Iòne di Eurìpide traduzione di Ettore Romagnoli PERSONAGGI: Ermète Iòne CORO di Ancelle di Creúsa Creúsa XUTO Un VECCHIO Pedagògo La PROFETESSA PIZIA Atèna La scena in Delfi. In fondo il tempio di Apollo, davanti al tempio un altare e varie stele. Il frontone del tempio è ornato di bassorilievi. Da un lato un boschetto di lauri. (Entra Ermète e si rivolge agli spettatori) Ermète: Atlante, quei che su le bronzee spalle sostiene il ciel, dei Numi antichi albergo, da una Dea generò Maia, che a Giove me procreò, ministro ai Numi, Ermète. E a Delfi or giungo, dove l'umbilico de la terra fissò Febo, e ai mortali pel presente e il futuro auspíci canta. Ché fra gli Elleni sorge una città non ignobile, ed ha nome da Pàllade dall'asta d'oro, dove Febo a nozze forzò Creúsa, figlia d'Erettèo, dove sorgon le rupi a Borea volte, cui de l'Èllade i prenci eccelse chiamano; e ignoto al padre, ché lo volle il Nume, portò nel grembo il peso; e, giunto il giorno, nella sua casa a luce un figlio diede Creúsa, e lo portò nell'antro stesso dove giacque col Nume; e lo depose, sacro alla morte, d'incavata cesta nel tondo giro, degli antichi padri ossequïosa al rito, e d'Erittònio nato dal suol. Ché Pallade a costui due serpi accompagnò, che custodissero il corpicciuolo, e alle vergini figlie d'Aglàuro l'affidò: quindi il costume che gli Erettídi i pargoletti crescono fra serpi d'oro a sbalzo. E quanti aveva la fanciulla gioielli, accanto al bimbo che a morte sacro ella credeva, pose. Ma Febo mio germano mi pregò: «Muovi, fratello, al popolo aborigeno della celebre Atene, la città, che ben conosci, della Diva, il pargolo prendi, or mo' nato, dalla cava rupe, col cestello e le fasce ond'è ravvolto, e all'oracolo mio portalo, a Delfo, del tempio mio sopra la soglia ponilo. Al resto io penserò: però che il pargolo, sappilo, è mio». Non rifiutai tal grazia al Nume ambiguo, al fratel mio. Raccolsi l'intrecciato cestello, e lo portai, e il fanciullo posai sopra i gradini di questo tempio, del canestro aprendo il curvo grembo, ché visibil fosse il pargoletto. Or, giunse, insieme al disco del galoppante sol, la profetessa, per entrare nel tempio, e gittò gli occhi sopra il pargolo infante, e sbigottí che ardito avesse il suo furtivo parto recar del Dio nella dimora qualche giovinetta di Delfo; ed a gittarlo fuor del sacrario s'apprestava, quando pietà rattenne la crudezza; e il Dio anche operò, perché non fosse il pargolo fuor del tempio gittato. Or lo raccolse e lo nutrí; né seppe mai che Febo generato l'avea, né da che madre; né conosce il fanciullo i genitori. Or giovinetto egli scherzava, in giro all'ara ed all'offerte; e poi che pubere fu divenuto, del tesoro i Delfi lo elessero custode, e fedelissimo tesorïere: e qui, nei penetrali del Dio, santa una vita ognor trascorre. Creúsa poi, che die' la vita al giovine, a Xuto sposa andò, per tali eventi. Fra quei d'Atene, e quelli che discendono da Calcodónte, ed abitan l'Eubèa, di guerra un flutto surto era. Il travaglio Xuto affrontò, lo dissipò con l'armi; e in premio ebbe le nozze di Creúsa, egli che non d'Atene era, ma d'Èolo figlio, di Giove nato, Achèo. Ma dopo lunga seminagIòne, il letto sterile a lui rimase, ed a Creúsa. Ed ora, per ciò, per brama di figliuoli, vengono d'Apollo al tempio; e il Nume obliquo, a ciò spinse gli eventi, e non è, sembra, immemore; poi che a Xuto, che giunge a quest'oracolo, il proprio figlio esso darà, dicendolo nato da lui: sicché, quando alla reggia giunto egli sia, Creúsa lo conosca, e le nozze del Dio restino occulte, e ciò che deve abbia il fanciullo. E Iòne farà ch'ei sia chiamato in tutta l'Ellade, e delle genti d'Asia capostipite. In questi anfratti ora entrerò, di lauri velati, per saper quale il destino del fanciullo sarà: che dell'Ambiguo giungere il figlio vedo qui, che gli aditi del tempio renderà netti, con rami d'ulivo. Io primo fra i Celesti, il nome gli darò ch'egli deve avere: Ióne. (Entra nel boschetto di lauri) (Entra Iòne seguito da alcuni ministri del tempio. Indossa belle vesti, porta su la spalla un arco, e stringe una frasca d'alloro ornata di bende, che gli serve a spazzare l'adito sacro del tempio) Iòne: La quadriga sua fulgida il sole lampeggiare fa già su la terra. Fuggon gli astri dinanzi al suo vampo, dall'ètere, verso la notte divina. Del Parnaso le vette inaccesse riscintillano, e il disco del giorno rifrangono agli uomini; e d'arida mirra vapore si leva ai fastigi di Febo. Sul santissimo tripode, siede la donna di Delfo, e canta agli Ellèni i responsi che Febo le grida. (Ai ministri) Via, Delfi, ministri d'Apollo, agli argentëi gorghi castalî movete, di caste rugiade spruzzatevi, e al tempio tornate. E la bocca ad augurî di bene custodite, e scoprite, a chi vuole consultarli, i felici responsi dalle labbra di Giove. Io, frattanto, all'opera intento a cui sin da pargolo intesi, sacre bende e rametti d'alloro adopero, a fare che puro sia l'atrio del tempio di Febo, e molle per umidi spruzzi la soglia; e le schiere d'aligeri che recano danno alle statue votive, fuggiasche disperdo con queste mie frecce: ch'io, privo di padre e di madre, il tempio di Febo custodisco che m'ha nutricato. (Dà di mano alla frasca d'alloro) Strofe Su via, del bellissimo lauro or ora fiorito rampollo, che il suolo purifichi vicino all'altare d'Apollo, cresciuto nei sacri giardini dove fonti prorompono roride perenni, ed umèttano del mirto i santissimi crini, io con te vo' spazzando ogni giorno del Nume il vestibolo con cura perenne, appena scintillano del sole le rapide penne! O Peàn, o Peàn, che da Latona sei nato, beato sii, beato. Antistrofe O Febo, m'è caro, se famulo sono io del tuo tempio, se onoro la sede fatidica: mi par glorïoso lavoro, se debbo servire Celesti signori, e non uomini effimeri; né stanco a sí nobile fatica sarà ch'io mai resti. Fu Febo mio padre: chi me nutriva, io magnifico: chi a me porse aiuto nel tempio d'Apolline, col nome di padre io saluto. O Peàn, o Peàn, che da Latona sei nato, beato sii, beato. (Depone la frasca d'alloro, prende un'anfora d'oro, e versa acqua sul pavimento) Or tregua abbia questo lavoro, piú solchi non tracci l'alloro. Adesso, le polle terrígene dall'anfora d'oro io gitto, che il gorgo castalïo versa, ne spargo la rorida rugiada, io che sorgo dal talamo puro. Deh, ch'io mai non cessi dal culto di Febo; e, se pure desister dovessi, m'arridano fauste venture. (Come colpito da un rumore improvviso, alza gli occhi verso il cielo) Ahi, ahi! Già vengon gli aligeri, del Parnaso i giacigli abbandonano. Volate lontano, io ve l'ordino, dai recinti e dall'auree case. (Dà di mano all'arco e alle frecce) Io te colpirò con le frecce, araldo di Giove, che vinci col rostro la forza di tutti gli alati. Un altro, a quest'ara, ecco, remiga: un cigno. Non volgi altrove il purpureo pie'? Neppure la cetra sonora, compagna di Febo, potrebbe sottrarti dall'arco. Le penne distogli, va' sopra lo stagno di Delo. Di sangue, se tu non m'ascolti, saranno gli armonici tuoi canti bagnati. Ehi, eh! Che uccello è mai questo che approssima? Vuoi forse sottessi i fastigi dei muri, adunar pel tuo nido festuche? La corda sonora dell'arco t'allontanerà. Vuoi dunque obbedire? Ritràggiti, d'Alfèo presso i gorghi nidifica, tra i boschi e le valli dell'Istmo, ché i templi di Febo e le statue non soffrano danno. Ritegno ho d'uccidervi, ché voi le parole dei Numi annunciate ai mortali; ma quello che compiere io debbo, compirò: son di Febo ministro, né mai cesserò dal servire chi me sostentò. (Entra il Coro, formato di ancelle di Creúsa) CORO: Strofe prima PRIMO SEMICORO: Non soltanto in Atene sacra son templi di belle colonne sacri ai Numi nei riti febèi. Anche qui, dove il Nume ambiguo, di Latona figliuolo, ha sede, fulgore di pura pupilla dalla duplice fronte scintilla. SECONDO SEMICORO: Vedi, l'Idra di Lerna, con un falcetto d'oro, di Giove uccide il figlio, osserva, cara, osserva. Antistrofe prima PRIMO SEMICORO: Vedo; e un altro vicino a lui, che leva una fiaccola ardente. Non è forse Iolào, la cui storia è tessuta sui nostri pepli, il doríforo prode? Vedi, col figlio d Giove sostiene le fatiche affrontare e le pene. SECONDO SEMICORO: Sopra un alato mira corsier colui che stermina la Chimera trigèmina, mostro che fuoco spira. Strofe seconda PRIMO SEMICORO: Da per tutto giro lo sguardo. Sopra i muri, vedi il tumulto dei Giganti nel marmo sculto? SECONDO SEMICORO: Dove dici lo sguardo volgo. PRIMO SEMICORO: Adesso quella guarda che preme sopra Encèlado la gorgònïa targa. SECONDO SEMICORO: Vedo Pàllade mia Signora. PRIMO SEMICORO: E piú là, vedi il folgore orrido scintillante, di Giove nella mano, che saetta lontano. SECONDO SEMICORO: Vedo: l'infesto Mimante con la saetta incenera. PRIMO SEMICORO: E un altro dei Terrígeni, con l'imbelle fèrula d'ellera, Bacco Bromio lo stermina. Antistrofe seconda CORO (A Iòne): Dico a te, che stai presso il tempio: oltre la soglia si concede ch'io sospinga il mio bianco piede? Iòne: No, stranïere, è