ORESTE di Eurìpide traduzione di Ettore Romagnoli PERSONAGGI: ORESTE Elèttra ELENA Menelào Tíndaro Pílade Ermióne APOLLO ARALDO SCHIAVO Frigio CORO di donne Argive L'azione si svolge dinanzi alla reggia d'Argo. Elèttra: Niuna parola v'è tanto terribile, nessuna traversía, nessuna doglia suscitata dai Numi, onde non debba reggere il peso la natura umana. Tantalo infatti, il fortunato - oltraggio non faccio al suo tristo destino - il figlio, come dicon, di Giove, in aria sta sempre sospeso, e temer deve il sasso che gli pende sul capo, e questa pena sconta, dicon, perché della celeste mensa, ei mortale, ebbe l'onore, e freno alla lingua non pose: vizio turpe quanto altro mai. Costui generò Pèlope, e da Pèlope Atreo nacque, per cui la Parca, quando gli tessea lo stame, la discordia filò, ché con Tieste venisse a lotta, col fratello suo. Ma che vo' questi orrori enumerando? Gli uccise i figli, e a banchettare Atrèo l'invitò. Poi d'Atrèo - quanto seguí non dico - nacque il celebre Agamènnone, se celebre esso è pur, Menelào nacque: èrope la cretese a lor fu madre. E Menelào sposò la donna, invisa ai Numi, Elena; e il principe Agamènnone, di Clitemnèstra il talamo, famoso fra gli Ellèni, salí: qui tre fanciulle, Ifigenía, Crisòtemi, ed Elèttra, che sono io stessa, ed un fanciullo, Oreste, nacquero a lui da quella sposa empissima, che nei lacci di rete inestricabile poi lo cinse e l'uccise; e per qual causa, dire a fanciulla non conviene: oscuro lascio tal punto, ad altri che l'indaghino. Or, d'ingiustizia incriminare Febo lecito è forse? A uccidere la madre onde pur nacque, Oreste egli convinse: opra a cui tutti dar lode non possono. Pure al Nume ubbidí, morte le inflisse. Ed io partecipai, quanto una donna potea, la strage; e Pílade con noi compié lo scempio. Ma dal morbo oppresso Oreste ora è, consunto; e sopra il letto piombato, giace: e della madre il sangue col delirio lo incalza: il nome esprimere delle Dive benigne onde atterrato fu nella lotta, non ardisco. Il sesto giorno questo è, da che la madre spenta purificata fu sul fuoco; e cibo non passò per le sue fauci, lavacro il corpo suo piú non toccò. Ravvolto nel suo mantello, allor che tregua ha il male, in senno torna, e piange, e dalle coltri talor s'avventa, in furïosi giri, come puledro libero dal giogo. Ed Argo, dove siamo, ha decretato che niuno in casa sua, che niuno all'are noi matricidi accolga, o ci favelli. E il giorno è questo designato, in cui Argo dovrà deliberar se spenti cader dovremo sotto i sassi, o infiggerci di nostra mano l'affilata spada dentro la gola. Un'unica speranza di non morir ci resta: è giunto in questa terra, da Troia, Menelào: nel porto di Nauplia venne la sua flotta, approdo fece a quei lidi, dopo un lungo errare per i flutti del mare. E mandò Elena calamitosa, in casa nostra, l'ore della notte cogliendo, affinché i figli di quei che cadder sotto Ilio, vedendola per via di giorno, non la lapidassero. Ed in casa ora ella è, che la sorella e la sciagura della stirpe lagrima. Eppur, qualche sollievo ha dei suoi mali, ché la fanciulla che lasciò, quand'ella a Troia s'involò, che Menelào da Sparta ad Argo addusse, e l'affidò, per educarla, alla mia madre, Ermíone, l'ha qui trovata, e se ne allegra, e i mali pone in oblio. Verso ogni strada or guardo, cerco se giunge Menelào: ché deboli le nostre forze son troppo, qualora ei non ci salvi. Manca ad una casa colpita da sciagura, ogni sostegno. (Dalla reggia esce Elena) ELENA: Figlia di Clitemnèstra e d'Agamènnone, tu che da tanto sei fanciulla, Elèttra, come, o infelice, matricida Oreste sciagurato con te divenne? Macchia se teco io parlo, non mi tocca, quando spetta la colpa a Febo. E intanto, piango di Clitemnestra, della suora mia la trista sorte: ch'io, dal dí che a Troia navigai, come navigai, sospinta da celeste follía, piú non la vidi, e, privata di lei, piango il suo fato. Elèttra: Elena, a che dovrei pur dirti quello che da te vedi, in che sciagure sono d'Agamènnone i figli? Io seggo qui, custode insonne a questo morto misero: ché morto e già, tanto n'è lieve l'alito: non dico i mali suoi: sarebbe oltraggio. Ma tu felice, il tuo sposo felice giungete a noi, fra tanti mali immersi. ELENA: Da quanto tempo esso nel letto giace? Elèttra: Da quando il sangue materno versò. ELENA: Misero! E madre misera! Che morte! Elèttra: è tanto grave il mal, ch'io ne dispero. ELENA: Vuoi seguire in un punto il mio consiglio? Elèttra: Quando il conceda questa mia custodia. ELENA: Gir vuoi per me di mia sorella al tumulo? Elèttra: Di mia madre, tu dici? Ed a qual fine? ELENA: Le mie chiome a recare, i miei libami. Elèttra: Chi ti vieta alla tomba ir dei tuoi cari? ELENA: Agli Argivi mostrarmi, io n'ho vergogna. Elèttra: Tardi assenni: a disdoro un dí fuggisti. ELENA: Saggio parlare è il tuo, ma non benevolo. Elèttra: E che vergogna hai tu dei Micenèi? ELENA: Temo i padri di quei che ad Ilio caddero. Elèttra: Terribilmente in Argo a te s'impreca. ELENA: Va' tu per me: dal timore affrancami. Elèttra: Mirar potrei della mia madre il tumulo? ELENA: Pur non conviene a servi un tale ufficio. Elèttra: Perché non mandi la tua figlia Ermíone? ELENA: Tra la folla sconvien muovere a vergini. Elèttra: Renderebbe mercede a chi la crebbe. ELENA: Tu dici bene, e il tuo consiglio io seguo: mia figlia manderò: tu dici bene. - Esci di casa, o mia figliuola, o Ermíone. (Esce la fanciulla Ermióne) Questi libami e queste ciocche prendi dalle mie mani, ed alla tomba récati di Clitemnèstra, e latte a miel commisto versaci, e spuma di purpureo vino, e del tumulo stando in su la vetta parla cosí: «Questi libami t'offre Elena, tua sorella: al tuo sepolcro non venne, per temer l'argive turbe». E a me benigna, e a te volga la mente, dille, e al mio sposo, e a questi due, che, miseri, tolse un Nume di senno; e quanti doni funebri a mia sorella offrire io devo, fa' di tutti promessa. O figlia, in fretta muovi, i libami su la tomba effondi, e súbito al ritorno abbi pensiero. (Ermióne si allontana. Elena rientra nella reggia) Elèttra: O istinto, che gran mal sei tu per gli uomini, e che ben, quando retto sei! Vedete come recise ha le sue chiome agli apici, per conservar la sua bellezza? è sempre la stessa donna. I Numi t'aborriscano, ché tu sei stata la rovina mia, e di costui, di tutta quanta l'Ellade. (Si avanza il coro, composto di donne argive coetanee di Elèttra) Misera me! Ma vedi che s'avanzano queste dei lagni miei compagne care. Forse il fratello mio che calmo posa risveglieranno, e faran sí che il ciglio mio di pianto si bagni, allor ch'io vedo il mio fratello delirare. - O donne dilettissime, il pie' lieve movete, rumor non fate, calpestío non s'oda. Cara amica mi sei; ma se dal sonno desti il fratel, sarà sciagura grande. (Entra il Coro) CORIFEA: Strofe prima Cheta sta, cheta, non fare strepito, del tuo calzare lievi sian l'orme. Elèttra (Alle sue compagne): Lungi dal luogo state ov'ei dorme. CORIFEA: Ecco, ai tuoi detti ottémpero. Elèttra: Sia come l'alito di giunco tenue su la sampogna tua voce lene. CORIFEA: Odimi, come di canna fievole levo la voce. Elèttra: Cosí va bene. Avanza, avanza senza rumore, senza rumore. E dite perché qui veniste: il misero alfine giace, immerso è nel sopore. CORIFEA: Antistrofe prima Qual è il suo stato, mia cara? Diccelo. Elèttra: Che mal, che bene dir posso? Poco respira, esala gemito fioco. CORIFEA: Che mai, che dici, o misera? Elèttra: Tu gli dài morte, se dal suo ciglio scuoti il dolcissimo del sonno oblio. CORIFEA: Deh, sventurato, che fato orribile, che sorte orribile t'inflisse un Dio! Elèttra: Ingiusto ingiusto parlò il fatidico Dio dell'ambage, allor che a noi dal tripode di Tèmide impose la materna orrida strage. CORIFEA: Strofe seconda Vedi? Sotto il suo manto il corpo s'agita. Elèttra: Con le tue grida, l'hai tu risvegliato, o misera! CORIFEA: Che dormisse io pensai. Elèttra: Questo frastuono smettere non vuoi, da questo tetto lontano il tuo pie' volgere? CORIFEA: Se dorme! Elèttra: Il vero hai detto. - O sacra, o sacra notte, che il sonno doni ai miseri mortali, dalle tartaree grotte ai tetti d'Agamènnone volgi, deh, volgi l'ali. Ché noi, fra le sciagure e fra gli spasimi perduti siam, perduti. - Oh, quale strepito? Cara, vuoi far silenzio? Della tua bocca il murmure canoro rattieni, ch'ei del sonno goda il dolce ristoro. CORO: Antistrofe seconda Dí: qual sarà di sue sciagure il termine? Elèttra: Quale esser può? La morte: ché cibo ei non desidera. CORO: Ben chiara è la sua sorte. Elèttra: Ci sterminava Apòlline, Oreste e me spingendo il matricidio a compiere. CORO: Fu giusto atto, ed orrendo. Elèttra: Uccidesti, ed uccisa fosti, o mia madre: il tuo consorte, e questi tuoi figli, ch'ora, a guisa di cadaveri giacciono, a sterminio adducesti. Ché tu sei fra i defunti; e del mio vivere passa la piú gran parte in grida, in gemiti, ed in notturne lagrime. Viver, misera me, dovrò in eterno senza nozze conoscere, senza affetto materno. CORO: A tuo fratello poni mente, Elèttra, tu che presso gli sei, ché, senza addartene, non sia già morto; ché mi piace poco quel suo lungo giacere abbandonato. ORESTE (Si scuote dal sonno): O sollievo del morbo, o caro balsamo del sonno, quanto a me dolce giungesti ed opportuno! O venerando Oblio dei mali, quanto sei provvido Nume, degno che gl'infelici a te si volgano. Donde mai venni qui? Come qui giunsi? Nol ricordo: smarrii l'antico senno. Elèttra: Quanto vederti addormentare, o caro, lieta mi fece! Vuoi ch'io ti sollevi? ORESTE: Sollevami, sí, sí! Tergi dal misero labbro e dagli occhi la rappresa schiuma. Elèttra: Ecco, dolce è l'ufficio, e non ricuso prestar cure, io sorella, a mio