ottimo tuo custode. Oh, come dolce l'impronta del suo braccio è nell'anello, e nel tornito orbe il sudor, che spesso Ettore stanco, al viso avvicinandolo, dalla fronte stillava. - Ora da quanto abbiam, prendete ciò che servir possa a ornare il morto. Non consente il Dèmone pompe d'esequie: avrai quanto posseggo. (Alcune donne entrano nella tenda) Oh, dissennato l'uom che salda reputa la buona sorte, e se n'allegra. Simili ha fortuna i costumi all'uom volubile, e balza ora da un lato, ora da un altro, né sempre resta presso l'uom medesimo. (Escono le donne recando ornamenti funebri) CORIFEA: Vedi, che frigie spoglie in su le braccia, a ornar la salma, queste donne recano. ècuba: I giovani tuoi pari, o figlio, vinti non hai dell'arco, o nelle gare equestri, che nei frigi costumi han pregio, senza peccar d'eccesso; eppur, questi ornamenti su te del padre tuo la madre pone, dei beni che un dí tuoi furono, avanzi. èlena adesso, odio dei Numi, a te tutto ha rapito, e l'anima per giunta ti tolse, e strusse la tua casa tutta. CORO: Ahi, ahi! Tocchi il mio cuore, tocchi il mio cuore, tu che supremo esser dovevi d'Ilio signore. ècuba: L'ornamento che tu cinger dovevi di frigie vesti, il dí di nozze, quando sposata avessi la piú nobil figlia d'Asia, ecco, adatto alle tue membra. E tu, che madre bella un dí fosti d'innumere vittorie, o targa d'Ettore diletta, il serto accogli: insiem con questa salma tu muori, ancor che tu non muoia. Degna d'onore sei molto piú tu, che l'armi del frodolento, del ribaldo Ulisse. CORO: Ahimè, ahimè! La terra, o amaro spasimo, o figliuolo, t'accoglie. Gemi tu, madre... ècuba: Ahimè! CORO: l'inno dei morti. ècuba: Ahimè, ahimè! CORO: Intollerabili son le tue doglie. ècuba: Le piaghe tue di bende io cuopro: misero medico, sol di nome, e non già d'opere! Tuo padre al resto penserà, fra i morti. CORO: Colpisci la fronte, la mano vi lasci l'impronte. Ahimè, ahimè! ècuba: O donne carissime! CORO: ècuba parli ad amiche, Tu gridi. Perché? ècuba: Dunque, null'altro che la mia rovina vollero i Numi. Piú d'ogni città Troia odïosa ad essi fu: le vittime su l'are vanamente arsero. Eppure, se noi sepolti avesse il Dio, la terra tutta di sotto in su capovolgendo, noi saremmo scomparsi, e senza avere canti largiti alle future genti, privi d'inni saremmo. Orvia, la salma seppellite nel suo povero tumulo. Quanto i defunti ornar deve, egli ottenne. Ed agli estinti poco importa, immagino, che ricca esequia in loro onor si celebri: di chi vive son queste inani pompe. (Dei soldati portano via la piccola salma) CORO: Ahimè, ahimè! La tua povera madre, disperse con te vide le grandi sue spemi. Assai fosti creduto felice pei nobili padri onde tu discendevi; ma ora soccombi ad orribile morte! (Da lungi si vedono brillare i fuochi dell'incendio di Troia) Ahimè, ahi! Quali mai sulle vette di Troia vedo mani che vanno ondeggiando ardenti di fiaccole? Ad Ilio sovrasta novella sciagura! (Entra Taltìbio) Taltìbio: Ai capitani a cui fu ingiunto ch'àrdano di Prìamo la città, l'ordine reco che pigra in man la fiamma piú non serbino, anzi appicchino il fuoco, onde rovini la città d'Ilio, e noi lieti partire possiam da Troia. E voi, fanciulle d'Ilio - poi che deve due volti avere il mònito - allor che i duci delle schiere facciano della tromba suonar chiaro lo squillo, movete ai legni degli Achei, sicché dalla terra partiate. Infelicissima vecchia, e tu segui. Ecco, i ministri giungono d'Ulisse: a lui, come la sorte volle, schiava esser devi, e abbandonar la patria. ècuba: Oh me tapina! Delle mie sciagure è questo il punto estremo, è questo il termine: dalla patria io mi stacco, è la città preda alle fiamme. Orsú, mio piede antico, affretta, anche a fatica, ond'io la misera città saluti. O Troia, che fra i barbari grandezza un dí spiravi, il tuo gran nome perderai presto. Arsa tu cadi, e noi strappano schiave dalla patria. O Numi!... Ma perché dunque i Numi invoco? Furono anche prima invocati, e non udirono. Su, corriam verso il rogo: a me dolcissimo sarà con queta patria arsa soccombere. (Si lancia verso il fondo, dove vede ardere le fiamme) Taltìbio: Le tue sciagure, in te, misera, accendono furïoso delirio. Orsú, prendetela, non abbiate riguardo. In man d'Ulisse consegnarla bisogna. Essa è il suo premio. (I soldati achei afferrano ècuba, e la riconducono sul davanti della scena) ècuba: Ahimè, ahi! Figlio di Crono, Signore di Frigia, padre di nostra progenie, l'iniquo strazio non vedi che soffrono i figli di Dàrdano? CORO: Vede; eppur Troia disparve: la celebre città piú non è. ècuba: Ahimè, ahimè, ahimè! Ilio fiammeggia, di Pèrgamo ardono i tetti, brucia la città, bruciano dei muri i vertici. CORO: Come fumo si dissipa, con eterea piuma, per le cuspidi infeste, pel fuoco che l'investe, tutta Ilio si consuma. ècuba: Oh dei figliuoli miei terra nutrice! CORO: Ahimè, ahimè! ècuba: La voce della madre udite, o figli! CORO: La nenia intoni che ai morti s'addice. ècuba: A terra prostro la mia vecchia salma, percòto il suol con l'una e l'altra palma. CORO: Io t'imito: al suolo prosterno il ginocchio, ed invoco lo sposo mio tapino, che giace in Averno. ècuba: Mi traggono, mi strappano... CORO: Oh doloroso grido! ècuba: ad altrui casa, schiava... CORO: lungi dal patrio lido. ècuba: Ahimè, Prìamo, Prìamo, che avesti morte senza amici, senza tumulo, tu non vedi la mia sorte! CORO: Con la sua negra veste copria l'empio tuo strazio la morte pia. ècuba: Oh templi di Numi, diletta città! CORO: Ahimè, ahimè! ècuba: La fiamma, la strage, la lancia è su te! CORO: Senza gloria su questo suol piangerete presto. ècuba: Fumo che in alto quasi polve ondeggia agli occhi miei nasconde la mia reggia. CORO: Tutto sparisce in vario modo: misera Troia, già piú non è: diverrà della patria il nome ignoto. ècuba: Udite, udite? CORO: Il fragore di Pèrgamo! ècuba: è tremuoto, è tremuoto! CORO: E struggerà tutta Ilio! ècuba: Tremule, tremule membra, guidate i piedi miei dove in esilio servil trascorra i cadenti anni miei. CORO: O misera città! Ma pure, volgere devi il tuo passo ai legni degli Achei. (Partono tutti)