proibito. CORO: Né sapere potrei... Iòne: Che vuoi sapere? Dimmelo. CORO: Se nei templi febèi è l'umbilico della terra. Iòne: Certo, di bende cinto, e intorno son le Gòrgoni. CORO: Ciò narra anche la fama. Iòne: Se l'offerta dinanzi al sacrario faceste, chi brama d'Apollo i responsi, s'appressi all'are; ma schivi, se vittima non cadde, del tempio i recessi. CORO: Ho inteso, e la legge non vo' trasgredire del Dio; ma già ciò che fuori si vede, allieterebbe l'occhio mio. Iòne: Ciò ch'è lecito, tutto osservatelo. CORO: Concessero i Signori nostri, che questo tempio contemplassimo. Iòne: E di qual casa dette siete ancelle? CORO: Sorgono nella terra sacra a Pàllade le case dei miei re. Ma quella onde tu chiedi, è innanzi a te. (Entra Creúsa riccamente vestita, e si appressa lentamente al tempio. Il suo aspetto è triste. Iòne la guarda con interesse, e le rivolge la parola) Iòne: È, la tua, generosa indole; è prova dei tuoi costumi il tuo contegno, o donna, quale tu sia: la nobiltà d'un uomo già dall'aspetto per lo piú si giudica. (Creúsa fissa Iòne, si nasconde il viso e piange) Ahimè! Tu mi colpisci di stupore, quando il tuo viso hai celato, e la tua nobile gota di pianto hai resa molle, come le sacre sedi dell'Ambiguo hai viste. Perché piombare in tanta ambascia, o donna? Dove s'allegran gli altri, appena vedono del Nume il santuario, ivi tu lagrimi? Creúsa: Del mio pianto stupire, ospite, segno di stoltezza non è. Questo vedendo tempio d'Apollo, ad un ricordo antico io corsi: pure essendo qui, la mente restava in patria. Ahimè, donne infelici! O soprusi dei Numi! E che? Giustizia dove trovare piú, quando ci strugge l'iniquità di quelli che comandano? Iòne: Perché disperi, e parli oscuri detti? Creúsa: Nulla! Il dardo ho lanciato. Il resto ascondere vo' nel silenzio; e tu cura non dartene. Iòne: Chi sei tu? Donde giungi? E da qual padre sei nata? E quale il nome onde io t'appelli? Creúsa: Creúsa è il nome mio: d'Erettèo nacqui; mia terra patria è la città d'Atène. Iòne: Celebre la città, nobili sono i padri tuoi: come t'ammiro, o donna! Creúsa: Di tanto, e non di piú, sono felice. Iòne: Pei Numi, è vero, come narran gli uomini... Creúsa: Che vuoi saper? Fa' ch'io chiaro lo intenda. Iòne: Che dal suol nacque di tuo padre il padre? Creúsa: Certo, Erittònio: e poco io n'ebbi d'utile. Iòne: E da le zolle lo raccolse Atèna? Creúsa: Che sua madre non fu, con man virginea. Iòne: E lo die', come sogliono dipingere... Creúsa: Senza mostrarlo, alle figlie di Cècrope. Iòne: So che il cestello le fanciulle aprirono. Creúsa: Perciò, spente, le rocce insanguinarono. Iòne: E dimmi ancora: è vera forse quella voce, è falsa... Creúsa: Qual voce? Chiedi, tempo ho da risponderti. Iòne: Che le figlie Erettèo sacrificò? Creúsa: Per la sua patria, cuore ebbe d'ucciderle. Iòne: E come tu salvata unica fosti? Creúsa: Or ora nata, in braccio ero a mia madre. Iòne: Vero è che il padre tuo nasconde un baratro? Creúsa: Il tridente marin l'apriva, a struggerlo. Iòne: È Rupilunghe di quel luogo il nome? Creúsa: Che chiedi? Oh quale in me ricordo susciti! Iòne: Febo e i suoi vampi onorano quel luogo... Creúsa: d'onore indegno. Oh mai l'avessi visto! Iòne: Che? Quanto al Nume è piú diletto aborri? Creúsa: No; ma quell'antro sa meco un obbrobrio. Iòne: Qual degli Atenïesi a te fu sposo? Creúsa: Non fu d'Atène: d'altra terra fu. Iòne: E chi? Certo di stirpe ei nacque nobile. Creúsa: Xuto, d'èolo figlio, èolo di Giove. Iòne: Come te cittadina ebbe, egli estraneo? Creúsa: Presso ad Atène è la città d'Eubèa. Iòne: Che di mare ha confini, a ciò che dicono. Creúsa: Questa distrusse, a fianco dei Cecròpidi. Iòne: Giunto alleato? E quindi ebbe il tuo talamo? Creúsa: Dote di guerra, e premio al suo valore. Iòne: E con lui giungi, o sola, a quest'oracolo? Creúsa: Con lui: nell'antro di Trofònio or trovasi. Iòne: Sol per vedere? O a consultar gli oracoli? Creúsa: Anche il responso di Trofònio vuole. Iòne: Forse intorno ai ricolti? O intorno ai pargoli? Creúsa: Siamo sposi da tanto, e senza figli. Iòne: Né partoristi mai? Sei senza prole? Creúsa: Bene Febo lo sa, se non ho figli. Iòne: O te felice in tutto, e in questo misera! Creúsa: E tu chi sei? Beata la tua madre! Iòne: Servo del Dio son detto, e tale io sono. Creúsa: Dono dei cittadini? Oppur venduto? Iòne: Appartengo ad Apollo: altro non so. Creúsa: Ospite, allora anch'io compiango te. Iòne: Giusto è: ché il padre mio, la madre ignoro. Creúsa: Abiti in questo tempio, oppure in casa? Iòne: Mia casa è il tempio, i sonni miei lí dormo. Creúsa: Pargolo qui venisti, o giovinetto? Iòne: Pargolo, dice chi saper lo può. Creúsa: Quale donna di Delfo t'allattò? Iòne: Mammella io non conobbi: mi nutrí... Creúsa: Chi? Dogliosa qui giungo, e doglie trovo. Iòne: La ministra del Dio: madre io la chiamo. Creúsa: Da chi sinor sostentamento avesti? Iòne: Mi nutrîr l'are, e quanti ospiti giunsero. Creúsa: Misera, quale ella pur sia, tua madre! Iòne: Certo dal fallo d'una donna io nacqui. Creúsa: Belle son le tue vesti: hai di che vivere? Iòne: Per il Nume che servo io mi fo bello. Creúsa: La tua stirpe a cercar mai non pensasti? Iòne: Indizio non possiedo alcuno, o donna. Creúsa: Ahimè! Patí ciò che patí tua madre, un'altra donna. Iòne: Quale? M'allegro, se il mio duol partecipa. Creúsa: Per essa qui, pria del mio sposo io venni. Iòne: A quale scopo? Aiuto io ti darò. Creúsa: Per chiarire di Febo un motto oscuro. Iòne: Parla: ché in tutto io vo' servigio renderti. Creúsa: Odimi, dunque... Ah, mi trattien vergogna! Iòne: È inetta Diva: a nulla approderai. Creúsa: Stretta un'amica mia d'amor con Febo... Iòne: Con Febo una mortale? Oh, piú non dire! Creúsa: N'ebbe un pargolo; e suo padre nol seppe. Iòne: Ma no, l'ebbe da un uomo; e n'ha vergogna. Creúsa: Essa lo nega. E un tristo atto compie'. Iòne: E come mai, se a un Nume ella soggiacque? Creúsa: Portò fuori di casa, espose il pargolo. Iòne: E quel pargolo, ov'è? Vede la luce? Creúsa: Niuno lo sa: perciò venni all'oracolo. Iòne: Se piú non vive, in che modo scomparve? Creúsa: Pensa che fiere ucciso abbiano il misero. Iòne: Ed a qual prova s'affidò per crederlo? Creúsa: Tornò dove l'espose; e piú non c'era. Iòne: E c'era su la via stilla di sangue? Creúsa: Dice di no, per quanto il suol cercasse. Iòne: E quanto tempo corse, dalla perdita? Creúsa: Gli anni tuoi, se vivesse, appunto avrebbe. Iòne: Empio quel Nume, e quella madre misera! Creúsa: Né piú, dopo quel punto, ebbe altro figlio. Iòne: Che rapito e nutrito il Nume l'abbia? Creúsa: Chi gode solo un ben comune, è ingiusto. Iòne: Ahi, questa sorte al mio dolore è cònsona. Creúsa: Anche te bramerà tua madre misera. Iòne: Non ricordarmi un duol posto in oblio. Creúsa: Taccio. L'ufficio compi onde io t'interrogo. Iòne: Sai qual è dei tuoi detti il punto debole? Creúsa: E che, tapina, è in lei, che non sia debole? Iòne: Svelar può il Nume ciò che vuol nascondere? Creúsa: Sul tripode non sta per tutta l'èllade? Iòne: Onta di ciò che fece egli ha. Non chiedere. Creúsa: E doglie ha quella che patí tal sorte. Iòne: Niun v'ha che possa a te dar quest'oracolo. Se di tristizia nel suo tempio stesso fosse Febo convinto, a chi ti desse tale responso, un danno infliggerebbe. Allontànati, o donna: ai Numi chiedere ciò che ad essi fa scorno, non è lecito. Della stoltezza attingeremmo il vertice, se lor malgrado i Numi costringessimo, le vittime sgozzando, o degli aligeri spiando il volo, a dir ciò che non vogliono. I beni a forza conquistati, o donna, contro il voler dei Numi, util non recano. Giova ciò sol che di buon grado accordano. CORO: Molti gli uomini son, molti gli eventi, di varia forma; e avventurato in tutta la vita, a stento trovi alcun degli uomini. Creúsa: Né lí giusto, né qui, Febo, tu sei verso l'assente, ond'io la causa pèroro. Non salvasti tuo figlio, e lo dovevi, né rispondi alla madre, e sei profeta, che dimande ti volge, affin che un tumulo se non vive, gl'innalzi, e se ancor vive, di sua madre al cospetto infine giunga. Quando impedisce il Dio che quello io sappia che bramo, è vano che ci siano oracoli. Ma veggo, ospite, il mio sposo bennato, Xuto: lasciato di Trofònio ha l'antro, e viene qui. Di ciò ch'io dissi, nulla ridire a lui, ché scorno a me non rechi di segreti impacciarmi, e i detti miei altri da come io svolti li ho, non corrano. La femminil condizïone, facile non è, di fronte agli uomini: le buone, se pratican le tristi, in odio vengono anch'esse; tanta è la miseria nostra. (Entra Xuto) XUTO: Dei miei saluti le primizie accolga primo, e s'allieti il Nume; indi tu, sposa. Forse a temer t'indusse il mio ritorno? Creúsa: No: pure ero in pensiero. E adesso, dimmi, quale responso da Trofònio rechi? Come daranno figli i nostri amplessi? XUTO: Non volle anticipar d'Apollo i detti: sol disse ciò: che senza figli riedere né io né tu dovremmo dall'oracolo. Creúsa: Madre di Febo veneranda, fausta sia la nostra venuta, e in bene torni l'amistà ch'ebbi con tuo figlio un giorno. XUTO: Cosí sia. Ma di