fratello. ORESTE: Col fianco il fianco reggi; e sgombra i squallidi crini dal volto mio: ché poco io scerno. Elèttra: Come senza lavacri, o capo misero, irto sei fatto, sudicio e selvaggio! ORESTE: Ancor m'adagia: quando il morbo ha tregua, fiacche ho le membra, e frante le giunture. Elèttra: Ecco: il giaciglio agli ammalati è caro: è molesto retaggio inevitabile. ORESTE: Sollevami ancor, volgimi: son gli egri fastidïosi, e mai non san che vogliano. Elèttra: Vuoi, dopo tanto, il pie' posare a terra, muover passi? Il cangiare in tutto è grato. ORESTE: Sí, di salute ha ciò parvenza; e bene certo è parer, quand'anche manchi l'essere. Elèttra: Porgi a me dunque ascolto, o fratel mio, sinché l'Erinni il senno tuo non turbano. ORESTE: Nuove cose vuoi dir: grate se fauste; se dannose, già troppo è il mal ch'io soffro. Elèttra: Qui Menelào, fratello di tuo padre giunse: approdò con le sue navi a Nauplia. ORESTE: Che dici? Un nostro zio, che tanto deve al padre nostro, ai nostri mali è un raggio. Elèttra: Dalle mura di Troia ei giunge; ed abbine questa prova: che seco Elena adduce. ORESTE: Felice piú se scampava da solo: ché un gran mal reca, se la moglie reca. Elèttra: Figliuole insigni per vergogna, Tíndaro diede alla vita, e infami in tutta l'Ellade. ORESTE: Sii diversa, lo puoi, da quelle tristi, e non solo a parole, anzi di cuore. (Oreste comincia a dar nuovi segni di delirio) Elèttra: Ahimè, fratello, l'occhio tuo si turba. Eri in senno pur ora, e già vaneggi? ORESTE: Madre, non avventar su me le vergini cinte di serpi, dagli occhi sanguinei! Eccole, eccole! Sopra me s'avventano! Elèttra: Tranquillo sta sul tuo giaciglio, o misero. Nulla scorgi di ciò che veder pensi. ORESTE: M'uccideranno, o Febo, queste cagne torve, ministre inferne, Dee terribili! Elèttra: Non ti lascio! La mano alla tua mano intreccio, e freno i tuoi miseri balzi. ORESTE: Lasciami! Delle Erinni una tu sei: m'afferri per lanciarmi in fondo al Tartaro. Elèttra: Misera me, chi mi darà soccorso, allor che il Nume contro noi si schiera? ORESTE: L'arco di corno dammi, il Febèo dono onde mi disse Apollo di respingere le Dee, se col delirio m'assalissero! Elèttra: Potrà mano mortal ferire un Nume? ORESTE: Sí, se dal guardo mio lungi non va! Or non m'udiste? Non vedete i dardi che già dall'arco saettante volano? Ehi, ehi! Indugiate? Per l'ètra a volo alzatevi! Date colpa agli oracoli di Febo. Ehi, ehi! Perché vaneggio, e dei polmoni l'alito s'ingrossa? Dove, dove son balzato fuor dalle coltri? Dopo la tempesta, la bonaccia rivedo. E che, sorella? Nascondi il capo sotto il peplo, e piangi? Io mi vergogno, ché dei miei travagli partecipe ti rendo, e ad una vergine l'affanno addosso dei malanni miei. Per il mio mal non struggerti: lo scempio certo approvasti; ma il sangue materno solo io versai. Dò colpa al Nume ambiguo, che pria m'indusse ad un misfatto empissimo, ed a parole poi mi die' conforto, a fatti no. Mio padre stesso, io credo, quando chiesto gli avessi a faccia a faccia se dovessi a mia madre morte infliggere, carezzandomi il mento, assai pregato m'avrebbe ch'io nelle materne vene il ferro mai non immergessi, quando non ei perciò ritornerebbe a vita, ed io, misero me, patir dovrei tali tormenti. E scopri adesso il volto, sorella mia, desisti dalle lacrime, pur se la nostra sorte è tanto misera. E quando tu scorato mi vedrai, il perduto terror della mia mente solleva con le tue parole: quando tu piangerai, conforto io ti darò t'assisterò: convien che tali uffici rendan gli amici gli uni agli altri. Misera, orsú, rientra in casa, adesso, stènditi, al sopore concedi il ciglio insonne, e cibo prendi, e di lavacri il corpo cospergi: ché se tu mi lasci, oppure cadi, pel troppo assistermi, nel morbo, siamo perduti: ché tu sola hai cura di me, lo vedi, e tutti m'abbandonano. Elèttra: Mai non ti lascierò: morire io voglio o vivere con te: ché a questo siamo. Far che potrei, se tu morissi, io donna? Come potrei salvarmi sola, senza fratelli, senza padre, senza amici? Or, ciò che vuoi, se tu lo vuoi, farò. Ma tu nel letto il corpo adagia, e troppo non esser preda ai terrori, ai fantasmi che dal giaciglio sobbalzar ti fanno. Disteso resta nelle coltri: quando tu malato non sia, ma pur lo immagini sono compagni tuoi dolore e ambascia. (Rientra nella reggia. Oreste si sdraia di nuovo nel suo giaciglio) CORO: Strofe Ahimè, ahimè, Dive rapide, aligere furenti, che in un tíaso vi componete, non di riti bacchici, ma di lagrime e d'ululi, che le penne vibrate, o negre Eumènidi, per l'ampie vie dell'ètere, esecutrici di pena, d'eccidio, a voi mi volgo, a voi mi volgo supplice: il figlio d'Agamènnone dalla follia furente che l'esàgita, oblio fate che trovi. Ahi, da che spasimi, da che brame sospinto erri, dal tripode dove gridò l'oracolo il Nume ambiguo, al suolo ove profondasi, nell'umbilico della terra, il bàratro! Antistrofe Ahimè, ahi Giove, qual pena, qual sanguineo cimento, dove accumula, su te piombando, lagrima su lagrima un Nume avverso, e di tua madre vendica il sangue che l'esàgita. La tua sorte commisero, commisero. Poco felicità dura per gli uomini. Come vela di celere piccola barca, la sommerge un Dèmone sotto i marosi di travagli orribili, siccome all'estuar di flutti rabidi. Or, quale altra progenie io venerar dovrei piú dei Cecròpidi, che da nozze divine ebbero origine? (Si avanza Menelào magnificamente vestito) CORIFEA: Or vedi che a noi s'avvicina il re Menelào; dall'incesso magnifico, chiaro si vede ch'ei proviene dal sangue di Tàntalo. (Si rivolge a Menelào) O tu che alla terra asïana mille e mille navigli adducesti, a te salve. Tu quanto bramavi compiesti: lo vollero gli Dei: tua compagna è fortuna. Menelào: Volentieri, da un lato, io ti rivedo, or che da Troia torno, o casa mia; dall'altra, al pianto son commosso, ch'io nessuna casa vidi mai, dai mali cosí percossa tutta in giro. Io seppi, quando al Malèa la prora avvicinavo, le sciagure e la morte d'Agamènnone, come finí per man della sua sposa. A me dai flutti Glauco l'annunciò, dei nocchieri indovino, Iddio veridico, che l'arte apprese da Nerèo. M'apparve questo Nume, e mi disse: «O Menelào, il fratel tuo, nell'ultimo lavacro caduto giace, che la sua consorte gli preparava». E assai lagrime fece a me versare, ai miei nocchieri. Or, quando giunsi di Nauplia al suol, mentre la sposa mia qui veniva, ed io credevo al seno stringere Oreste, il figlio d'Agamènnone, e la sua madre, avventurati entrambi, della figlia di Tíndaro l'empissima morte narrar da un pescatore udii. Ed or, fanciulle, ditemi dov'è l'uom che compieva questo scempio orribile, d'Agamènnone il figlio. Era fanciullo, di Clitemnèstra al seno ancor, quando io lasciai la casa per andare a Troia: pur lo vedessi, non potrei conoscerlo. ORESTE: Quell'Oreste sono io di cui tu chiedi, o Menelào: ben volentieri a te svelo i miei danni, e prima ai tuoi ginocchi, senza supplici rami, io preci volgo. In punto sei giunto opportuno. Salvami. Menelào: O Dei che vedo! Qual dei morti è questo? ORESTE: Ben dici: io vivo son, ma pei guai morto. Menelào: Come squallido sei, che crine irsuto! ORESTE: Ciò che feci mi brutta, e non l'aspetto. Menelào: Aride hai le pupille, il guardo truce. ORESTE: Di me sol resta il nome: il corpo è sfatto. Menelào: O sembiante deforme oltre ogni attesa! ORESTE: Io son quei che svenò la madre misera. Menelào: Lo so; ma schiva il sovvenir dei mali. ORESTE: E sia; ma il Dio con me di mali è prodigo. Menelào: Che soffri tu? Qual morbo ti distrugge? ORESTE: La coscïenza: io so che orror compiei. Menelào: Che dici? Il chiaro è chiaro, e non l'oscuro. ORESTE: Piú d'ogni cosa mi strugge il rimorso. Menelào: Terribil Dio: però non invincibile. ORESTE: E la follia, del matricidio vindice. Menelào: Come? in che giorno cominciò il delirio? ORESTE: Quel dí che alzavo della madre il tumulo. Menelào: In casa, oppur mentre attendevi al rogo? ORESTE: Di notte, mentre io raccoglievo l'ossa. Menelào: E niuno era con te, quivi, ad assisterti? ORESTE: Pílade, che con me compiea la strage. Menelào: E quali spettri cosí ti tormentano? ORESTE: Tre fanciulle io vedevo, a notte simili. Menelào: So chi dici; ma il nome io non vo' dirne. ORESTE: Sacre sono esse; e il tuo riserbo è giusto. Menelào: Deliro te pel matricidio rendono? ORESTE: Misero me, m'inseguono, m'incalzano! Menelào: Chi fece il mal, non è strano che il soffra. ORESTE: Pure, un sollievo c'è dei miei tormenti. Menelào: Non dir la morte, ché non è da saggio. ORESTE: Febo, che impose a me la madre uccidere. Menelào: Certo. L'onesto e il giusto il Nume ignora. ORESTE: Servi dei Numi siam, quali ch'ei siano. Menelào: E come mai l'Ambiguo or non t'assiste? ORESTE: Indugia: è tal per sua natura il Nume. Menelào: E da quando esalò tua madre l'anima? ORESTE: Son già sei giorni: ancor la pira è calda. Menelào: A punirti le Dee giunser sollecite! ORESTE: Non sottilizzo, io: sono amico vero. Menelào: E il padre vendicato, a che ti giova? ORESTE: A nulla: indugia: e val quanto non fare. Menelào: Come pel tuo misfatto Argo ti giudica? ORESTE: M'aborriscono sí, che niun mi parla. Menelào: Le man' pure non hai rese del sangue? ORESTE: No: perché ovunque appressi, indi mi scacciano. Menelào: E chi scacciar ti vuol da questa terra? ORESTE: Eàce: d'Ilio uno scempio a mio padre ímputa. Menelào: Quello di Palamede; e in te si vendica. ORESTE: Parte io non v'ebbi: eppur distrutto io sono. Menelào: E chi altri? D'Egisto un qualche amico? ORESTE: M'investon tutti; e ad essi Argo obbedisce. Menelào: E lascia a te lo scettro d'Agamènnone? ORESTE: Come, se neppur vivo piú mi vogliono? Menelào: Quale preciso loro atto puoi dirmi? ORESTE: Pronunceranno