Febo ov'è l'interprete? Iòne: Io degli esterni: dei responsi interni altri, che piú siedono presso al tripode, fra i Delfi eletti, e l'indicò la sorte. XUTO: Bene. Quanto chiedevo or tutto so. Entriamo dentro: poiché già la vittima offerta dai foresti, innanzi al tempio, dicono, cadde: e in questo dí, ch'è fausto, del Nume consultar voglio i responsi. E tu, del mirto i ramicelli, o sposa, prendi, agli altari dei Celesti apprèssati, e implora ch'io propizi rechi, dalla casa d'Apollo, ai pargoli gli oracoli. (Entra nel tempio) Creúsa: Lo farò, lo farò. Se vuole almeno l'Ambiguo riscattar le colpe antiche, in tutto caro esser non può; ma come brama, l'accoglierò: ch'egli è pur Nume. (Si allontana) Iòne: Con quali detti oscuri al Nume allude la stranïera, e sempre lo vitupera! Per amor di colei, forse, per cui l'oracolo consulta? O tace cose che conviene tacer? Ma della figlia d'Erettèo che m'importa? Ha con me forse rapporto alcuno? Adesso vado, e verso negli aspersorî, con le coppe d'oro, rorida linfa. Ma convien ch'io biasimi quello che Febo fa. S'unisce a forza con le fanciulle, e le tradisce, e i figli furtivamente procreati, lascia, senza pensiero darsene, che muoiano. Non imitarlo tu! Ma, fatto grande, pratica la virtú. Vedete! Quando tristo è un mortale, i Numi lo puniscono. Bella giustizia! Voi, Numi, sancite le leggi pei mortali, e siete i primi a vïolarle? Se doveste un giorno (non sarà mai, ma pure supponiamolo) tu, Posídone, e tu, Giove, che reggi il firmamento, rendere giustizia dei soprusi d'amore a tutti gli uomini, i vostri templi vuoti rimarrebbero in poco d'ora. Ingiusti siete, quando piú del vostro piacer che della cura dovuta a noi, pensier vi date. Giusto non sarà, no, chiamare tristi gli uomini che quanto ai Numi sembra bello imitano, bensí quelli che a noi sono maestri. (Si allontana) CORO: Strofe Te che non mai d'Ilizia hai sofferti gli spasimi, invoco, Atèna mia, te che il Titan Promèteo di Giove raccogliea dal sommo cèrebro, vittorïosa Iddia. Vieni, dagli aurei talami d'Olimpo, scendi a questa casa Pizia sopra terrestre via, ove, nel centro della terra, al tripode presso, e alle sue carole, l'ara Febèa partecipa fatidiche parole. Anche tu vieni, o figlia di Lato: entrambe indomite, suore entrambe d'Apollo. E supplicate, o Vergini, che l'antica progenie d'Erettèo, con espliciti responsi, anche tardivo, abbia un rampollo. Antistrofe Ché pei mortali, origine è questa sicurissima d'alta felicità, quando brilla nei talami paterni, e frutti dà nuovi, di floridi figli la pubertà, che dai padri ricevano, e ad altri figli possano trasmettere l'avita eredità. Sostegno è questo negli eventi infausti, è gaudio nei felici, è, con l'armi, alla patria schermo contro i nemici. Per me, di figli un'ottima stirpe, piú che dovizia bramo, e che stanza regia; ed aborrisco vita senza pargoli, e chi l'approva biasimo. Io, con sostanza modica, vorrei la sorte aver di prole egregia. Epodo O voi, di Pane sedi, e tu, presso alle cupe Macrèe caverne, rupe, dove, a intrecciar carole battono i piedi le tre figliuole d'Aglàuro, su le piane floride, innanzi al tempio di Palla, al suon dell'arte cui la zampogna intona varie, quando tu, Pane, zufoli nel tuo speco i carmi agresti, dove ad Apollo una fanciulla misera diede un rampollo, e lo gittò, vergogna di talami funesti, agli aligeri preda, ed alle fiere sanguinoso banchetto. Mai nelle storie udii, mai ne' confàbuli presso ai nostri telai che chi nacque da un Nume e da un efimero fortuna avesse mai. (Torna Iòne) Iòne: O ministre, che di questo sacro tempio al limitare state vigili, in attesa del signor vostro, già l'are ed il tripode ha lasciati Xuto, o ancora se ne sta dentro il tempio, e chiede oracoli su la sua sterilità? CORIFEA: Ancor dentro è, stranïero, non uscí da quella soglia. Ora sí, la porta sento scricchiolar, come uscir voglia: anzi, vedi il mio signore ch'esce già, verso noi viene. XUTO (Esce dal tempio e di rivolge a Iòne): Figlio, a te salute: questo dirti prima a me conviene. Iòne: La salute io l'ho: fa' senno tu, ché allor l'avremo in due. XUTO: D'abbracciarti a me consenti, di baciar le mani tue. Iòne: Sei tu sano? O Nume avverso ti sconvolse l'intelletto? XUTO: Pazzo io son, se abbracciar voglio chi piú al mondo è a me diletto? Iòne: Smetti! Strappi, se mi tocchi, con la man, del Dio le bende. XUTO: Vo' toccarti: il mio ben trovo: la mia mano non ti offende. Iòne: Smetti, prima che una freccia nel polmone io non ti scocchi. XUTO: Fuggi, or ch'ài ciò che piú caro devi avere, innanzi agli occhi? Iòne: Io non amo ospiti ch'ànno perso il senno, che son pazzi. XUTO: Morte dammi, ardimi: il padre tuo distruggi, se m'ammazzi. Iòne: Tu mio padre? E come? E debbo darti retta? È buffo il caso! XUTO: Punto: il resto del discorso potrà farti persuaso. Iòne: Che potrai dirmi? XUTO: Ch'io sono padre tuo, tu figlio mio. Iòne: Chi lo dice? XUTO: Chi ti crebbe, tolto a me: l'ambiguo Iddio. Iòne: Tu te stesso garantisci. XUTO: No, l'oracolo ricordo. Iòne: Il responso ambiguo udendo, t'ingannasti. XUTO: E che son sordo? Iòne: E qual è di Febo il detto? XUTO: Che colui che sui miei passi... Iòne: Sui tuoi passi cosa? XUTO: Uscendo dall'oracolo, incontrassi... Iòne: Qual sarebbe la sua sorte? XUTO: Che di quello il padre io sono. Iòne: Da te nato, o dono d'altri? XUTO: Da me nato, eppure dono. Iòne: E ti sei prima imbattuto proprio in me? XUTO: Proprio in te, figlio. Iòne: Strana è assai, tale vicenda! XUTO: Io con te ne maraviglio. Iòne: Da qual madre sarei nato? XUTO: Questo dir non te lo so. Iòne: Né lo disse il Dio? XUTO: Pel gaudio mi scordai di chieder ciò. Iòne: Dunque, madre ebbi la terra? XUTO: Non dàn pargoli le zolle. Iòne: Come dunque io son tuo figlio? XUTO: Il Dio sa ciò che dir volle. Iòne: Or veniamo a un altro punto. XUTO: Lo gradisco anch'io di piú. Iòne: Non avesti alcuna tresca? XUTO: Sí: follie di gioventú. Iòne: D'Erettèo pria che la figlia sposa avessi? XUTO: Prima, prima. Iòne: Ed allor mi generasti? XUTO: Certo, il tempo ci collima. Iòne: Però, come io son qui giunto? XUTO: Questo poi non lo capisco. Iòne: Un viaggio cosí lungo! XUTO: Certo anch'io ne sbalordisco. Iòne: Dimmi un po': sei mai venuto, prima d'ora, al giogo Pizio? XUTO: Pei notturni baccanali, sí, ci venni. Iòne: E avesti ospizio presso alcuno dei prossèni? XUTO: Sí, che a delfiche donzelle... Iòne: Ti congiunse nel medesimo tíaso? XUTO: E Mènadi eran quelle. Iòne: Eri in senno, oppur briaco? XUTO: Vinto al gaudio ero del vino. Iòne: Giusto allor fui generato. XUTO: Fu volere del destino. Iòne: Come al tempio giunsi? XUTO: Quivi la fanciulla t'avrà messo. Iòne: E cosí rimasi libero. XUTO: Figlio, il padre accogli adesso. Iòne: Negar fede al Dio non posso. XUTO: Ora sí, che pensi bene. Iòne: Bramar posso altro che figlio... XUTO: Pensi come si conviene. Iòne: del figliuolo esser di Giove? XUTO: Tale sei precisamente. Iòne: Tocco dunque il genitore? XUTO: Se l'oracolo non mente. Iòne: Salve, padre. XUTO: O grato augurio! Iòne: Questo dí... XUTO: Mi fa beato. Iòne: Cara madre, e te vedere quando mai mi sarà dato? Piú di prima assai desidero or vederti, qual tu sei; ma tu sei di certo spenta, vuoti andranno i voti miei. CORIFEA: La gioia della reggia anch'io partecipo; ma la regina, e d'Erettèo la casa sorte di figli anche vorrei che avessero. XUTO: Il tuo ritrovamento, o figlio, bene dispose un Nume, e te congiunse a me. Ciò che tu avevi di piú caro, senza saperlo, hai ritrovato. Or, ciò che brami, a buon diritto, anch'io lo bramo: il modo che tu la madre tua, figlio, ritrovi, ed io la donna che ti diede a me. Ma troveremo, dando tempo al tempo, anche la madre. Il sacro suol del Nume e la vita raminga ora abbandona, seconda il padre tuo, vieni ad Atene, dove lo scettro di tuo padre, o te fortunato, t'aspetta, e assai ricchezza. Di due modi malato ora non piú sarai, non detto piú povero e ignobile, anzi bennato e assai provvisto d'agi. Taci? A terra perché figgi lo sguardo, e stai cogitabondo, e dalla gioia ricacci ancora il padre tuo nel dubbio? Iòne: Non han le cose l'apparenza stessa, quando son lungi, e viste da vicino. Io la ventura di buon grado accolgo che te, padre, trovai; ma quello ascolta che mi risulta. Dalla terra nacque la progenie d'Atene, a ciò che dicono, non già d'altronde. Io ci capiterei con due malanni addosso: uno, che mio padre è foresto; e due che son bastardo. Simile tara avendo, se vivrò oscuramente, sarò men che nulla. Se poi della città sui primi banchi balzar cercassi, ed essere qualcuno, odïato sarò da quanti privi son del potere: ché fastidio genera la preminenza. E i saggi, che potrebbero essere utili e tacciono, e le cariche non ambiscono, oggetto a lor sarò di riso, taccia avrò di folle, quando, in simile città, tutta trambusto non sto tranquillo. E se potessi ascendere a dignità, fra gli uomini autorevoli ch'ànno il potere, tanto piú la mira dell'invidie sarò: che cosí, padre, suole avvenire: quelli che governano sono agli emuli loro inimicissimi. Poi, se mai giungo intruso in casa altrui, a una donna di figli orba, che teco delle venture tue prische partecipe, vedendosene scissa or, di mal animo sopporterà la nuova sorte, come aborrito da quella, a buon diritto, stando sempre al tuo fianco, io non sarò? E allor dovrai tradirmi, e accondiscendere alla tua sposa, o favorirmi, e tutta veder sossopra la tua casa? E quali stragi ed effetti di letali farmachi contro i nemici non trovan le femmine? E poi, la sposa tua, padre, compiango, che senza figli invecchia, e di tal morbo degna non è: ché i padri suoi fûr nobili. Della sovranità, che a torto esaltano, l'aspetto è bello; e trista è invece, se tu guardi a fondo. Essere può beato, avventurato, chi campar la vita deve temendo sempre, e sempre vigile? Viver come privato eleggerei con la fortuna, piú ch'esser sovrano, che deve amici avere i tristi, e i buoni, per timor della morte, avere in odio. L'oro tu mi dirai, che vale piú di tutto questo. E sí, ricchezza è dolce; ma, se in pugno l'ho stretta, udire i biasimi non mi riesce grato, e aver fastidî. E i beni che qui godo, ascolta, o padre. Il tempo, intanto, il primo ben degli uomini: la poca ressa, poi, né per via m'urta alcun briccone: e cosa intollerabile è per la via cedere il passo ai tristi. E fra preghiere ai Numi e bei propositi son vissuto finora: a gente allegra, non mai piangente fui ministro: ed ospiti questi licenzïavo, e quei giungevano: io nuovo ad essi, ed essi a me, gradito ero a lor sempre. E, ciò che devon gli uomini pregiare, anche se avvien senza lor merito, l'indole e il mio dover fanno ch'io, servo d'Apollo, un giusto sia. Badando a ciò, meglio qui star, che lí, padre mio, reputo. Lascia ch'io viva qui. Ci bea del pari goder grandezze, e pago esser del poco. XUTO: Bene tu parli; e avventurati anch'essi saran pei detti tuoi quelli che ami. Lascia questi discorsi, e impara ad essere felice. Io voglio, incominciando, o figlio, da dove io ti trovai, sedendo all'epula d'un comune banchetto, i sacrifici per la nascita tua, non celebrati pria, celebrare: a casa, poi, come ospite, a lieta mensa verrai meco; e come spettatore ad Atene io t'addurrò, non come figlio mio: ché la mia sposa priva di figli addolorar non voglio, io, ch'or n'ho la ventura. E poi, col tempo, l'occasïone spïerò d'indurla che mi conceda a te lasciar lo scettro della mia terra. E a te di Iòne il nome darò, che bene alla ventura addicesi, perché sui passi miei, quando io dagli aditi del tempio uscivo, tu primo accorresti. Ora, i giovenchi immola, e a mensa invita gli amici tuoi, salutali, ché Delfi omai tu lasci. E voi tacete, ancelle, tutto che udiste: ché se nulla mai direte alla mia sposa, a morte andrete. Iòne: Andrò. Ma un punto alla fortuna mia manca: se quella che mi generò non trovo o padre, la mia vita, vita non è. Se poi debbo augurarmi, oh possa esser d'Atene la mia madre, ond'io libertà di parola abbia dal lato materno almen: ché quando in una schietta cittadinanza càpita un estraneo, pur se diritti ha cittadini, serva è la sua bocca, e tutto dir non può. (Escono) CORO: Strofe Il lutto io vedo già, vedo le lagrime, gli ululi ascolto, il rompere dei gemiti, quando saprà che un figlio trovò lo sposo, la signora mia, ed essa invece orba è di prole e sterile. O di Latona figlio, or che significa questa tua profezia? Donde provenne, da qual donna, il pargolo che fu cresciuto nel tuo santuario? Non m'allieta l'oracolo, e l'inganno pavento, se considero l'esito che aver può tale evento. È strano il signor mio, strano è che m'ordini ch'io rimanga in silenzio. Tutto è frode, fallacia tutto, in questo fanciul che germinò da un altro sangue. E chi negarlo può? Antistrofe Tutto dobbiamo alla regina esplicito narrar, che ogni suo ben poneva, o misera, nello sposo, e partecipe era della speranza dei suoi letti? Egli è felice adesso, ella si logora nel duol: ché piomberà nella vecchiaia senza figli diletti. O sciagurato! A questa casa estraneo giunto, non seppe alla sua sorte, prospera troppo, innalzare l'animo. Deh, mora colui, mora, che con la sua versuzie vinse la mia signora! Deh, mai libami che con pure avvampino fiamme non arda ai Superi! E bene apprender l'anima mia dovrà. Ma s'appressano al banchetto il nuovo padre e il figlio giovinetto. Epodo O gioghi che lo scoglio della Parnasia roccia reggete eccelso, e la celeste sede dove Bacco che leva le scintillanti fiaccole lancia con le nottívaghe Baccanti a danza il piede, mai non giunga il fanciullo alla nostra città, e pria soccomba nel fior dell'età. Bene Atene dovria, che ancora lagrima, tener da sé lontano il nuovo intruso: assai fu che un estrano v'introdusse Erettèo nostro sovrano. (Entra in scena Creúsa, sorreggendo il vecchio pedagogo, tardo e quasi cieco) Creúsa: Il passo affretta, o precettore antico di mio padre Erettèo, mentre era vivo, verso il tempio del Dio, sí che tu possa meco allegrarti, se l'obliquo Iddio responso die' sopra il desio di pargoli. Partecipare la fortuna è dolce coi proprî amici; e se, deh, non avvenga, càpiti un male, dolce è pur nel viso d'un uom che ci ama volgere lo sguardo. Ed io te, come tu mio padre un tempo, sebben regina, come un padre venero. Pedagògo: Degni dei degni avoli tuoi, regina, serbi i costumi; ed agli antichi tuoi progenitori, che dal suolo nacquero, tu non fai torto. Affretta il passo, affretta, al santuario, e guida me: ché ripido quivi è l'accesso; il piede mio reggendo, della vecchiaia mia tu trova il farmaco. Creúsa: Seguimi; e l'orma bada ove tu stampi. Pedagògo: Ecco: il piede è tardo, ma la mente è rapida. Creúsa: Col bordon, tutto intorno il suolo tenta. Pedagògo: Se poco io vedo, anche il bordone è cieco. Creúsa: Sí; ma pur se sei stanco, non t'abbattere. Pedagògo: Nol vorrei; ma non ho ciò che mi manca. Creúsa: Donne, dei miei telai, delle mie spole ministre fide, quale intorno ai figli responso ebbe lo sposo, e si partí? A ciò venimmo: a me significatelo; e non avrai, qualora siano fauste, gioia recata a una signora ingrata. CORIFEA: Oh Dèmone! Creúsa: Lieto non è dei tuoi detti il preludio. CORIFEA: Oh misera! Creúsa: Forse i responsi ch'ebbe il re, mi nuocciono? CORIFEA: Ahi, che farò? Su me la morte incombe. Creúsa: Che canzone è mai questa? E di che temi? CORIFEA: Favelliamo? Tacciamo? O che facciamo? Creúsa: Parla: annunziarmi una sventura devi. CORIFEA: Favellerò, dovessi anche due volte morir. Dato non t'è, regina, in braccio prendere, al seno avvicinare un pargolo. Creúsa: Deh, potessi morire! Pedagògo: Figlia! Creúsa: Me misera, quale disgrazia! Amiche, un tale cruccio mi strazia, che intollerabile mi fa la vita. Pedagògo: Per noi, figlia, è finita! Creúsa: Ahimè, ahimè! Questo cordoglio da parte a parte pènetra il seno. Pedagògo: Ai gemiti pon freno! Creúsa: Mi sfuggon gli ululi! Pedagògo: Pria che si apprenda... Creúsa: Quale messaggio? Pedagògo: Se della stessa tua sorte partecipe teco è il Sire infelice, o sei tu sola. CORIFEA: Un figlio, o vecchio, a lui diede l'Ambiguo: senza costei, felice egli è per sé. Creúsa: Un male, un male detto hai supremo, che all'altro aggiungesi! Io gemo io gemo! Pedagògo: Da qualche donna profetò che il pargolo nascer dovrebbe? O nato egli è di già? CORIFEA: Nato di già, compiuto giovinetto: al mio cospetto, a lui lo die' l'Ambiguo. Creúsa: Che dici? Crederti non so, non è possibil quello che narri a me! Pedagògo: Sembra anche a me; ma del responso l'esito e il fanciullo chi sia piú chiaro esponi. CORIFEA: Il primo che trovò, dal tempio uscendo, lo sposo tuo, gli die' per figlio il Nume. Creúsa: Ahimè, ahimè! Di figli priva, di figli priva sarà ch'io viva! Nella magIòne deserta, i giorni in solitudine trascorrerò. Pedagògo: Or, chi disse il responso? E verso chi le vestigia del pie' volse lo sposo di questa sventurata? Ove lo vide? CORIFEA: Padrona cara, non ricordi il giovine che spazzava il recinto? È quello il figlio. Creúsa: Deh, lungi lungi dal suol de l'Ellade, per l'aere trepido spiccarmi a volo potessi, verso gli astri del vespero: sí acerbo, amiche dolci, è il mio duolo. Pedagògo: Conosci il nome onde l'appella il padre? O tacque, e tu non puoi darne novella? CORIFEA: Iòne: ché primo egli iva al padre incontro. La madre quale sia, dir non ti posso. Ed il suo sposo andò - per dirti, o vecchio, tutto quello ch'io so - segretamente, lungi, alle tende sacre; ed offre qui sacrifizi ospitali e genetlíaci, e col figlio novello a mensa siede. Pedagògo: Siamo traditi: dico siam: ché il tuo danno, o regina, è danno mio: d'intrigo siamo offesi, e d'ingiuria, e d'Erettèo siam dalle case discacciati. Io parlo non per odio al signor tuo, ma perché amo te piú che lui: ch'egli, foresto venne alla tua città, t'ebbe consorte, ebbe la casa tua, l'eredità tua tutta quanta, e adesso è manifesto che di nascosto figli procreò da un'altra donna. E che fu di nascosto te lo dimostrerò. Com'ei ti seppe sterile, a te non volle essere simile, partecipar la tua iattura; e, scelto un talamo servile, e celebratevi