un voto oggi a me contro. Menelào: D'esilio? O che morir tu debba? O vivere? ORESTE: Che i cittadini lapidar mi debbano. Menelào: E non fuggi? E i confini allor non valichi? ORESTE: Siamo d'armati tutto in giro cinti. Menelào: Dai tuoi nemici, o dalle forze d'Argo? ORESTE: Da tutti, e perché muoia: eccola in breve. Menelào: Al colmo sei delle sciagure, o misero. ORESTE: La mia speranza solo in te riparo trova dai mali. Poiché tu fra i miseri avventurato giunto sei, partecipi rendi gli amici della tua fortuna, e per te solo non tenerla; e assumi anche una parte dei travagli miei, mostrando al padre mio la gratitudine che tu gli devi. Ché d'amici il nome hanno soltanto, ma non sono, quanti nelle sciagure l'amistà non serbano. CORIFEA: Tíndaro, lo spartano, affretta a noi l'antico piede: indossa un negro peplo, le chiome per la figlia ha rase a lutto. ORESTE: O Menelào, perduto io sono: Tíndaro verso di noi s'avanza; e di trovarmi dinanzi a lui, troppa vergogna io provo, per ciò che ho fatto: ch'ei mi nutricò quando ero bimbo, e mi copria di baci, portando in giro il figlio d'Agamènnone fra le sue braccia, e Leda insiem con lui, ch'ero diletto a lor quanto i Dïoscuri. Un ben tristo compenso ad essi diedi, misera anima mia, misero cuore. Qual tenebra addensare ora potrò sopra il mio viso, quale nube stendervi per isfuggir del vecchio alle pupille? (Entra il vecchio Tíndaro) Tíndaro: Dove potrò, dove potrò vedere Menelào, sposo della figlia mia? Di Clitemnèstra su la tomba stavo, effondendo libami, e udii che a Nauplia, dopo lunghi anni, con la sposa giunto egli era, salvo: a lui siatemi guida: stando alla destra sua vo' salutarlo: ché da tanto nol vedo, e amico m'era. Menelào: Salve, o di Giove al talamo partecipe. Tíndaro: O Menelào, salve anche a te, mio genero. (Si accorge di Oreste) Ahi! Che mal non conoscere il futuro! Questo dragone matricida sta alla reggia dinanzi, e vibra i folgori, questo abominio mio, dagli occhi infetti. E tu parli a quest'empio, o Menelào? Menelào: Che far? Figlio è d'un padre a me diletto. Tíndaro: Esso, un tal figlio, da tal padre nacque? Menelào: Certo: e, misero ancor, riguardo merita. Tíndaro: Reso barbaro t'ha lo star fra i barbari. Menelào: I parenti onorare uso è fra gli Ellèni. Tíndaro: E non volere soverchiar le leggi. Menelào: Tutto a necessità cede, pei saggi. Tíndaro: Tu questa fede assumi, io non l'assumo. Menelào: Saggio non è nei vecchi anni adirarsi. Tíndaro: E qual contrasto di saggezza sorgere potrebbe su costui? Se tutti han pure di pietà, d'empietà, chiaro il concetto, chi di costui piú dissennato? Al giusto ei non ebbe rispetto, anzi degli Ellèni non osservò la consueta legge: ch'esso dovea, poiché spento Agamènnone fu dalla figlia mia, colpito al capo - turpissimo delitto, io non lo nego - alla madre dovea la giusta pena dell'omicidio infliggere, chiamandola ai giudici dinanzi, e discacciandola via dalla casa: allor nella sventura saggio sarebbe stato, allora pio, ossequente alle leggi: or colla stessa fatale sorte della madre cadde. Fu giusto ch'ei la reputasse trista, ma piú tristo egli fu quando l'uccise. Questa domanda, o Menelào, ti faccio: se a costui la sua sposa or desse morte, e il suo figlio alla madre, a vendicarlo, ed il figlio del figlio ancor punisse sangue con sangue: e dove allora un limite dei mali esisterebbe? I prodi antichi ben saggiamente questa legge posero, che chi le mani lorde abbia di sangue, al cospetto degli uomini non venga, né commercio con loro abbia, o, il misfatto andando esule espii: non che s'uccida. Se no, sempre sarebbe uno rimasto di morte reo: quei che le mani avesse ultimo insanguinate. Ed io detesto l'empie femmine, e prima la mia figlia, che die' morte allo sposo; e la tua sposa Elena non approvo, e non vorrei volgerle la parola; e non t'invidio che andato sei per una trista femmina al pian di Troia; ma per quanto io posso, quella legge difendo onde tale uso omicida e ferino ebbe pur tregua, che le città distrugge sempre e i regni. Dimmi, qual cuore, o sciagurato, avesti, quando tua madre il seno ti mostrò, scongiurandoti? Io sento, eppur non vidi, l'antico ciglio mio stemprarsi in lagrime. E un punto almeno i detti miei conferma: che in odio ai Numi sei, che della madre sconti la strage, delirando in preda a terrori, a follie: bisogno c'è di testimonî? Gli occhi miei lo vedono. Ora, apri gli occhi, Menelào, non muovere, per aiutar costui, contro i Celesti: dai cittadini lapidare lascialo, o non premer piú mai di Sparta il suolo. Per la mia figlia, giusto era, che morte le fosse inflitta: ma morir per mano di costui non doveva. In tutto il resto io fui felice, e nelle figlie no. CORO: Felice chi fortuna ebbe nei figli, né gravi guai patí per loro causa. ORESTE: Parlare a te d'inanzi io n'ho vergogna, vecchio, se contristar debbo il tuo cuore. Empio io fui, ché la madre uccisi; e pio esser detto potrei, quando vendetta feci del padre. Or la vecchiezza tua non si frapponga al mio discorso: ch'essa dal parlar mi sgomenta; e allor procedere potrò: la tua canizie or mi sgomenta. Che cosa far dovuto avrei? Due punti devi a due punti contrapporre: il padre mi generò, mi partorí tua figlia, la maggese che d'altri il seme accolse: ché non può figlio senza padre nascere. Ed io pensai che piú dovessi aiuto a colui che depose il germe mio, che non a quella che lo nutricò. E la tua figlia - m'è vergogna dire la madre mia -, con imenéo furtivo non lecito, d'un uomo ascese il talamo. Se di lei dico male. io di me stesso dico male; ma pur parlo: era Egisto il suo sposo furtivo entro la reggia. Io l'uccisi, e con lui svenai la madre, compiendo un'empietà, ma vendicando il padre mio. Quanto alla tua minaccia ch'essere io devo lapidato, ascolta quanto vantaggio io reco a tutta l'Ellade; ché se le donne a tanto ardir venissero da uccidere gli sposi, e poi rifugio presso i figli cercar, mostrando il seno per guadagnarne la pietà, per esse nulla sarebbe uccidere gli sposi, un pretesto accampando qual che siasi. Impossibile io resi un tal costume, compiendo l'empia strage onde tu meni tanto scalpore. D'odïar mia madre ragione ebbi, e l'uccisi: essa lo sposo che con le schiere a pro' di tutta l'Ellade duce alla guerra mosso era, tradí, né gli serbò da macchia illeso il talamo; e poi che conscia fu del proprio fallo, se stessa non puní, ma, per non renderne conto allo sposo, puní lui, die' morte al padre mio. Pei Numi - in triste punto, in un piato di sangue, invoco i Numi -, se della madre l'opere approvate col mio silenzio avessi, il padre ucciso non m'avrebbe punito? e non m'avrebbe spinto all'Erinni in preda? Ha la mia madre alleate le Dive; e non l'avrà il padre mio, ch'ebbe piú grave oltraggio? Mettendo al mondo una malvagia figlia, tu fosti, o vecchio, la rovina mia, ch'io, per l'audacia sua privo del padre, fui matricida. Vedi se Telèmaco d'Ulisse uccise la consorte; ma non ebbe quella insieme con l'antico un nuovo sposo, ed incorrotta sposa si mantien nella casa. E bada, Apollo che della terra al centro sta, partendo ai mortali i responsi veracissimi, e in tutto lo crediamo, egli m'impose d'uccidere mia madre, io l'ubbidii. Empio lui dichiarate, ed uccidetelo: egli fallí, non io. Che far potrei io? Né potrà la macchia mia lavare il Nume, a cui quello ch'io feci addebito? Dove scampare piú, se, quei che l'ordine mi die', non mi darà scampo da morte? Non dir che mal ciò ch'io feci fu fatto, e che tristo successo ebbe per me. Avventurata vita hanno quegli uomini ch'ebber fortuna colle nozze: gli altri sempre sono infelici, in casa e fuori. CORO: Nate le donne son per inframmettersi nei casi dei mariti, e al peggio volgerli. Tíndaro: Quando hai tanta baldanza, e non ammàini le vele del tuo dire, e tal risposta mi dài, che attrista il cuore mio, mi provochi la tua morte a voler: bella un'aggiunta sarà questo all'ufficio ond'io qui venni, d'ornar la tomba alla mia figlia. Al popolo d'Argo adunato andrò, convincerò la città, non contraria, anzi concorde, che tu sotto le pietre espii la colpa, con tua sorella insieme: ella di morte è piú degna di te, ché t'inasprí contro la madre, che alle orecchie sempre giungere ti facea nuove infestissime, Agamènnone apparso a lei nel sogno, e le nozze d'Egisto - in odio l'abbiano i Numi inferni, come odio riscossero anche quassú - finché fu, senza vampa d'Efesto, arsa la casa. E questo inoltre dico a te, Menelào: se conto alcuno del parentaggio mio fai, del mio sdegno, non difender costui del suo misfatto contro il volere dei Celesti: lascia che lapidato sia dai cittadini, o mai piú non calcare il suol di Sparta. Or che udisti, che sai, gli amici pii non discacciar per gli empî. E voi, famigli, da questa casa lungi conducetemi. (Si allontana) ORESTE: Va: ché quanto a costui dire ancor debbo lo potrò dir tranquillamente, libero dalla vecchiaia tua. Dove, in pensieri assorto, Menelào, volgi il tuo passo, d'una duplice idea pel doppio tramite? Menelào: Lasciami: vo' tra me e me pensando, e a qual partito appigliarmi non so. ORESTE: Non risolvere ancora, i miei discorsi ascolta prima, e poi prendi un partito. Menelào: Parla: tu dici ben: c'è quando meglio vale il silenzio, e quando la parola. ORESTE: Parlerò dunque: ché i discorsi lunghi valgon meglio dei brevi, e son piú chiari. O Menelào, del tuo nulla ti chiedo: quello che avesti da mio padre rendimi: non dico i beni: i beni miei son questi: che mi salvi la vita, ond'io non ho cosa piú cara. Ingiusto il mio delitto fu; ma tu devi di tal male darmi un ingiusto soccorso. Anche Agamènnone, il padre mio, non giustamente l'èllade a raccolta chiamò, contro Ilio mosse, ché colpa non aveva egli, e la colpa della