nozze furtive, un figlio generò, dalla patria portar lungi lo fece, e l'affidò, ché lo nutrisse, a qualche cittadino di Delfi. E il pargoletto, perché celato rimanesse, libero nella casa del Dio cresciuto fu. E quando poi lo seppe adolescente, a venir qui t'indusse, per la vostra sterilità. Né fece inganno il Nume: inganno, ei fece, che di furto il pargolo a lungo crebbe, e questo laccio tese. Se scoperto, imputato il Nume avrebbe; e, restando nascosto, e a suo vantaggio traendo il tempo, a lui trasmessa avrebbe la tua sovranità. Di Iòne il nome come l'evento volle, indi foggiò, perché mentre iva in lui s'era imbattuto. CORO: Quanto aborrisco i tristi che commettono il male, e con inganni indi l'adornano! Vo' per amico un probo, e sia pur semplice, meglio che un tristo, e sia d'acuto ingegno. Pedagògo: E il male patirai fra tutti estremo, che in casa tua come padrone accogliere un uom dovrai di nessun conto, il figlio d'una schiava, un bastardo: assai men grave sarebbe il mal, se il tuo sposo, adducendo la tua sterilità, col tuo consenso, d'una libera il figlio avesse eletto, e se questo gradito a te non fosse, tornar doveva alla magIòne d'Eolo. Quindi conviene che qualche atto degno d'una donna tu compia: o il ferro impugna, o con inganno o con veleno uccidi il tuo consorte e il suo figliuolo, prima ch'essi uccidano te. Ché, se trascuri di farlo, al fine la tua vita è giunta: quando un sol tetto due nemici alberga, la mala sorte o l'uno o l'altro aspetta. Ed io con te vo' sobbarcarmi all'opera, e nella casa entrato ove il tuo sposo ammannisce il convito, insiem con te uccidere il fanciullo, e ai miei signori conquistati i trofei, morire, oppure vivere, e luce ancor veder. Ché ai servi solo una cosa fa vergogna: il nome; ma in tutto il resto, inferïore ai liberi uno schiavo non è, quando sia probo. CORO: Anch'io, regina, vo', la tua ventura partecipando, o morte, o degna vita. Creúsa: O anima, come tacere? Or come svelar le segrete mie nozze, e il pudore obliare? Quale ostacolo piú mi rattiene? Gareggiar d'onestà, con chi debbo? Il mio sposo non è traditore? Sono priva di casa, di figli, è lontana la speme, che addurre a bell'esito invano sperai, tacendo le nozze, tacendo il mio flebile parto. Ma no, per la sede di Giove cosparsa di stelle, per la Dea che dimora sovresse le mie rupi, pei lidi beati dell'umido stagno Tritònide, piú nasconder non vo' quel mio talamo; e, sgombro che n'abbia il mio cuore, vivrò piú leggèra. I miei cigli di lagrime stillano, tutta è l'anima un cruccio, ché insidie mi tesero gli uomini, mi tesero i Súperi; e questi io denuncio traditori del talamo e ingrati. O tu, che sovressa la cetera settemplice intoni la voce, che l'eco nel corneo silvestre esanime guscio ridesti degl'inni canori delle Muse, a te biasimo infliggo, in questo raggiare del giorno, o figliuol di Latona. Strofe Tu giungesti, dai crini tuoi d'oro scintillando, mentre io nel mio peplo falciavo, a fiorirne il mio seno, i petali d'oro e di croco. Il fior dalle mani mie candide ghermisti, e dell'antro nel talamo mentre io «Madre mia!» gridavo, tu Dio, bandito il pudor, mi rapisti, compiacendo alle brame di Cipride. Antistrofe E un figlio mi nacque, o me misera, che io, per timor di mia madre, deposi in quell'antro medesimo dove in talami tristi me triste possedesti, o sciagura di me! Me misera! Ed ecco, perduto, rapito fu a volo, fu pasto d'aligeri mio figlio; e tu, intanto, fai gemere la tua cétera, e intoni i peani. Epodo Ehi là, di Latona figliuolo, dico a te che i responsi partisci sopra i seggi dorati, e le sedi della terra centrali: alle orecchie la mia voce farò che ti suoni. Ehi là, seduttore malvagio, che sino alla casa del mio sposo, che grazia veruna non ha presso te, conduci un figliuolo. E il mio figlio, il tuo figlio è perduto, degli alati fu preda, e le fasce che la madre gli cinse, perde'. Te Delo aborrisce, te i rami del lauro, vicino alla palma dalla morbida chioma, ove Lato die' a luce la sacra sua prole concetta da Giove. CORO: Ahimè, di mali qual profluvio s'apre, per cui tutti versar dovranno lagrime! Pedagògo: Figlia, mirando il viso tuo, di pianto sazïar non mi posso, e fuor di me sono. Allorché di mali una sentina nel seno accolta avevo già, da poppa m'investe un altro cavallone, udendo le tue parole, onde tu ti distogli dal mal presente, verso vie novelle di cordogli. Che dici? E quale mai è quest'accusa che all'Ambiguo volgi? Qual figlio, dici, hai partorito? Ov'ebbe tomba alle fiere grata? A me ripetilo. Creúsa: Onta n'ho, padre; eppure parlerò. Pedagògo: So cogli amici onestamente piangere. Creúsa: E dimmi allor: sai le Cecròpie rupi? Pedagògo: Sí, presso all'antro ed all'altar di Pane. Creúsa: Quivi affrontai terribile un cimento. Pedagògo: Quale? T'ascolto, e il pianto al ciglio irrompe. Creúsa: Fui sposa a Febo, a mal mio grado, o misera! Pedagògo: O figlia! È quello ond'ebbi pur sospetto... Creúsa: Non so, parlami chiaro, ed io rispondo. Pedagògo: Quando gemevi, ascosa, arcano morbo. Creúsa: Fu allor: chiaro quel morbo ora ti dico. Pedagògo: Quelle nozze celar come potesti? Creúsa: Partorii... pazïente, o padre, ascoltami. Pedagògo: Dove? Chi t'assiste'? Sola soffristi? Creúsa: Sola, nell'antro appunto ove fui sposa. Pedagògo: Hai dunque un figlio, orba non sei? Dov'è? Creúsa: Padre, alle fiere esposto fu: non vive. Pedagògo: È morto? E Apollo nulla fece? O tristo! Creúsa: Nulla: allevato nell'Averno fu. Pedagògo: E chi l'espose mai? Tu no, di certo! Creúsa: Io sí: col peplo l'infasciai, nel buio. Pedagògo: E nell'esporlo, niuno fu tuo complice? Creúsa: Del segreto la brama, e la sventura. Pedagògo: Lasciar nell'antro il bimbo avesti cuore? Creúsa: In quanti non proruppi acerbi lai! Pedagògo: Ahimè! Spietata fosti, e il Nume piú di te. Creúsa: L'avessi visto! Mi tendea le mani... Pedagògo: Cercava il seno? o per venirti in braccio? Creúsa: Appunto, e non lo accolsi, io, lo respinsi. Pedagògo: E qual pensiero t'indusse ad esporlo? Creúsa: Che la sua prole il Dio salvato avrebbe. Pedagògo: Come il ben di tre case abbatte un turbine! Creúsa: Perché nascondi il capo e versi lagrime? Pedagògo: Perché tuo padre e te vedo sí miseri. Creúsa: È la sorte mortal: tutto tramuta. Pedagògo: Ma non s'indugi piú, figlia, nei gemiti. Creúsa: Che devo far? Che mezzi ha la sventura? Pedagògo: Punisci il Nume che primo t'offese. Creúsa: Potrò, mortale, vincere i piú forti? Pedagògo: Brucia d'Apollo il venerando oracolo. Creúsa: Temo. Su me già troppi mali pesano. Pedagògo: Osa allor ciò che puoi: lo sposo uccidi. Creúsa: Un tempo egli m'amò: quindi mi pèrito. Pedagògo: Il figlio uccidi almeno or ora apparso. Creúsa: Come? Ben lo vorrei. Fosse possibile! Pedagògo: Arma di spada ai tuoi ministri il pugno. Creúsa: Vado. Ma dove s'ha da compier l'opera? Pedagògo: Entro le sacre tende, ove banchettano. Creúsa: Troppo aperto lo scempio, e i servi imbelli. Pedagògo: Ahi, ti scoraggi! Un mezzo allor tu cerca. Creúsa: Posseggo un mezzo, di frode e di forza. Pedagògo: In questa e in quella io son pronto a servirti. Creúsa: Odi. Sai tu la pugna dei Giganti? Pedagògo: Sí che in Flegra i Giganti agli Dei mossero. Creúsa: Qui Gea partorí Gòrgo, orrido mostro. Pedagògo: Alleato ai tuoi figli, ai Numi cruccio. Creúsa: Appunto. E poi l'uccise la Dea Pàllade. Pedagògo: Istoria è questa che da tempo io so. Creúsa: La sua pelle sul seno Atèna reca. Pedagògo: Ch'ègida ha nome, ed è veste di Pàllade? Creúsa: Quando pugnò pei Numi ebbe tal nome. Pedagògo: Qual selvaggia figura avea d'insegna? Creúsa: Irto uno scudo di spire di serpe. Pedagògo: E qual può recar danno ai tuoi nemici? Creúsa: Sai d'Erittònio - e come non sapresti... Pedagògo: Che dal suol nacque, primo avolo vostro? Creúsa: Diede a costui, com'egli nacque, Pàllade... Pedagògo: Che cosa? Troppo il tuo discorso indugia. Creúsa: Due gocciole del sangue della Gòrgone. Pedagògo: E qual potere sopra l'uomo aveano? Creúsa: L'una mortale, e l'altra salutifero. Pedagògo: Come le appese al corpo del fanciullo? Creúsa: Con lacci aurei: le diede esso a mio padre. Pedagògo: E tu, quand'ei morí, l'ereditasti? Creúsa: Giusto. E le porto strette al polso, qui. Pedagògo: Qual tempra hanno le due stille divine? Creúsa: Quella sprizzata dalla vena cava... Pedagògo: Qual è la sua virtú? Per che s'adopera? Creúsa: I morbi fuga, e la vita corrobora. Pedagògo: E che potere ha la seconda stilla? Creúsa: Uccide: è tosco dei serpi di Gòrgone. Pedagògo: E congiunte le rechi, oppur divise? Creúsa: Divise: al mal non va commisto il bene. Pedagògo: Quanto occorre tutto hai, figlia carissima! Creúsa: Ne morrà Iòne; e tu l'ucciderai. Pedagògo: Tu parla, a me l'osar. Che farò? Dove? Creúsa: Quand'egli in casa mia giunga ad Atene. Pedagògo: Come non m'approvasti, or non t'approvo. Creúsa: Come? In te nacque il mio stesso sospetto? Pedagògo: Tu la rea sembreresti, anche non fossi. Creúsa: Già: la matrigna odia i figliastri, dicono. Pedagògo: Qui, dove puoi negar la strage, uccidilo. Creúsa: Già di questo piacere io l'ora anticipo. Pedagògo: E a Xuto celerai ciò ch'ei ti cela. Creúsa: Sai tu che devi far? Dalla mia mano questo gioiello d'oro, opera antica d'Atèna prendi, e va dove lo sposo celebra sacrifici, e a me si cela; e quando poi, giunta la cena al termine, libagïoni ai Numi a offrir s'apprestino, dal peplo, ove l'avrai nascosto, prendilo, e nel bicchiere al giovinetto versalo - non a tutti, a lui sol, sappi distinguere - ch'esser padrone in casa mia dovrebbe: ché mai, se pur gli scenderà nell'ugola, verrà in Atene, e qui resterà morto. Pedagògo: Nella casa ospitale or tu ritorna, ed io quanto ordinasti compierò. (Creúsa si allontana) Vecchio mio piede, all'opra or torna giovine, anche se gli anni piú non tel consentono. Con la signora sul nemico piomba, uccidilo con lei, di casa scaccialo. Coltivar pïetà, bene è, se ridono prosperi eventi; ma convien, se nuocere devi al nemico, frangere ogni legge. (Si allontana) CORO: Strofe prima Enodía, che nascesti da Dèmetra, che ai notturni viaggi ognor vigile e ai dïurni presiedi, sul tramite spingi, dove lo spinse la nobile mia signora, il mortifero calice ove il sangue ella infuse, di Gòrgone dalle fauci stillato, a sterminio di colui che s'intruse d'Erètteo nelle case. Oh, niun, sia che mai guidi questa nostra città, s'egli estraneo, se non è dei beati Erettídi. Antistrofe prima Se la mèta e i disegni falliscono della nostra Signora, ed all'impeto manchi l'ora opportuna, quando írrita sia la speme, un pugnale, o alle fauci stretto un laccio, troncando lo spasimo con lo spasimo, a foggia dissimile la vedremo di vita discendere. Ma patir, sin che vive, le fulgide sue pupille non posson che genti stranïere i suoi tetti governino: ch'essa nacque da illustri parenti. Strofe seconda Pudor mi vince del Nume celebre negl'inni, ov'egli presso alle fonti stia di Callícoro, nella vigesima sacra, le fulgide faci mirando, passando vigile tutta la notte, quando anche l'ètere di Giove danza, fitto di sideri, danza Selène, danzan le vergini figlie di Nèreo, che sopra il pelago, che sopra i vortici dei fiumi sempre correnti danzano per la fanciulla cinta dall'aureo serto, e la madre sua venerabile. Di questa terra spera il dominio, spera nei beni degli altri irrompere questo ramingo servo d'Apòlline. Antistrofe seconda Vedete, quanti, con le Pïèridi accompagnandovi, cantar solete versi d'obbrobrio contro gli amori nostri, e la Cípride degli empî talami nostri illegittimi, quanto la nostra progenie supera per pietà l'empia genía degli uomini. Un canto adesso suoni contrario, che i loro talami biasimi. Quanto d'ingratitudine peccò dei figli di Giove il figlio! Poi che Fortuna nella sua reggia a lui comuni negò di pargoli con la sua sposa piantar propaggini, a un'altra Cípride prestò l'omaggio, e d'un bastardo n'ebbe la grazia. (Entra, correndo esterrefatto, un servo di Creúsa) SERVO: Dove trovar potrò, donne, la celebre d'Erettèo figlia, la Signora? Io tutta la città corsi, e piú non la rinvenni. CORO: Compagno mio, che c'è? Quale ti spinge zelo di piedi, e che novelle rechi? SERVO: Ci dàn la caccia! Della terra i principi, perché di pietre spenta sia, la cercano. CORO: Ah, che vuoi dir? L'occulta insidia nostra contro il fanciullo fu dunque scoperta? SERVO: Giusto. E a soffrirne tu non sarai l'ultima. CORO: Come scoperta fu l'ascosa trama? SERVO: Macchia il Nume non volle; e trovò modo che piú d'iniquità valesse il giusto. CORO: Come? Parla, ti prego! Allor ch'io sappia, men grave mi parrà, se pur morire debbo, la morte, e piú cara la luce. SERVO: Poi che lo sposo di Creúsa, il tempio abbandonò del Nume, e col novello suo figlio mosse ai sacrifici offerti ai Celesti e al convito, ei stesso andò dove danza del Nume il fuoco bacchico, perché bagnasse il sangue delle vittime, mercè del figlio ritrovato, il duplice sasso di Bacco. - «E tu, figlio, rimani - disse - e la tenda d'ogni parte chiusa fa' che sorga, per opra degli artefici. E se troppo io, sacrificando ai Numi genetliaci indugio, a banchettare comincino gli amici». Ed i vitelli prese, e partí. Solennemente il giovine eresse, senza adoperar mattone, del padiglIòne le pareti, sopra pali diritti, calcolando il campo del sole a punto, che, né verso i raggi di mezzogiorno fosse esposto, né a quelli di ponente: e la misura prese d'un plettro, a forma di rettangolo, cosí che l'area, per usare il termine degli architetti, era di cento piedi; ché tutto a mensa ei convitar voleva il popolo di Delfo. E poscia, tratti dall'arche i sacri paramenti, oggetto di meraviglia a tutti, ombrò la tenda. Sul tetto pria l'ala di pepli stese, doni votivi del figliuol di Giove, spoglie ch'Ercole offrí, tolte alle Amazzoni, al Nume Febo. Ed intessute v'erano queste figure. Un ciel che nella spèra dell'ètra tutti radunava gli astri. Elio volgeva alla postrema fiamma i suoi cavalli, e si traeva dietro la bianca luce d'Espero. La notte dal negro peplo il suo carro spingeva, senza redini al giogo; eran compagni gli Astri alla Dea. Correvano le Plèiadi a mezzo l'ètra, ed Orïon, che il ferro stringeva; e sopra, all'aureo polo intorno, l'Orsa volgea la coda; e dardeggiava dall'alto il disco della calma Luna che i mesi parte, e, segno securissimo ai nocchieri, le Íadi, e la foriera di luce Aurora, che discaccia gli astri. Sulle pareti altri distese poi barbari drappi: le veloci v'erano navi nemiche degli Ellèni, e miste forme umane ed equine, e di cavalli cacce, e catture di lion' selvaggi e di rapidi cervi, e su le soglie del tempio, innanzi alle sue figlie, Cècrope che si snodava nelle anguinee spire, voto di qualche Atenïese. E in mezzo del convivio posò gli aurëi vasi. Sovra il sommo dei pie' l'araldo allora surse, e fe' bando che al convito acceda chi vuol dei cittadini. E come fu piena la tenda, cinti al crine i serti, le brame sazïâr di lauto cibo. E smesso che il piacer n'ebbero, un vecchio si fece in mezzo, e coi suoi buoni uffici provocò grande ilarità: ché l'acqua attingea dalle brocche, e la porgeva pei lavamani, e della mirra il succo bruciava, e presiedea, ch'ei sé medesimo a tale ufficio elesse, agli aurei calici. E quando l'ora fu della comune libagïone, e dei concenti, il vecchio disse: «Conviene rimandar le piccole coppe, e recar le grandi; e piú sollecita cosí la gioia inonderà gli spiriti». Tutto un affaccendarsi allor fu visto, tazze a recar d'argento e d'oro. E quegli, una eletta ne prese, e quasi al nuovo principe onore far volesse, piena a lui la porse; ma nel vino il farmaco gittato avea mortifero, che, dicono, la signora gli avea dato, perché morir dovesse il giovinetto. E tutti n'erano ignari. Or, quando già libava insiem con gli altri, il figlio or or trovato, uno dei servi un detto profferí di malo augurio. E quei, ch'entro in un tempio, fra sacerdoti esperti era cresciuto, ne trasse auspicio, ed ordinò ch'empiessero un altro vaso; e rovesciò la prima libagïone a terra, e a tutti impose di rovesciar la propria. E fu silenzio. I sacri vasi empiemmo allor col rorido vino di Biblo; e in questa, ecco, uno stormo di colombe piombò sovra la casa: ch'esse nel tempio dell'Ambiguo, vivono senza timore; e, del liquore cupide, nel vin versato a terra i becchi immersero, lo delibâr nelle pennute fauci. E fu per l'altre la bevanda innocua del Dio; ma quella che posata s'era dove libato aveva Iòne, come il licore gustò, súbito scosse, furïosa agitò le penne belle, ed una voce emise incomprensibile, con alto lagno: e sbigottí la turba tutta dei convitati, a quello spasimo. Dando guizzi morí, le venner meno i purpurei piedi. E allora, il figlio designato da Febo, ambe le braccia dal peplo ignude stese su la tavola, e diede un grido: «E qual dunque degli uomini uccidere mi volle? O vecchio, dillo, ché l'insidia tua fu, ché dalle mani tue ricevei la coppa». E per il vecchio braccio l'afferra súbito, e lo fruga, se può sul fatto coglierlo, che indosso rechi il veleno. E fu scoperto. E a stento, costretto a forza, rivelò l'ardire di Creúsa e la trama. Ed il fanciullo designato da Febo, i convitati tutti raccolse, e corse fuori, e, giunto di Delfo innanzi agli ottimati, disse: «O veneranda terra, a me la figlia d'Erettèo, stranïera, con un tòssico tramò la morte». E i principi di Delfo, non già con un sol voto, stabilirono che la Signora mia morir dovesse sotto le pietre, perché volle uccidere un ministro del Dio, tese l'insidia nel tempio stesso. E tutta la città lei va cercando, che con passo infausto infausta via batte'. Ch'ella da Febo venne per ottener pargoli; e priva restò dei figli e della propria vita. (Parte) CORO: Non è possibile, non è possibile allontanare la morte, o misera; quando già chiara, chiara è l'insidia della bevanda mista dei grappoli di Bacco, e delle stille del rapido serpe, ad ufficio di morte. Vittime apparecchiate già vedo agl'Inferi. O della vita mia sorte misera della Signora morte lapídea! Oh quali tramiti di fuga aligera potrò tentare, quali nei bàratri bui della terra, per fuggir l'orrida lapídea morte, su quale ascendere potrò sveltissimo di cocchio zoccolo, di nave poppa? Non è possibile ch'io sfugga, quando non vuol benevolo l'Iddio rispondermi. Quale altra, o misera Signora, ambascia resta al tuo spirito? Perché far male volemmo agli altri, patire doglie noi pur dovremmo, com'è giustizia? (Giunge in corsa affannosa Creúsa) Creúsa: Inseguita, o mie ministre, sono all'ultimo supplizio: fui tradita; e a morte m'ha condannato il voto pizio. CORO: Ben sappiamo in che sciagure ti ritrovi, in che cimento. Creúsa: Dove fuggo? Ho districato dalle reti il piede a stento, dalla morte son fuggita di nascosto; e giungo qua. CORO: Dove mai, se non sull'ara? Creúsa: A che mai mi gioverà? CORO: Non si può dar morte a un supplice! Creúsa: Se lo vuol la legge stessa! CORO: Ti dovranno innanzi prendere. Creúsa: E uno stuol, vedi, s'appressa di ministri armati e fieri. CORO: Dunque siedi sull'altare: il tuo sangue, s'ivi sopra t'uccidessero, espïare poi dovrà chi ti die' morte. Tu rasségnati alla Sorte. (Creúsa si rifugia presso l'altare. Poco dopo giunge furibondo Iòne, la spada in puguo, seguito da uno stuolo d'armati. Da principio parla senza aver vista Creúsa) Iòne: Padre Cefíso, tauriforme Nume, quale vipera mai, qual dragonessa è questa figlia tua, fiamme sprizzante dalle pupille di sanguigno foco? Ogni audacia è la sua, meno terribile essa non è delle Gorgonie stille onde la morte m'apprestò. Ma fausto un Dèmone trovai, prima di giungere ad Atene, a morir sotto le mani della matrigna: oh, qui, fra genti pronte al mio soccorso, misurar potei l'animo tuo, quale sciagura infesta tu sei per me: ché nelle reti stretto, all'Ade tu già mi spedivi. (Vede Creúsa) Ah trista! Vedete, inganno sopra inganno trama. All'altare del Dio s'è stretta, e il fio pagar non vuol dei suoi misfatti; ma non ti potrà l'ara salvare, né di Febo il tempio. La pietà che invochi per te, meglio a me spetta, alla mia madre: ché, se lontano è il corpo suo, nel cuore impresso ho sempre il nome suo. Prendetela, sicché strappare dalla intatta chioma possano i ricci le Parnasie rocce quando giú da una rupe ella precipiti. Creúsa: D'uccidermi io ti vieto, e per me stessa, e pel Nume di cui stiamo sull'ara. Iòne: Tra Febo e te, che mai c'è di comune? Creúsa: La mia sacra custodia al Nume affido. Iòne: E il suo fanciullo attossicar volevi? Creúsa: Non dell'Ambiguo piú: di tuo padre eri. Iòne: Sono del Dio, se padre è chi protegge. Creúsa: Ti proteggeva: ora protegge me. Iòne: No, che pia tu non sei, quale io fui sempre. Creúsa: Volli un nemico del mio sangue uccidere. Iòne: Non venni armato alla tua terra, no. Creúsa: Certo! E bruciasti d'Erettèo la casa. Iòne: Con che vampe di fuoco? Con che fiaccole? Creúsa: La mia casa occupata a forza avresti. Iòne: Pel timor del futuro ardivi uccidermi? Creúsa: Per non morir, se tu giungevi all'esito. Iòne: Figli non hai: perciò m'invidî al padre. Creúsa: Delle sterili spose i beni agogni? Iòne: Terre mi die', ch'ei conquistò, mio padre. Creúsa: Qual su Atène diritto hanno gli Eòlidi? Iòne: Con l'armi, e non a ciance ei la fe' libera. Creúsa: Non può posseder terre, un mercenario. Iòne: Mia dei beni paterni era una parte. Creúsa: Sí, la lancia e lo scudo; e nulla piú. Iòne: L'ara abbandona, e le divine sedi. Creúsa: La tua madre consiglia, ov'ella trovisi. Iòne: Morte vuoi darmi, e non avrai castigo? Creúsa: Sí, se m'uccidi in questo luogo sacro. Iòne: Nel recinto del Dio morir t'è gaudio? Creúsa: Darò cordoglio a chi mi dà cordoglio. Iòne: Ahimè! Strano è però quanto son poco giuste le leggi che un Iddio pose ai mortali, poco assennate: tollerare i tristi non dovrebber gli altari, anzi scacciarli. Giusto non è che s'avvicini ai Numi un'empia mano. I giusti, allor che soffrono qualche sopruso, seder vi dovrebbero, non già, godendo uguale privilegio, i buoni e quei che i Numi abbandonarono. (Dal tempio esce la sacerdotessa Pizia, recando un cestello avvolto in bende di lana) PIZIA: O figlio, sta: del tuo padre fatidico io, di Febo ministra, a queste soglie venni: ché i riti dell'antico tripode le Delfe donne a custodir m'elessero. Iòne: Salve a te, madre che non m'hai concetto. PIZIA: Pure, cosí mi chiami; e a me non duole. Iòne: Sai che costei la morte a me tramò? PIZIA: Lo so; ma troppo tu sei crudo, e sbagli. Iòne: Chi morto mi volea non debbo uccidere? PIZIA: Son le spose ai figliastri ognor nemiche. Iòne: Ed io, se il mal mi fanno, alle matrigne. PIZIA: Basta. E, lasciato per Atène il tempio... Iòne: Che cosa debbo far? Che mi consigli? PIZIA: Puro, con fausti auspíci in patria torna. Iòne: Puro è ciascun che i suoi nemici uccide. PIZIA: Non però tu. Ciò che ti dico ascolta. Iòne: Parla. Amicizia ogni tuo detto ispira. PIZIA: Questo panier fra le mie braccia vedi? Iòne: Veggo, in bende ravvolto, un vecchio cofano. PIZIA: Qui, nato appena, io ti raccolsi un giorno. Iòne: Che dici? Nuovo è ciò che tu mi narri. PIZIA: Perché finor lo tacqui; ora lo svelo. Iòne: E per sí lungo tempo a che nasconderlo? PIZIA: Ministro al tempio ti voleva il Nume. Iòne: Or non mi vuole piú? Come saperlo? PIZIA: Per congedarti, il padre ei ti svelò. Iòne: Perché mai lo serbasti? Avesti un ordine... PIZIA: Il Nume ambiguo m'ispirò l'idea. Iòne: Di far che cosa? Parla dunque, affréttati! PIZIA: Di serbare il cestello insino ad oggi. Iòne: Ed io, vantaggio oppur danno ne avrò? PIZIA: Vi son le fasce ascose in cui t'avvolsero. Iòne: Della madre a me dunque indizi rechi. PIZIA: Or che lo volle il Dio: prima non volle. Iòne: Beato dí, che tanto io veder posso! PIZIA: Prendilo: e a ricercar tua madre ingégnati. Iòne: Asia tutta cercando, Europa tutta... PIZIA: Questo da te giudicherai. Nutrito io t'ho fanciullo, per voler del Nume, e il cestello ti dò, ch'io di buon grado, com'egli impose, presi, e lo serbai: perché volle, non so. Ma niun sapeva ch'io lo serbassi, e dove ascoso fosse. Addio! Come una madre io ti saluto. E comincia a cercar donde conviene la madre tua: prima, se fu di Delfo, qualche fanciulla che ti generò, e poi t'espose in questo tempio: quindi se fu d'Ellade. Ed ora, tutto avesti da me, da Febo, ai casi tuoi partecipe. (Consegna il cestello a Iòne) Iòne: Ahi ahi, dagli occhi quante umide lagrime verso, quando il pensier volgo a quel punto in cui la madre mia, sposa di furto, m'abbandonò nascostamente, e il seno non m'offerse. E del Dio nel santuario, privo di nome, al par di schiavo io crebbi, ché amico il Dio mi fu, nemico il Dèmone. Perché, quando io fra le materne braccia goder dovevo, e vivere felice, privato fui del latte della madre mia prediletta; e, sciagurata anch'essa che mi die' vita, il dolor mio medesimo patí, che priva del diletto fu del suo bambino. Ed ora, questo cofano prendo, e lo reco quale offerta al Nume, ch'io non vi trovi ciò che non desidero. Ché se la madre mia si trova ad essere qualche fantesca, ritrovar la madre è peggio che lasciar tutto in silenzio. (Si avvia per entrare nel tempio; ma quasi súbito si arresta) Ma no, che faccio? Al buon voler del Nume cosí contrasto, che serbar mi volle i contrassegni della madre? Io debbo farmi cuore, ed aprirli: e già, non posso sfuggire al fato. O sacre bende, o lacci ch'ogni mio ben custodivate, a che vi celarono a me? L'arte vedete del rotondo cestello, e come illeso fu da vecchiezza, per voler divino, né sugl'intrecci vedi muffa. E tempo che il mio tesoro custodisce è molto. (Apre il cestello, e comincia a trarne il contenuto) Creúsa: Oh, qual vista inattesa a me si scopre! Iòne: Taci: di troppo anche già pria mi fosti. Creúsa: Non consente il tacer ciò che m'avviene! Non consigliarmi: ché il cestello io scorgo, dove io te, figlio mio, deposi, pargolo senza parola, ne le Rupi lunghe e nell'antro di Pane. E questo altare, anche morir dovessi, or lascerò. (Abbandona l'ara, e si precipita verso Iòne, per esaminare il cestello) Iòne: Afferrate costei: balzò, dal Nume resa delira, dall'altar, l'effigie sacre lasciò. Le braccia sue legate. Creúsa: Tener non mi potrete, anche uccidendomi, che a questo cesto io non m'afferri, e a quello che c'è dentro nascosto, e, figlio, a te. (Si afferra al figlio, e lo tiene stretto: sicché le guardie non possono afferrarla né colpirla) Iòne: Ora io debbo suo schermo essere: è strano. Creúsa: No, ché diletto ai tuoi diletti appari. Iòne: Ti son diletto? E mi volevi uccidere? Creúsa: Se pur diletto ai genitori è un figlio! Iòne: Lascia le trame: io ben saprò scoprirti. Creúsa: Deh, fosse! È questo ciò ch'io bramo, o figlio! Iòne: Vuoto è il cestello, o qualche cosa v'è? Creúsa: Le tue vesti ci sono, in cui t'esposi. Iòne: Puoi dire quali, pria che tu le vegga? Creúsa: E se dir non lo so, voglio la morte. Iòne: Parla: ché strano è questo ardire tuo. Creúsa: Vedi un ricamo ch'io fanciulla feci. Iòne: Com'è? Ricami assai fanno le vergini. Creúsa: Non perfetto: qual può chi all'arte è novo. Iòne: Quale figura c'è? Qui non m'inganni. Creúsa: Proprio in mezzo all'ordito c'è la Gòrgone. Iòne: O Giove! Qual