consorte tua mosse a punire. Or favore a favor tu devi rendere: ch'ei veramente la sua vita espose, come gli amici per gli amici debbono, sempre pugnando a te presso, perché tu riavessi la tua sposa. Adesso, quello che in Troia ricevesti rendimi, presèntati a salvarmi, un giorno solo travagliando, e non dieci anni compiuti. La strage poi che della mia sorella in Aulide si fe', te la condono: ad Ermïone non dar morte: quando a tal frangente io son ridotto, è giusto che vantaggio tu abbia, e ch'io lo tolleri. Per grazia al padre mio misero, salva la vita mia, della sorella mia, che nubile è da tanto: ov'io pur muoia, del padre lascerò la casa estinta. «Impossibil» - dirai; ma questo è il punto: nelle sciagure devono gli amici dar soccorso agli amici: allor che il Dèmone largisce il bene, a che servon gli amici? Quando aiutar ti vuole, il Nume basta. Gli Elleni tutti sanno che tu ami la sposa tua. Non per piaggiarti or parlo, né per volermi insinuare: in nome suo ti scongiuro. - Ahimè, quanto m'abbasso, eppur mi debbo umilïar: ch'io prego per la mia casa tutta. O di mio padre fratello, o zio, sovra il tuo capo immagina che svolazzi la morta anima, e dica ciò ch'io dico: fra strazi ululi e lagrime parlai, ti chiesi la salvezza: cerco quello che tutti e non io solo cercano. CORIFEA: E anch'io, sebbene son donna, ti prego che i miseri soccorra; e tu lo puoi. Menelào: La tua persona, Oreste, onoro, e voglio teco soffrire i mali tuoi: ché quando ci dà la forza un Nume, allor conviene partecipare i guai dei consanguinei, morendo, e morte ai lor nemici dando. Ma la forza i Celesti or non m'accordano: ch'io son qui senza compagnia d'armati, poscia ch'errai fra mille pene e mille, con poca scorta d'amici superstiti. Argo Pelasgo sopraffar pugnando, non lo potremmo: se possibil fosse con le blande parole... a tale speme voglio appigliarmi: ché con forze piccole le grandi sopraffar, chi mai potrebbe? insipïenza è pur bramarlo. Quando troppo, salito in ira, ferve il popolo, se spengere lo vuoi, d'un fuoco ha l'impeto. Ma se mentre piú infuria, alcuno coglie il punto giusto, e da una parte cede, soavemente, forse a calma torna; e quando l'ire sue calmate siano, ciò che brami ottener ti sarà facile. Capace di pietà, capace è il popolo di furor grande: è questa dote ambigua, se giovar te ne sai, prezïosissima. Adesso vado; e tenterò convincere Tíndaro e la città, che freno pongano allo sdegno soverchio. Anche la nave, quando troppo la scotta a forza è tesa, nel mar s'immerge; ma se tu l'allenti, si raddirizza: poiché il Nume aborre la troppa audacia. I cittadini t'odiano, e salvare io ti devo, e non lo nego; ma con l'abilità, non già facendo forza ai piú forti: mai, per quanto forse tu lo credi, potrei salvarti a forza. Ché facile non è con una lancia sola i mali sconfigger che t'opprimono. Guadagnar con blandizie il popol d'Argo mai non cercai. Ma ora è necessario che servi della sorte i saggi siano. (Parte) ORESTE: O tranne che a guidar per una femmina eserciti alla pugna, a nulla valido, o a difender gli amici incapacissimo, tu mi volgi le spalle, e fuggi, e nulla per te sono i favori d'Agamènnone? Nella sventura non avesti amici, o padre. Ahimè, tradito sono, e speme piú non mi resta: ove potrò rivolgermi, per fuggire la morte onde minaccia Argo mi fa? Ma Pílade qui veggo giunger di corsa, a me fra tutti gli uomini il piú diletto: viene dalla Fòcide. O dolce vista! Un uom fido nei mali meglio val che pei nauti la bonaccia. (Entra in fretta, agitatissimo, Pílade) Pílade: Traversata ho la città presto piú ch'io non dovessi, perché udito ho ch'era il popolo radunato; e coi miei stessi occhi pur l'ho visto. E a morte posto súbito sarai, tu con la sorella. Or donde questo avviene? Come mai, dilettissimo fra quanti son compagni agli anni miei, degli amici e dei parenti? Ché parente e amico sei. ORESTE: Son perduto: tutti i mali miei cosí t'ho detto in breve. Pílade: Anche me struggi: l'amico con l'amico morir deve. ORESTE: Menelào con me da tristo, con Elèttra si comporta. Pílade: Ben s'intende, poi ch'è sposo d'una sposa di tal sorta. ORESTE: Egli è qui come non fosse qui: mi dà lo stesso aiuto. Pílade: Cosí, dunque, è proprio vero ch'egli in Argo sia venuto? ORESTE: Tardi: eppur quant'egli è tristo coi suoi, presto fe' palese. Pílade: E la perfida consorte sulla nave seco prese? ORESTE: Ella fu che a questa terra lo guidò, non egli lei. Pílade: Dov'è quella che da sola strage fe' di tanti Achei? ORESTE: In mia casa, se pur dire posso ancor mio questo tetto. Pílade: Al fratello di tuo padre che discorso hai tu diretto? ORESTE: Che a lasciarci da quei d'Argo lapidar non consentisse. Pílade: Per gli Dèi, son curïoso di saper ciò ch'egli disse. ORESTE: Si schermí, come fan sempre con gli amici i tristi amici. Pílade: Qual pretesto mise innanzi? Tutto so, se ciò mi dici. ORESTE: Giunse qui colui, quel padre d'integerrime figliuole... Pílade: Dici Tíndaro? La figlia vendicare su te vuole? ORESTE: Certo; e quei non di mio padre, ma del suocero si cura. Pílade: E per ciò partecipare rifiutò la tua sciagura? ORESTE: Non è d'indole guerresca: con le donne solo è forte. Pílade: Fra gran mali tu ti trovi, non potrai sfuggire a morte. ORESTE: Del materno scempio deve dar giudizio la città. Pílade: Di terror tremo; e il giudizio stabilir che mai dovrà? ORESTE: Se morir dobbiamo, o vivere: gravi i fatti, e breve il detto. Pílade: Fuggi allor con tua sorella, abbandona questo tetto. ORESTE: Non lo vedi? Tutto intorno sono scolte per guardarmi. Pílade: Tutte quante infatti vidi le vie d'Argo piene d'armi. ORESTE: Quasi rocca, assedïato da nemici è il corpo mio. Pílade: Di me pur notizie or chiedi: ché perduto sono anch'io. ORESTE: Come e donde? Ecco ai miei mali dunque aggiunto un male nuovo. Pílade: Mi cacciò mio padre Strofio dalla casa: esule muovo. ORESTE: E d'un pubblico delitto, d'un privato ei ti dà taccia? Pílade: Perché parte al matricidio presi, come empio mi scaccia. ORESTE: O meschino! Anche tu devi dei miei mali essere afflitto! Pílade: Menelào non son; ch'io teco patir debba, è ben diritto. ORESTE: E non temi che ad ucciderti meco insieme Argo s'appresti? Pílade: Ai Focesi sta punire le mie colpe, e non a questi. ORESTE: Un gran male, se li guidano tristi duci, sono i molti. Pílade: Ma se buoni poi li trovano, sempre al bene son rivolti. ORESTE: Sia. Conviene or consultarci. Pílade: Pensi tu ch'utile sia? ORESTE: Se movessi ai cittadini, se dicessi... Pílade: Che fu pia l'opra tua? ORESTE: Certo, ché il padre vendicai. Pílade: Preda gradita tu per lor saresti, immagino. ORESTE: Perderò dunque la vita in silenzio, tremebondo? Pílade: No, sarebbe una viltà. ORESTE: Che farò dunque? Pílade: Hai speranza di salvarti, a restar qua? ORESTE: Niuna! Pílade: E invece, se vai, scorgi di salvezza qualche strada? ORESTE: Sí, se pur vuole il destino. Pílade: Dunque, meglio è che tu vada. ORESTE: Vado allor. Pílade: Meglio, se muovi, tu morrai. ORESTE: Certo. E cosí fuggirò di vile il nome. Pílade: Piú che fermo stando qui. ORESTE: La mia causa è giusta. Pílade: Voto fa' che tal sembri. ORESTE: A pietà si potrebbe alcun commuovere. Pílade: Grande aiuto ti darà l'esser nobile. ORESTE: E la morte di mio padre, ond'io m'accoro. Pílade: Tutti il sanno. ORESTE: E dunque vado: ché morir senza decoro, è da vile. Pílade: Dici bene. ORESTE: Dir dobbiamo tutto quanto ad Elèttra? Pílade: No, pei Numi! ORESTE: Scoppierebbe certo in pianto. Pílade: E sarebbe un tristo augurio. ORESTE: Già, tacere è meglio assai. Pílade: E guadagni tempo. ORESTE: Un dubbio sol mi resta. Pílade: E quale mai? ORESTE: Che le Dee di nuovo invadermi debbano. Pílade: Io ti curerò. ORESTE: Un malato a chi lo cura dà gran peso. Pílade: A me tu no. ORESTE: E se poi le Furie invadono anche te? Pílade: M'invaderanno. ORESTE: Tu non esiti? Pílade: Esitare con gli amici, è gran malanno. ORESTE: Sii timone dei miei passi. Pílade: Tale ufficio è caro a me. ORESTE: Accompagnami del padre presso al tumulo. Pílade: Perché? ORESTE: Vò pregarlo ch'ei mi salvi. Pílade: Giusta brama mi par questa. ORESTE: E la tomba ch'io non vegga di mia madre. Pílade: T'era infesta. Or t'affretta, pria che il voto dian gli Argivi, e del mio fianco al tuo fianco fa' sostegno, ch'è pel morbo inerte e stanco, ch'io per mezzo ad Argo, senza della turba darmi cura, ti sarò guida, senz'onta. Se nell'orrida sciagura non t'aiuto, dimostrarti quando mai potrò l'affetto? ORESTE: Abbi amici, e non parenti soli: è ben saggio quel detto. Poi che un uom, sia pure estraneo, se d'umor con lui consenti, ti conviene averlo amico piú di mille tuoi parenti. (Escono, Oreste appoggiandosi a Pílade) CORO: Strofe La superba fortuna e il fasto fulgido onde sparso era il vanto in tutta l'èllade, sin del Simèta ai margini, dagli Atrídi beati il piede torsero, dal giorno che piombò sulla progenie l'antico dànno, allor che per l'aríete d'oro scoppiò la rissa fra i Tantàlidi, onde fu poi l'empissimo convivio, e lo scempio dei figli nobilissimi, onde, strage su strage avvicendandosi, mai non cessâr gli eccidi, sinché piombâr sui due fratelli Atrídi. Antistrofe Pio non è ciò che pio sembra: che un figlio, con la lama temprata al fuoco, stermini i genitori, e ai fulgidi raggi del sole ostenti il brando livido di sangue: iniqua gesta essa è, vesania esecranda, follia d'animi perfidi. Ché, nel terror di morte, la Tindàride misera un grido alto levava: «O figlio, empia audacia è la tua, quando tu scempio fai della madre. Mentre il padre vendichi, vedi che non procuri un'infamia per te ch'eterna duri». Epodo Qual morbo mai, che lagrime, che scempio su la terra è piú terribile, che intrisa aver la mano della strage materna? Oh, qual mai l'opera fu, quale, onde ora, insano pel suo misfatto, in preda delle Eumènidi, forsennato delira il figlio d'Agamènnone, e l'occhio in rote furïose gira? Che cuor fu il tuo, quando sgorgar dall'aureo mantello di tua madre il sen vedesti, e, a far vendetta del paterno scempio il ferro v'immergesti? (Esce dalla reggia Elèttra) Elèttra: Lungi da queste case è andato, amiche, vinto dal suo delirio, Oreste misero? CORIFEA: No, non delira: al popol d'Argo ei mosse, al fatale cimento in cui deciso sarà se voi morir dobbiate o vivere. Elèttra: Ahimè, che fece? A ciò chi mai l'indusse? CORIFEA: Pílade. E presto questo araldo, sembra, quanto gli accadde tutto ci esporrà. (Giunge un araldo) ARALDO: O sventurata, o misera del duce Agamènnone figlia, assai son tristi le notizie che udrai, nobile Elèttra. Elèttra: Ahi, siam perduti, il tuo discorso è chiaro: di tristi nuove ambasciatore giungi. ARALDO: Deciso fu per voto dei Pelasgi che tu, che tuo fratello oggi moriate. Elèttra: Ahimè, l'evento è pur seguíto, ch'io temea da tanto, e mi struggeva in ululi. Ma fra gli Argivi, di', quale il cimento, quali i discorsi furono, per cui fummo abbattuti, condannati a morte? O vecchio dimmi, lapidata devo lo spirito esalare, oppur trafitta, o che del mio fratello i guai partecipi? ARALDO: Ero dunque dai campi appena entrato dentro le mura, per aver notizie e d'Oreste e di te, ché sempre affetto al padre tuo mi strinse, e la tua casa mi manteneva, povero, e devoto a servire gli amici. Ed una turba muovere vidi, e sopra il colle accogliersi dove per primo, si racconta, Dànao nel giudizio convenne a cui lo aveva chiamato Egisto, e il popolo adunò in assemblea. Veduta quell'accolta, a un cittadino io domandai: «Che c'è di nuovo in Argo? Alcun messaggio forse di nemici pervenne, ed eccitò dei Dànai la città?» - Quegli rispose: «Non vedi Oreste là, che il passo affretta al cimento fatale?» - Oh, che spettacolo io vidi allor! Mai non l'avessi visto! Veniano insieme il tuo fratello e Pílade: l'un dal morbo disfatto, a ciglio basso; e l'altro, a guisa di fratello, afflitto dell'amico non men, lo sosteneva nel male, e lo guidava a mo' di pargolo. E poi che fu tutto adunato il popolo, surse un araldo e favellò: «Chi vuole proposta far pel matricida Oreste, o di vita o di morte?» - E a tal dimanda Taltìbio surse, che sconfisse, insieme con tuo padre i Troiani; e ligio, come sempre, ai potenti, con parola ambigua magnificò tuo padre, e al tuo fratello lode non die', perché sancita contro ai genitori avea trista una legge; e bei fregi tesseva a iniqui detti, e sorridente ognor l'occhio volgeva agli amici d'Egisto. è tale ognora la genía degli araldi: ai fortunati sempre voltarsi; e loro amico è sempre quei ch'è potente ed occupa le cariche. Dopo lui, prese la parola il principe Dïomede; e né te, né tuo fratello morti volea, ma che osservata fosse la pïetà, punendovi col bando. Ed alcuni, tra plausi alti, gridarono che ben parlato avesse, altri negarono. E a questo punto, un uomo si levò, di lingua senza fren, che l'impudenza ha ognor per arma, Argivo e non Argivo, fra i cittadini intruso, uso a fidare nella ciancia ignorante e nel subbuglio, persuasivo a spinger chi l'ascolta in qualche danno, o prima o poi. Ché, quando un uom soave di parole, e tristo di cuor, la folla persuade, è grave il mal della città: quanti con senno invece, ognor buoni consigli porgono, utili alla città, pur se non súbito, riescono. Convien volgere gli occhi su questi, quando scegliere si vuole chi regga la città: ché sono in simili condizïoni l'oratore e l'uomo di governo. - E costui disse che uccidere sotto le pietre te bisogna e Oreste: lo subornava a tali detti Tíndaro, alla vostra condanna. E un altro surse a parlar contro lui, non avvenente, ma generoso, un uom che poco suole la città frequentar, poco la piazza, un contadino - sono questi gli uomini che tutelan la patria, ineccepibile nella sua vita, senza macchia, ed abile quando volesse, a disputare. E questi disse che Oreste, il figlio d'Agamènnone, coronar convenía, che vendicato aveva il padre, ed uccisa una donna iniqua ed empia, per cui colpa niuno degli uomini piú vuole impugnar l'armi, muovere a campo, abbandonar la casa, quando quelli che restano corrompono le loro spose, macchiano le case. E parve ai buoni che parlasse bene, e niuno piú parola aggiunse. E allora s'avanzò tuo fratello, e cosí disse: «Abitatori della terra d'Inaco, o Pelasgi in antico e poi Danàidi, quando la madre uccisi, io voi difesi, non men che il padre mio: perché, se lecito fosse alle donne uccidere lo sposo, non molto andrebbe che morreste, o servi delle donne sareste: onde il contrario di quanto occorre avete fatto. Adesso è morta quella che tradiva il letto del padre mio: se voi m'ucciderete, sciolta sarà la legge, e differire niuno potrà la propria morte, quando rara piú non sarà simile audacia». E ben sembrò che favellasse: eppure l'assemblea non convinse; e trionfò quel tristo che alle turbe iva dicendo che te conviene e tuo fratello uccidere. Ed il misero Oreste appena ottenne di non morir sotto le pietre: spento di propria mano, insiem con te promise che la vita oggi abbandonata avrebbe. E dal consesso, lagrimando, Pílade qui lo conduce, e in pianto l'accompagnano gli amici, che di lui senton pietà. Una misera vista, uno spettacolo amaro a te giungerà presto. Un ferro or tu prepara, o per la gola un laccio ché tu lasciar devi la luce: a nulla la nobiltà non ti giovò, né il Pizio che sul tripode siede; anzi ti strusse. CORIFEA: O misera fanciulla, o come al suolo coperto il viso avvalli, e taci, come romper dovessi in lagrime ed in gemiti...! Elèttra: Strofe Fo' risuonar, pelàsga terra, i gemiti, nelle guance affondando, con sanguineo spasimo, l'unghia candida, ed i colpi sul capo, onde Persèfone bella s'allegra, ch'è regina agl'Inferi. E la terra ciclopia rada col ferro a lutto la cesarie, pianga i cordogli della mia prosapia. Pietà, pietà riscuotono quelli che sono adesso a morte prossimi, e che signori un dí furon de l'Ellade. Antistrofe Tutta perí, tutta perí, di Pèlope la progenie, e la casa che, un dí prospera, oggetto era d'invidia. La gelosia dei Numi e il voto lugubre distrutta l'ha, che i cittadini diedero. Ahimè, ahi, lagrimevoli umane stirpi! Come sugli effimeri contro ogni attesa il destino precipita! I mali s'avvicendano l'uno su l'altro; e dal principio al termine mai non rimane umana sorte stabile. Epodo Deh, potessi alla roccia giunger, che in mezzo fra la terra e l'ètere, dall'Olimpo precipite, si libra, appesa ad auree catene, e sempre la mulina un vortice, sí ch'io levar potessi il grido lugubre al padre antico, a Tàntalo, onde il germine il germine ebbero i padri della mia progenie, che la sciagura seppero, quando spinse, in quadruplice schiera aggiogato, dei corsieri l'impeto, lunghesso il mare, Pèlope, e la salma di Mírtilo precipitò nell'estuar del pelago, volgendo il cocchio alla gerestia spiaggia, dove del mare in candide spume si frange il vortice. Sopra la mia prosapia quindi provenne un esecrato augurio, quando tra i greggi un parto nacque - ed opera fu del figliuol di Maia, quando nacque la pecora dal vello aureo, prodigio fatal, fatale per Atrèo, pel principe di cavalli signore. Indi l'orribile contesa, che mutar fece all'aligero cocchio del sole, il corso, distogliendolo dai sentieri del vespro verso l'unico corsier d'Aurora, e Giove le settemplici Plèiadi deviò per nuovo tramite. Morti su morti quindi suscitarono su costoro, il convivio che nome da Tieste ebbe, ed il talamo d'Erope, della subdola donna di Creta con le nozze adultere. E con fatal travaglio della progenie, sopra me per ultimo su mio fratello i mali adesso piombano. CORO: Tuo fratello, ecco, qui si trascina, condannato dal voto alla morte, e con lui, sopra gli uomini tutti fedelissimo, Pílade, simile a fratello, le inferme sue membra sorregge, ed a paro sospinge il piede con lui, per assisterlo. (Entrano Oreste e Pílade) Elèttra: Ahimè! Piango, perché presso alla tomba io già ti veggo, ed al funereo rogo, fratello mio. Di nuovo ahimè! Vedendoti l'ultimissima volta, il cuor mi manca. ORESTE: Rassegnarti non vuoi, tacere, smettere i donneschi ululati? è certo misera la nostra sorte, ma patirla è d'uopo. Elèttra: E come tacerò? Veder la luce del sole, piú non c'è concesso, miseri. ORESTE: Anche tu non uccidermi: m'uccisero assai gli Argivi, ahime! Cessa dal piangere. Elèttra: Per la tua gioventú, pel fato acerbo, misero te! Viver dovresti, e muori. ORESTE: Non m'irretir di codardia, spingendo il ricordo dei mal' sino alle lagrime. Elèttra: Morremo: tanto mal come non piangere? Per tutti è triste abbandonar la vita. ORESTE: Questo giorno è per noi fatale: appendere lacci conviene, od impugnare un ferro. Elèttra: Caro, uccidimi tu, ché niun Argivo possa oltraggiar la figlia d'Agamènnone. ORESTE: Io non t'ucciderò: mi basta il sangue materno: come vuoi tu stessa ucciditi. Elèttra: E sia: di te men pronta io non sarò. Ma prima vo' le braccia al collo cingerti. ORESTE: Godi pur questa vana gioia, se gioia è pure abbracciar chi a morte è presso. Elèttra: Caro, che il nome a tua sorella piú grato possiedi, e con lei sola un'anima! ORESTE: Strugger tu mi farai. Pure, l'abbraccio amoroso ricambio. E qual ritegno avere io piú dovrei, misero? O seno della sorella mia, soavi abbracci, questi ricambî affettuosi, invece delle nozze e dei figli, al petto stringo. Elèttra: Ahimè! Esser potrà che un sol ferro ne uccida, sola un'arca di cedro i corpi accolga? ORESTE: Caro l'avrei; ma nello stesso tumulo chi ci porrà? Ben pochi son gli amici. Elèttra: E