destino ora m'incalza? Creúsa: Orlato è di serpenti, a guisa d'ègida. Iòne: Ecco il peplo ch'io trovo, ecco le fasce. Creúsa: Dei miei telari o antica opra virginea! Iòne: C'è altro? Oppure questo sol sai dirmi? Creúsa: Due draghi: e tutte d'or brillan le fauci. Iòne: Dono d'Atèna, da fregiarne i pargoli? Creúsa: Certo, ad esempio d'Erittònio antico. Iòne: E l'aureo fregio, a che, dimmi, a quale uso? Creúsa: Per portarlo, o mio figlio, al collo il pargolo. Iòne: Ecco i dragoni. Un terzo segno or dimmi. Creúsa: Ti cinsi attorno un serto dell'ulivo che dalla rupe germogliò d'Atène: se ancora c'è, non ha perduto il verde, ché divina è la pianta ond'esso crebbe. Iòne: Madre sopra ogni cosa a me diletta, t'ho pur veduta! E lieto sono adesso, e tu lieta! Alle tue guance mi stringo. Creúsa: O figlio, o luce per tua madre fulgida piú del Sole - perdono il Dio m'accordi - fra le braccia ti stringo, allor che piú non speravo trovarti, e con Persèfone già ti credevo, fra la morta gente. Iòne: Fra le tue braccia, o madre a me diletta, ecco, già morto, e non piú morto appaio. Creúsa: O gioia! O lucidi grembi dell'ètere, qual voce emettere dovrò, qual grido? Donde inatteso ci giunse il bene? Questa allegrezza, donde proviene? Iòne: Tutto in mente potea, madre, venirmi, e non già questo, che tuo figlio io fossi. Creúsa: Tremo ancor di spavento. Iòne: Forse di non avermi, or che tu m'hai? Creúsa: Già da gran tempo ne avea la speme deposta. Il pargolo fra le tue braccia onde, onde avesti, donna? Qual uomo l'addusse al tempio del Dio lontano? Iòne: Opra divina fu! Deh, quanto miseri prima, tanto or felici esser potessimo! Creúsa: T'ho dato a luce non senza lagrime: dalle materne braccia, fra gli ululi fosti diviso: ora, godendo, con soavissimo tripudio, spiro presso il tuo viso. Iòne: Di te parlando, anche di me favelli. Creúsa: Priva di figli priva di pargoli io piú non sono: la casa ha gli ospiti, la terra i príncipi; d'Erettèo giovine torna la casa, del suolo prole: verso le tènebre non è piú volta, ma verso il sole. Iòne: Madre, anche il padre qui venga, e partecipi questi piacer che ho procurato a voi. Creúsa: Che dici? Oh, qual per me rampogna, o quale! Iòne: Che dici? Creúsa: D'altri tu sei figlio, d'altri! Iòne: Ahimè! Fanciulla me bastardo avesti? Creúsa: Non tra le danze non tra le fiaccole furono, o figlio gl'imenèi, donde schiudesti il ciglio. Iòne: O madre, ahimè! Da chi nacqui illegittimo? Creúsa: Lo sa la Diva che uccise Gòrgone. Iòne: Che cosa hai detto? Creúsa: Che nelle patrie mie rupi, il clivo occupa dove crebbe l'ulivo. Iòne: Non chiaro: oscuro è ciò che dici, oscuro. Creúsa: A Febo, presso la rupe armonica di rosignoli... Iòne: Febo a che nomini? Creúsa: A Febo un vincolo m'uní furtivo. Iòne: Parla: un onore tu m'annunci, un giubilo. Creúsa: Ed all'Ambiguo ne diedi, al mese decimo il frutto, ma non palese. Iòne: Dolcissime parole, ove sian vere! Creúsa: Con queste bende ch'io sopra i pettini tessei virginei, t'avvolsi, o figlio. Ma non io ti lavai, non t'ebbi meco né mai suggesti il mio latte materno. Ma degli aligeri nel vuoto speco t'offersi ai rostri, vittima ed epula da me gittato fosti all'Averno. Iòne: Fu, madre, ardir crudele! Creúsa: Nello spavento, figlio, irretita, io feci getto della tua vita. Contro mia voglia ti diedi a morte. Iòne: E or or da me pativi un'empia sorte. Creúsa: Ahimè, terribili fûr quegli eventi, questi terribili! Siamo dall'una parte travolti nella disgrazia, poscia dall'altra nella fortuna. Mutano i venti, ma calmi or posano: già lunga pezza durâr gli affanni: prospera, o figlio, soffia or la brezza. CORO: Dopo quanto seguí, nessuno reputi che per gli uomini sian cose impossibili. Iòne: Fortuna, o tu che mille e mille agli uomini e di bene e di mal vicende alterni, di quale scempio fui su l'orlo, uccidere mia madre, e, senza colpa, il fio patirne! Ahimè! Tanto del Sol sotto i lucenti giri in un sol giorno apprendere si può? O madre, io te scoprii, dolce scoperta, né la mia stirpe è tal ch'io mai la biasimi. - Ma dire il resto a te, da solo a solo desidero: vien qui: voglio parlarti all'orecchio, e nasconder nelle tènebre questa faccenda. Vedi un po', se, madre mia, non fossi incappata nella solita colpa delle ragazze, che si sposano di sotterfugio, e non avessi poi data la colpa al Nume, per nascondere la mia vergogna, e detto ch'io di Febo son figlio, e partorito a lui non m'hai. Creúsa: No, per la Dea che sopra il carro armata presso a Giove pugnò contro i Giganti, per Nice Atèna, padre alcun degli uomini non t'è, ma Febo che ti crebbe, o figlio. Iòne: E come mai suo figlio a un altro padre diede, e dice ch'io son figlio di Xuto? Creúsa: Figlio non già; ma il proprio figlio a Xuto diede: all'amico può ben dar l'amico, ché in casa poi signor gli cresca, il figlio. Iòne: Fu veritiero il Nume, oppure il falso vaticinò? Mi turba il dubbio, o madre. Creúsa: Odi l'idea che m'è venuta, o figlio. Per il tuo bene t'introdusse Apollo in una nobil casa. Ove tu invece figlio del Nume fossi detto, erede esser potuto non avresti, senza nome di padre. E come, ov'io le nozze tenni nascoste, anzi cercai d'ucciderti? A un altro padre pel tuo ben ti diede. Iòne: Non prenderò la cosa alla leggera; ma nel tempio entrerò, consulterò Febo, se figlio son suo, se d'un uomo. (Sul fastigio del tempio appare Atèna) Oh! Qual dei Numi all'odoroso tempio il suo volto di sole in vetta mostra? Fuggiamo, o madre mia, ché non dovessimo veder dei Numi i proibiti arcani. Atèna: Non fuggite: ché a voi non son nemica, ma vostra amica; ed in Atene, e qui quella io sono onde nome ha la tua terra: Pàllade Atèna. E qui son corsa in fretta, per mandato d'Apollo: esso in persona non credé bene giungere al cospetto vostro, ché in ballo non tornasse il biasimo di ciò ch'è stato; ed invia me, ch'esponga ciò che vuol dire: che costei concetto t'ebbe da Febo; e che t'ha dato il Nume a chi t'ha dato, e che non è tuo padre, per introdurti in una casa nobile; e poi che tutto si scoprí, temendo che per l'insidie della madre tua morir dovessi, e per le tue la madre, con un astuzia ti salvò: disposto invece avea di tacer tutto il Nume, ed in Atene di far sí che fosse per madre tua costei riconosciuta, tu per suo figlio, per tuo padre Apollo. Ma per compire l'incombenza ond'io strinsi al cocchio i cavalli, a voi gli oracoli svelo del Nume. Uditemi. Creúsa, questo fanciullo tu prendi, e di Cècrope muovi alla terra, e sopra il trono insedialo: ché ben degno è costui, nato dal sangue d'Erettèo, di regnar su la mia terra. E in èllade sarà celebre; e i figli nati da lui, da solo un ceppo quattro, nome alla terra e alle tribú daranno, fra cui diviso è il suolo mio rupestre. Geleone sarà primo; secondo (Nel testo è una lacuna cosí colmata) Oplete, poi Argàdeo ed Egicòreo, e i popoli da loro avranno nome: Geleonti, e gli Oplèti, e gli Argàdi, e la tribú che dall'ègida mia deriva il nome, degli Egicòri. E di costoro i figli, popoleranno le città, nell'ora che il Destino segnata ha, delle Cícladi, e le spiagge marine, onde il mio suolo gran forza avrà: d'entrambi i continenti abiteranno le pianure opposte, dell'Europa e dell'Asia; e il nome avranno dal nome di costui, Iòne, a gran gloria. E comune tu e Xuto avrete prole: Doro, per cui detta sarà negl'inni Dòride, la città: secondo Achèo signor sarà della Pelopia terra prossima al mare, al Rio d'accanto; e achèo sarà, dal nome suo, chiamato il popolo. E in tutto Apollo bene adoperò: ché senza male in pria sgravar ti fece, sí che agli amici ti celassi; e quando poi partoristi ed esponesti il pargolo entro le fasce, in braccio egli lo tolse, a Ermète impose di recarlo qui, né lasciò che spirasse, e lo nutrí. E taci adesso tu ch'esso è tuo figlio: serbi Xuto la sua dolce credenza, e tu serba il tuo bene, o donna, e godine. Salute a voi: che d'ora in poi sollievo vi predíco dei mali, e sorte prospera. Iòne: O tu, Palla, che nascesti dal piú grande fra gli Dei, ciò che dici, ascolto e credo: che d'Apollo e di costei figlio son, credo; né prima pensai ch'esser non potesse. Creúsa: Odi or me: dò lode a Febo, che il figliuol che pria neglesse ora m'ha restituito: nol potei prima lodare. Or del Nume questi oracoli, queste soglie or mi son care, che già pria m'erano infeste: di buon grado ora al picchiotto io m'appendo, ed alla porta di saluto volgo un motto. Atèna: Io ti lodo, ch'ài mutato, che il Dio lodi: anche tardiva alla fin la man dei Numi mai di forza non è priva. Creúsa: Figlio, entriam nel tempio. Atèna: Entrate, ed io seguo l'orma vostra. Iòne: Questa è assai nobile scorta. Creúsa: Che ama Atèna essa ben mostra. Atèna: Sull'antico trono or siedi. Iòne: Prezïoso è un tale acquisto. (Atèna sparisce) O di Giove e di Latona figlio, salve! E chi dai mali vide oppressa la sua vita, non disperi, e agl'Immortali presti onore: ché alla fine pur trionfa il buono: e il tristo per virtú di sua natura, trionfar mai non fu visto. (Iòne e Creúsa entrano nel tempio. Il Coro abbandona l'orchestra)