non s'adoperò, non perorò perché la morte tu schivassi, il tristo Menelào, traditor del padre nostro? ORESTE: Neppure si mostrò; ma, volta avendo ogni speranza sua verso lo scettro, si guardò bene dal salvar gli amici. Ma via, si muoia nobilmente, e in guisa d'Agamènnone degna. Alla città quale io mi sono mostrerò, nel fegato immergendomi il ferro; e tu conviene ch'abbia coraggio al mio símile. O Pílade, e tu presiedi al nostro eccidio, e i corpi dei defunti componi, e presso recali alla tomba del padre, e seppelliscili. E salve. Io muovo, ben lo vedi, all'opera. Pílade: Férmati: io devo prima apporti un biasimo, se vuoi, morendo tu, ch'io debba vivere. ORESTE: Perché morire insiem con me dovresti? Pílade: Lo chiedi? A che vivrei senza il compagno? ORESTE: Non uccidesti, al par di me, tua madre. Pílade: Ma la tua teco; e ugual castigo merito. ORESTE: Torna a tuo padre, non morir con me. Una patria ti resta, e a me non resta, e la casa del padre, e di ricchezza un porto grande. Delle nozze privo tu sei di questa sventurata, ch'io per l'amicizia nostra, a te promisi; ed un'altra tu sposa, abbine figli, poi che finito è il parentaggio nostro. O caro nome d'amicizia, addio. Tu lo puoi pronunciare, e non piú noi: ché privi sono d'ogni gioia i morti. Pílade: Dai miei disegni erri lontano assai. Né la fertile terra alla mia salma ricetto dia, né l'ètere lucente, se mai ti tradirò, se pormi in salvo e abbandonarti potrò mai. L'eccidio compiei con te, con tua sorella insieme: devo morir: ché sposa mia la reputo, poi che le nozze ne accettai. Che cosa d'onesto dir potrei, quando tornato fossi dei Delfi alla contrada, acropoli dei Focesi, quand'io, che amico t'ero prima della sventura, or che colpito t'ha la sventura, non ti fossi amico? Esser non può: con voi debbo morire; e se moriamo insiem, cerchiamo il modo che Menelào debba con noi soffrire. ORESTE: Oh veder tanto, o caro, e poi morire! Pílade: Credimi, attendi prima di trafiggerti. ORESTE: Se vendicar mi posso, attenderò. Pílade: Taci or: ché poco a femmine mi fido. ORESTE: Di queste non temer: ché sono amiche. Pílade: S'uccida Elena, e cruccio avrà lo sposo. ORESTE: Come? Se far si può, pronto sono io. Pílade: Scanniamola. In tua casa essa è nascosta. ORESTE: Altro! E i sigilli già su tutto appone. Pílade: Smetterà presto, andrà sposa all'Averno. ORESTE: E come? Ha presso a sé famigli barbari. Pílade: Quali? Mai temerò verun dei Frigi. ORESTE: Quei che agli specchi ed ai profumi attendono. Pílade: Le mollezze di Troia ha seco addotte? ORESTE: Certo: e l'èllade a lei sembra un tugurio. Pílade: Contro i non servi a nulla i servi valgono. ORESTE: Vorrei, compiuto ciò, morir due volte. Pílade: Ed io con te, nel far le tue vendette. ORESTE: Svelami il piano, e compi il tuo racconto. Pílade: In casa entriam, come per ivi ucciderci. ORESTE: Questo l'intendo: non intendo il séguito. Pílade: Lagno con lei facciam dei nostri mali. ORESTE: Sí ch'ella in cuor s'allegri, e in vista lagrimi. Pílade: Far potremo anche noi ciò ch'ella fa. ORESTE: E poi, come il cimento affronteremo? Pílade: Terremo sotto i pepli ascosi i ferri. ORESTE: Come potremo innanzi ai servi ucciderla? Pílade: Sparsi li chiuderemo in varie stanze. ORESTE: E chi non tacerà, l'uccideremo. Pílade: L'opera, poi, c'indicherà la mèta. ORESTE: Il nostro motto sia: dar morte ad Elena. Pílade: Appunto. Ascolta come io ben m'avviso. Se il ferro contro una pudica femmina noi vibrassimo, infame atto sarebbe: Elena invece, a tutta quanta l'Ellade la pena sconterà, ché i padri uccise ché i figli sterminò, privò le spose dei loro sposi. Un ululo di gioia si leverà. Fuochi arderanno ai Numi, a te molti ed a me di bene augurî leveranno, perché versammo il sangue d'una femmina trista: il matricida detto piú non sarai: se questa uccidi, quel nome perderai, ne acquisterai uno migliore: l'uccisore d'Elena che tanta gente sterminò. Non deve, non deve Menelào viver felice, e tuo padre esser morto, e tua sorella, e tu stesso, e tua madre - oh no, di questa parlare non convien, taccio -: non deve della tua casa esser padrone, e seco la sposa ch'ebbe in grazia d'Agamènnone. Viver non voglio io piú, se contro lei non vibro il ferro. E dove poi sterminio far non potremo d'Elena, la casa arderemo, e morremo. O l'una o l'altra fallire non potrà, di queste mète: bella salvezza avere, o bella morte. CORO: Tutte odïar le donne la Tindàride devon; l'obbrobrio ella è del nostro sesso. ORESTE: Ahimè! Nulla di meglio c'è che un vero amico: né la ricchezza, né il potere: stolto chi permutasse un generoso amico per una turba! Tu con me tramasti l'insidie contro Egisto, e a me vicino nel pericolo fosti, e modo ancora trovi che dei nemici ora io mi vendichi, e lungi non mi sei. Ma non ti voglio lodar piú oltre: ché fastidio arreca anche l'eccesso delle lodi. Ora io, sul punto d'esalar l'anima, intendo ad ogni modo qualche danno infliggere ai miei nemici, e poi morire: voglio in rovina mandar chi mi tradí. Chi m'ha ridotto a tal miseria, pianga. D'Agamènnone io son figlio, che duce fu de l'Ellade: eletto, e non tiranno, ma tuttavia d'un Nume ebbe il potere. Né io vergogna a lui farò, morendo come uno schiavo, no: liberamente la vita lascerò, di Menelào farò vendetta. Fortunati troppo saremmo poi, se d'esser salvi un modo inopinato, qual pur sia, trovassimo. Ne faccio augurio: è ciò che dico tanto soave, che il sol dirlo impunemente, con volanti parole, il cuore allegra. Elèttra: Fratello mio, d'avere un modo io penso, che te, che lui, che me per terza, salvi. ORESTE: D'un consiglio divin parli: e qual è? Io so che senno alberga nel tuo spirito. Elèttra: Odimi, dunque; ed anche tu, qui bada. ORESTE: Parla: attendere il bene anche è un piacere. Elèttra: Certo conosci, tu, la figlia d'Elena. ORESTE: Sí, ch'ebbe latte da mia madre, Ermíone. Elèttra: Essa di Clitemnèstra è andata al tumulo. ORESTE: A fare che? Quale speranza insinui? Elèttra: Libàmi, invece di sua madre, a spargere. ORESTE: E in che ciò giova alla salvezza nostra? Elèttra: Prendetela in ostaggio al suo ritorno. ORESTE: Qual vantaggio a noi tre ciò recherebbe? Elèttra: Morta ch'Elena sia, se Menelào contro me, contro te, contro costui infierire vorrà, digli che morte ad Ermïòn darai: dovrai la spada alla gola tener della fanciulla. E se, pure vedendo il corpo d'Elena nel sangue immerso, per salvar la figlia, salvo ti manderà, lascia che viva essa rimanga al padre suo. Se invece del cuor domare non saprà l'acredine, e ucciderti vorrà, tu nella gola la fanciulla trafiggi. E certa io sono che, pur se in prima impetuoso ei giunga, ben presto il suo furor mitigherà: ch'egli ardito non è, non coraggioso. Questo è il mio schermo di salvezza. Ho detto. ORESTE: O tu che d'uomo il cuor, le membra insigni hai di bellezza femminil, deh quanto degna di viver sei, piú che di morte! Tal donna tu dovrai perdere, Pílade, o, se vivi, ne avrai nozze beate. Pílade: Deh cosí fosse, e alla città giungesse dei Focesi tra suon d'imenèi lieto! ORESTE: Fra quanto Ermíone tornerà? Sappiamo il resto già, se pur fortuna avremo, d'un empio padre catturando il cucciolo. Elèttra: Presso alla reggia esser dovrebbe già: il tempo ormai trascorso a ciò s'accorda. ORESTE: Sta bene. Or tu, sorella Elèttra, innanzi alla casa rimani, ed il ritorno della fanciulla attendi. E osserva bene se, pria che spenta cada Elena, in casa qualche suo difensore entri, o il fratello del padre tuo, che ci prevenga; e avviso daccene tu, picchiando all'uscio, o dentro mandando qualche messaggero; e noi, frattanto, entrando, a questo ultimo agone, le spade nella man' stringiamo, o Pílade: ché tu con me questi travagli affronti. (Volge il viso a terra) O padre, o tu che della Notte ombrosa abiti la magione, il figlio tuo ti chiama, Oreste; e tu giungi al soccorso di chi ti prega: ch'io, misero, ingiuste pene soffro per te: da tuo fratello tradito sono, perché feci quanto chiedea giustizia: io vo' per questo uccidere la sua consorte; e tu giungi a soccorrerci. Elèttra: Padre, odi, accorri dai profondi baratri d'Averno, ai figli tuoi che per te muoiono. Pílade: Del mio padre parente, odi, Agamènnone anche le preci mie: salva i tuoi figli. ORESTE: La madre uccisi. Pílade: Anch'io la spada strinsi. Elèttra: Ed anch'io v'esortai, troncai l'indugio. ORESTE: A tua vendetta. Elèttra: Ed io non ti tradii. Pílade: Queste preghiere ascolta, e salva i figli. ORESTE: Lagrime su te libo. Elèttra: Ed io lamenti. Pílade: Basta: ai fatti moviam: ché, se le preci pènetrano sotterra, egli bene ode. O Giove, o tu, progenitore nostro e di Giustizia veneranda, date buona fortuna a Oreste, a Elèttra, a me. Solo un cimento, sola una giustizia c'è per noi tre: morire insieme, o vivere. (Oreste e Pílade entrano nella reggia) Elèttra: Strofe Amiche mie Micènidi, o schiera in Argo la pelasga eletta! CORO: Sacra regina, ché ancóra dei Dànai nella città questo nome ti spetta. Elèttra: Veglino altre di voi questa carraia, la reggia a custodire, altre altra via. CORO: Perché dunque m'affidi tal cómpito? Dillo, o diletta mia. Elèttra: Temo che, mentre si compie la strage, giungendo alcuno dinanzi alla reggia, accresca i mali di nuova compage. SEMICORO A: Dunque movete, andiamo: io sarò scólta a questa via che verso Aurora è volta. SEMICORO B: Ed a questa io, che vòlta è verso il Vèspero. Elèttra: Dunque, volgi qua e là, per ogni banda, lo sguardo obliquo; e poi qui ancora torcilo. CORO: Io faccio, e tu comanda. Elèttra: Antistrofe L'occhio gira: tra i riccioli lo sguardo tuo d'ogni parte dardeggia. SEMICORO A: Sopra la strada chi approssima? Un rustico? Chi mai sarà? Si dirige alla reggia? Elèttra: Siam perdute! Ai nemici ei dirà súbito che qui si ascondon queste armate fiere. SEMICORO A: No, non temere: contro quanto immagini, qui deserto è il sentiero. Elèttra: La vostra parte, pur essa è sicura? Oh, dammi dammi la buona notizia ch'è la via sgombra dinanzi alle mura! SEMICORO A: Di qui va bene: alla tua parte bada: ché niun dei Danai vien per la mia strada. SEMICORO B: Nessun si vede: diciamo il medesimo. Elèttra: Dunque, aspettate, ché origlio alle porte, ora che tutto è tranquillo. - A che l'opera indugiate di morte? Non m'odono! Oh i miei danni, oh trista me, il ferro innanzi alla beltà si spunta! Già degli Argivi alcuno, armato il pie' muove al soccorso, la reggia ha raggiunta. - Guardate meglio: non è di quïete quest'ora: l'occhio qua e là volgete. CORO: L'occhio volgo dovunque, a manca e a dritta! (Dall'interno si levano altissime grida) ELENA: Argo, ahimè, muoio d'infame trafitta! SEMICORO A: Deh! Gli amici già sono al cimento! SEMICORO B: D'Elena è questo, mi pare il lamento. Elèttra: Potere eterno di Giove, a soccorrere gli amici nostri discendi discendi! ELENA: Muoio! E tu, Menelào, non mi difendi? Elèttra: Uccidetela, uccidetela, sterminatela, la spada a doppio taglio con valida mano vibrate contro la femmina che padre e sposo tradí, sterminio fece degli èlleni, che presso al fiume pugnando caddero, dove per opera di ferree cuspidi sempre su lagrime cadevan lagrime dello Scamandro lunghessi i vortici. CORO: Tacete, via, tacete: odo il rumore per via, d'alcuno che alla reggia appressa. Elèttra: O carissime amiche, Ermíone giunge nel mezzo della strage: ora si taccia. Nei lacci della rete a cader viene; bella preda sarà, se posso coglierla. Ricomponete i vostri volti, traccia di quanto avvenne non v'appaia. Ed io, come nulla sapessi, attratto il ciglio manterrò. (Si avanza Ermióne) Cara, dalla tomba giungi di Clitemnestra? Dei defunti v'hai sparsi i libami? Inghirlandata l'hai? Ermióne: I favori ne ottenni, e sono qui. Ma m'invade timor: che grido fu quello ch'io lungi dalla reggia udii? Elèttra: E non son tali i nostri guai, da gemerne? Ermióne: Tristo augurio non far. Che c'è di nuovo? Elèttra: Argo a morte condanna Oreste e me. Ermióne: Deh, mai non sia, ché siete a me parenti. Elèttra: Deciso fu: giogo fatal ci opprime. Ermióne: Suonò per questo nella casa il grido? Elèttra: Supplice cadde alle ginocchia d'Elena... Ermióne: Chi dunque? Io nulla so, se tu non parli. Elèttra: Oreste, per la sua, per la mia vita. Ermióne: Dunque, a buon dritto si levò quel grido. Elèttra: E quale altra cagione esser potrebbe di gemiti piú degna? Or meco vieni, dei cari tuoi partecipa le preci, della tua madre avventurata cadi alle ginocchia, ché vederci spenti non voglia Menelào! Tu, che nutrita fosti sul seno di mia madre, ora abbi pietà di noi, sollevaci dai mali. Muovi al cimento, ed io ti sarò guida: ché la nostra salvezza è in mano a te. Ermióne: Ecco, sospingo entro la reggia il piede: per quanto è in me, sarete salvi. Elèttra: O amici armati entro la reggia, ecco la preda: non l'afferrate? (Escono Oreste e Pílade, e afferrano Ermióne) Ermióne: Ahimè, chi vedo? ORESTE: Taci: a noi tu devi procacciar salvezza, e non a te. Elèttra: Tenetela, tenetela, fermi, col ferro alla sua gola vòlto. Menelào veda, che, venuto al cozzo con uomini, non già con Frigi vili, ebbe la sorte che s'addice ai tristi. (Oreste e Pílade trascinano Ermióne dentro la reggia) CORO: Strofe Ahimè, amiche, ahimè, or fate strepito, strepito ed urla si déstino dinanzi alla magion, sí che l'eccidio tremendo, negli Argivi orror non ecciti, né dei Signori alla magione accorrano, prima ch'io possa veramente scorgere nel sangue immerso d'Elena il cadavere, o nuova me ne rechi alcun dei famuli: ché alcuni eventi son certi, altri ambigui. Fu la pena che inflissero ad Elena gli Dei, piena giustizia. Ch'essa l'Ellade tutta empie' di lagrime, per il fatal, per il fatale Pàride, l'Idèo, che tutta trasse ad Ilio l'Ellade. Ma della reggia, ecco, i serrami stridono. Tacete: uno dei Frigi esce: da lui sapremo quanto nella casa avvenne. (Dalla reggia esce esterrefatto uno schiavo frigio) FRIGIO: Fuggii la morte, l'argivo brando, coi barbarici sandali il soffitto varcando di cedro, e i dorici triglífi, fuor dell'atrio, lontano lontano, o Terra, o Terra, con fuggi fuggi barbarico. Ahimè, dove scampare, amiche. ahimè? Spiccherò il volo per l'ètra candido? O per il ponto, cui l'Oceàno testa di tauro fra le sue braccia serra e recinge la terra? CORO: O Idèo, ministro d'Elena, che avviene? FRIGIO: Ahimè Ilio, ahimè Ilio! O zollifertile sacra montagna d'Ida, o dei Frigi città, come il tuo gemo fato supremo, levando funebri funebri cantici, con barbare grida, per l'alicígneo fulgore augelligènito per la beltà della cúcciola di Leda, d'Elena, tracollo dalle torri polite d'Apollo, fatale Erinni! Ahimè, ahimè! Dardania infelice per gl'inni, per gl'inni funebri. Dardania, lizza di Ganimede, che sul giaciglio di Giove siede. CORO: Di' chiaro quanto nella casa avvenne: da quanto hai detto ancor poco argomento. FRIGIO: Ahi Lino, ahi Lino! - cosí cominciano le querimonie di morte i barbari, nella lingua dell'Asia, quando alcuno dei principi trafitto a terra cade, per le ferree spade dell'Ade. Se brami che ti noveri i fatti ad uno ad uno, venner due lioncelli de l'èllade, gemelli. Del condottiero celebre l'uno d'essi era figlio, l'altro, figlio di Strofio, giovin di reo consiglio, simile a Ulisse, maestro di frode, fido agli amici, nella lotta prode, di guerra intenditore, truculento dragone. La sua quïeta astuzia i Numi sperdano, ch'esso è un birbone! Or questi, al trono presso ove la femmina sedeva cui sposò Paride arciero, stavan come pitocchi, molli di pianto gli occhi, un di qua, un di là, tenendola nel mezzo prigioniera. E d'Elena ai ginocchi tendevano le mani alla preghiera. Ed accorsero, accorsero di botto i frigi famuli, e, presi da sgomento, l'uno all'altro chiedevano se non ci fosse qualche inganno sotto. Chi diceva di no; ma a qualcuno sembrò che avviluppata avesse in una trama infida la figliuola di Tíndaro il leon matricida. CORIFEA: Dov'eri tu? Te la battesti súbito? FRIGIO: Com'è costume frigïo frigïo, vicino ai riccioli d'Elena d'Elena, presso alla guancia l'aura agitavo, l'aura, con rotonda compagine di penne, all'uso barbarico. Essa il lino sul fuso avvolgea con le dita - ed il filato al suol cadea profuso - intenta una purpurea veste a filare, ordita di frigie spoglie, dono pel tumulo che Clitemnèstra accoglie. E Oreste favellò alla donna lacona. «Orsú, di Giove figlia, il tuo seggio abbandona, a terra posa il piede, vieni dell'avo Pèlope alla vetusta sede, a udir le mie parole». E la guida e la guida; e dove ei vuole lo segue Elena, ignara di ciò che si prepara. E il malvagio Focese badava ad altre imprese. «Non volete andar via, Frigi, trista genía?» E nella casa, chi qua, chi là, ci chiuse tutti quanti, chi ne le stalle de le cavalle, e chi nell'una e chi nell'altra stanza, l'un dall'altro divisi, tutti dalla padrona a gran distanza. CORO: E quale evento a questo poi seguí? FRIGIO: O Madre o Madre Idèa, terribile terribile Dea, ahimè ahimè, empi scempi, cruenti orrori perpetrarono perpetrarono nella reggia dei Signori. Dal buio dei purpurei mantelli, e l'uno e l'altro il ferro trasse, un di qui, un di lí, rotando il ciglio, perché nessuno s'avvicinasse. E quali montani cignali, stando innanzi alla femmina, dicon cosí: «Morrai, morrai! Ti uccide il tuo tristo consorte, perché tradí di suo fratello il figlio, che in Argo andasse a morte». Ed ella un grido, un alto grido alzò, ahimè, ahimè, e il bianco braccio al seno si batté, e il capo misero percosse percosse, e in fuga col pie' l'orma dell'aureo sandalo mosse mosse! Ma spinse Oreste il micenèo calzare sulla sua traccia; e nelle chiome le dita le caccia, le piega il collo su la spalla manca, e il negro ferro s'appresta ad immergere entro la gola bianca. CORO: Ed in aiuto i Frigi non accorsero? FRIGIO: Al grido, per la casa, e porte e stipiti con leve scassinammo, e ognun, di dove stava rinchiuso, move, uno impugnando per l'elsa un brando, uno un pietrone, un altro un giavellotto, e ci facciamo sotto. Ma ci vien contro Pílade invincibile, simile, in tutto al frigio Ettore simile, o al Telamonio dal cimiero triplice, ch'io vidi, vidi alle porte di Priamo. Noi, con le spade tese venimmo a zuffa. E allora fu palese quanto in valor, nell'impeto di Marte, all'Ellade la Frigia in forza cede. Chi volge a fuga il piede, uno è cadavere, uno è ferito, quest'altro supplica d'aver salva la vita. Fuggiamo per tutta la casa, dove c'è piú oscurità. E chi soccombe, e chi sta per soccombere, e chi caduto è già. Ed Ermïone misera, in casa entrò, mentre cadea ferita la sciagurata che le die' vita. Su lei balzaron pronti, simili a Mènadi senza tirso, che un dàino ghermiscono pei monti. Poi di nuovo si volgono alla figlia di Giove, per ucciderla. Ed essa, dai talami, traverso i palagi, divenne invisibile, o Giove, o Terra, o Notte, o etereo Lume, sia per virtú di farmachi, sia per arte di magi, sia per furto d'un Nume. Quello che poscia avvenne, io non so dirvelo: ch'io dalla casa i passi fuggitivi sottrassi. Gravi spasimi, spasimi, Menelào sopportò sotto Troia, e poca del ricupero d'Elena fu la gioia. (Dalla reggia esce Oreste) CORIFEA: Vedi che ai nuovi casi un caso nuovo s'aggiunge: Oreste a concitati passi muove innanzi alla casa, e un ferro stringe. ORESTE: Dov'è quegli che sfuggito dalla reggia è al brando nostro? FRIGIO (Prostrandosi): Io t'adoro, e con barbarica foggia, o prence, a te mi prostro. ORESTE: Qui non siamo in Frigia: questo che calchiamo è suolo argivo. FRIGIO: Per chi ha senno, dappertutto piú d'un morto vale un vivo. ORESTE: Queste grida per chiamare Menelào levavi tu? FRIGIO: No: chiamavo al tuo soccorso: perché tu vali di piú. ORESTE: Giusta morte, dunque, inflitta fu di Tíndaro alla prole? FRIGIO: Piú che giusta, e avesse avute, da segarle, anche tre gole. ORESTE: Per viltà m'approvi a chiacchiere; ma la pensi in altra guisa. FRIGIO: Rovinò la Frigia e l'èllade: non fu giusto averla uccisa? ORESTE: Giurar devi che non parli per lusinga; od io t'uccido. FRIGIO: Per la mia vita lo giuro: non so giuro altro piú fido. ORESTE: Anche in Troia, i Frigi tanto sbigottia del ferro il taglio? FRIGIO: Allontanalo: di morte troppo orrendo è il suo barbaglio. ORESTE: Temi tu che a mo' di Gòrgone ti pietrifichi la spada? FRIGIO: Non conosco questa Gòrgone; ma ho timor che morto io cada. ORESTE: Tu sei schiavo, e temi l'Ade, che affrancarti può dai mali? FRIGIO: Della luce, anche se schiavi, tutti godono i mortali. ORESTE: Dici bene: orsú, rientra: salvo t'ha la tua prudenza. FRIGIO: Non m'uccidi? ORESTE: No, sei libero. FRIGIO: Soavissima sentenza! ORESTE: Ma cangiar proponimento ben potrei. FRIGIO: Parola sozza! ORESTE: Stolto! E pensi ch'io mi degni di tagliare a te la strozza? No; ché tu, se non sei femmina, neppur uomo dir ti puoi. Io di casa sono uscito per troncare gli urli tuoi; perché quando un grido suona, si ridesta Argo al momento. D'affrontare con la spada Menelào, non mi spavento: venga pure, sopra gli omeri sfoggi pure i ricci biondi: se avverrà che con gli Argivi questa casa egli circondi, per punir la strage d'Elena, e salvezza neghi a me, ed a Pílade, congiunto mio, che meco la compié, ei veder dovrà due morte: la fanciulla e la consorte. (Entra nella reggia) CORO (I varî coreuti pigliano la parola a volta a volta): A: Antistrofe Ahimè, Fortuna, ahimè, ché dei Pelòpidi la progenie precipita in un altro, in un altro agone orribile! B: Che faremo? Annunciar dobbiamo l'esito, o il silenzio convien meglio? C: Il silenzio. (Dalla reggia cominciano a levarsi nuvole di fumo) D: Non vedi? Il fumo, che per l'aria rapido sale, innanzi alla reggia, or dà l'annunzio. E: Levan, per arder la magion tantàlea, le faci, e dalla strage ancor non cessano. F: Regge il fato degli uomini, regge, e lo spinge ove esso vuole, un Dèmone. G: Grande potere è quello. H: Un Nume vindice nel sangue questa magïon precipita, poi che dal cocchio un dí piombava Mírtilo. (Giunge correndo e minacciando Menelào) CORO: Menelào vedi, che a questa reggia appressa il pie' veloce. Degli eventi qui seguíti gli pervenne alcuna voce. A sbarrar non v'affrettate, o d'Atreo figli, le porte, coi chiavacci? è formidabile l'uomo a cui ride la sorte contro l'uom da sorte oppresso - come, Oreste, or sei tu stesso. (Irrompe Menelào) Menelào: Son qui: le audacie udii, l'orride imprese di due leoni: ché non vo' chiamarli uomini. Udii che la consorte mia morta non è, ma che scomparve: ciancia senza costrutto, che inventata alcuno ha, per timore. Son questi artifíci del matricida, e assai degni di riso. Apra alcuno la casa: ai servi impongo che schiudano le porte, affin ch'io salvi dalle mani di questi empî omicidi la mia figliuola, e la mia sposa prenda con questa mano onde convien che muoiano quelli che ucciser la compagna mia. (Sul tetto della reggia appare Oreste che tiene ghermita Ermióne, e le appunta la spada alla gola. Pílade e altri dei suoi servi reggono le fiaccole) ORESTE: Ehi lí, non appressar la mano all'uscio: dico a te, Menelào, che di superbia vai torreggiando; o ch'io gli antichi merli, opra d'artieri, frango, e con un masso ti spezzo il capo. Son da leve dentro chiuse le imposte, e s'opporranno al tuo zelo d'aiuto; qui non entrerai. Menelào: Ahimè, che avvien? Di fiaccole un fulgore vedo in cima alla casa, e questi, come in una torre, asserragliati, e il ferro su la gola sospeso alla mia figlia. ORESTE: Che preferisci? Interrogarmi o udirmi? Menelào: Né quel, né questo; e udirti pur dovrò. ORESTE: M'appresto, sappi, a uccidere tua figlia. Menelào: Strage su strage? Or ora uccidesti Elena. ORESTE: Fosse! Gli Dei deluso non m'avessero! Menelào: Neghi? E cosí mi parli per dileggio? ORESTE: Tristo diniego. Oh, se potuto avessi! Menelào: Potuto che? Terrore in cuor m'induci. ORESTE: Scagliar nell'Ade quel flagello d'Ellade. Menelào: Dammi la salma, ch'io le innalzi un tumulo. ORESTE: Chiedila ai Numi; ed io tua figlia uccido. Menelào: O matricida! Morte a morte addoppi? ORESTE: Vendico il padre che tradisti a morte. Menelào: Non t'è bastato della madre il sangue? ORESTE: Mai stanco mi farà magalde uccidere. Menelào: E insiem con lui l'ucciderai tu, Pílade? ORESTE: Col silenzio acconsente. Io parlo, e basta. Menelào: Poco lieto ne andrai, se a vol non fuggi. ORESTE: Non fuggiremo: arderemo la casa. Menelào: Degli avi tuoi darai la casa al fuoco? ORESTE: Meglio che a te. Morrà nel fuoco Ermíone. Menelào: Uccidila; e dovrai morto espiarla. ORESTE: Sarà cosí. (Fa' l'atto di trafiggerla) Menelào: Ahimè ahimè, non fare! ORESTE: Taci, e la giusta pena allor sopporta. Menelào: è giusto che tu viva? ORESTE: E ch'abbia il regno. Menelào: Il regno dove? ORESTE: In questa Argo pelasgica. Menelào: Veramente potrai con sante mani toccar l'acqua lustrale! ORESTE: E come no? Menelào: E l'ostie prima della pugna abbattere. ORESTE: E tu far lo potrai? Menelào: Pure ho le mani. ORESTE: Ma non il cuore. Menelào: A te chi parlerà? ORESTE: Chi onora il padre. Menelào: E chi la madre onora? ORESTE: è un uom felice. Menelào: Non sei quello tu. ORESTE: Le femmine perverse a me non piacciono. Menelào: Scosta da Ermíone il ferro! ORESTE: Il falso parli. Menelào: Ucciderai mia figlia? ORESTE: Or dici il vero. Menelào: Ahi, che farò? ORESTE: Convinci il popol d'Argo. Menelào: A che? ORESTE: Chiedi che a morte non ci mandino. Menelào: Oppur mia figlia ucciderete? ORESTE: Appunto. Menelào: Misera Elena! ORESTE: Ed io non sono misero? Menelào: Ostia l'addussi a te dai Frigi. ORESTE: Oh fosse! Menelào: Molte pene affrontai. ORESTE: Tranne per me. Menelào: Tu mi soverchi. ORESTE: E tu non m'aiutasti. Menelào: Tu m'hai còlto. ORESTE: Da te còlto ti sei, con la perfidia tua. Su dunque, Elèttra, il fuoco appicca a questa casa. E tu, il piú assennato degli amici miei, Pílade, brucia della casa i merli. Menelào: O di Dànao terra, o cittadini d'Argo l'equestre, non spingete il piede a soccorrerci armati? Alla città tutta costui sopruso fa, per vivere, poi che alla madre die' morte esecrabile. (Alto nell'aria appare Apollo, e accanto a lui Elena rediviva) APOLLO: L'acerbità del tuo spirito mitiga, o Menelào: son di Latona il figlio, io che ti chiamo. E tu càlmati, Oreste, che su quella fanciulla alzi la spada, e le parole ch'io ti volgo ascolta. Quell'Elena che tu spenger volevi, per odio contro Menelào - ma vana fu la tua brama - è questa che vedete dell'ètere nei seni: è salva, e spenta non fu da te: ch'io la salvai, dal ferro tuo la sottrassi, per voler di Giove. Perché, di Giove essendo figlia, vivere perennemente deve, e presso a Càstore ed a Polluce sede aver, nei grembi dell'etra, ai nauti salutare. (A Menelào) E tu conduci alla tua reggia un'altra sposa, or che gli Dei, per la beltà di questa, Ellèni e Frigi ad incontrarsi spinsero, e tante stragi oprarono, perché libera fosse dall'uman rigurgito opprimente, la terra. Ecco per Elena. Oreste, e tu di questa terra i limiti varcare devi, ed abitar, pel volgere d'un anno, il suol parrasio; e dall'esilio tuo, nome avrà per gli Arcadi e gli Azàni, sarà detto Orestèo. Di qui partito, alla città muovi d'Atena, dove renderai conto del materno scempio alle tre Furie. E ti daran, sul colle di Marte i Numi, della causa giudici, piissima sentenza, onde uscirai vittorïoso. E quella a cui la spada vibri contro la gola, Ermíone, è fato che tu la sposi, Oreste. E se alcun reputa che debba sposa averla Neottòlemo, mai sposa non l'avrà: ch'è suo destino venire a me, per chiedere vendetta del padre Achille, e qui, spento da delfica spada, cadere. E a Pílade, le nozze di tua sorella, come a lui promessa già ne facesti, accorda; e l'uno e l'altra vivranno, d'ora in poi, prospera vita. E tu lascia che in Argo Oreste imperi, e a Sparta, o Menelào, récati, e regna su la terra che in dote a te recò la sposa tua, che in mille pene ognora ti strinse. Ed io, per favorire Oreste, la città d'Argo a lui concilierò: ch'io lo costrinsi a uccidere sua madre. ORESTE: Profeta ambiguo, non mendaci furono dunque i tuoi vaticinii, anzi veridici. E sí, temei ch'io, presumendo udire la voce tua, qualche maligno Dèmone udito avessi. Or tutto andrà pel meglio, e al tuo comando ubbidirò. La spada, vedi, allontano da Ermïóne; e sposa l'accetterò, se a me l'assegna il padre. Menelào (Rivolto ad Elena): O di Giove progenie, Elena, salve: degna d'invidia sei tu, che dei Numi la casa avventurata abiti. Oreste, a te, poiché Febo lo vuole, accordo la figlia mia. Di nobil sangue tu, figlia di nobili essa; e a te fortuna rechin le nozze, e a me che te l'accordo. APOLLO: Muova ciascuno adesso ove l'invio; e le contese cessino. Menelào: Obbedisco. ORESTE: Ed anch'io, Menelào, mi chino al nostro destino, e ai tuoi responsi, o Nume ambiguo. APOLLO: Or movete, e la Pace onorate, fra le Dive bellissima. Ed Elena io frattanto alla casa di Giove condurrò, de le fulgide stelle percorrendo la via. Presso ad Era, presso ad Ebe, consorte d'Alcide, lí seduta, sarà pei mortali Diva anch'essa, di sacri libami onorata, coi figli di Tíndaro rampolli di Giove, protettrice dei nauti nel pelago. CORO: O grande, o veneranda Vittoria, non desistere dal protegger la mia vita, dal cingere al mio crin la ghirlanda.