ERCOLE di Eurìpide traduzione di Ettore Romagnoli PERSONAGGI: Anfitrióne Mègara LICO ERCOLE IRIDE FURIA ARALDO Tesèo CORO Il palazzo d'Ercole a Tebe. Dinanzi al palazzo, un altare di Giove, intorno al quale sono aggruppati supplici Anfitrióne, Mègara e tre figli d'Ercole giovinetti. Anfitrióne: Chi non conosce Anfitrïóne d'Argo, ch'ebbe al talamo suo Giove partecipe, cui die' la vita Alcèo, figlio di Pèrseo, e che d'Ercole fu padre? Io son quello. E in Tebe venni a soggiornare, dove la terrigena spiga degli Sparti un giorno crebbe, della cui progenie Marte ben pochi lasciò salvi; e questi per i figli dei figli popolarono di Cadmo la città. Da questi il figlio nacque di Menecèo, Creonte, re di questa terra; e fu Creonte padre di Mègara, che qui vedete. Un giorno tutti i Cadmèi per essa, al suon dei flauti levaron l'imenèo, quando alla mia casa l'addusse sposa Ercole illustre. Ma poi mio figlio Tebe abbandonò, il mio soggiorno, e i suoceri e Mègara, e fra le mura d'Argo, e nella rocca dei Ciclopi abitar volle, donde io bandito fui, ch'Elettrïone uccisi. E per lenir la pena mia, per brama d'abitar la sua patria, in gran compenso, offerse ad Euristèo, di sterminare le belve della sua terra, o sia ch'Era lo spingesse coi suoi pungoli, o sia l'impulso del destino. Or, poiché tutte l'altre fatiche ebbe compiute, in ultimo dalle Tenarie foci all'Ade scese, per condurre alla luce il can dai tre corpi; e di là non è tornato ancora. Un'antica leggenda è fra i Cadmèi, che a tempi andati, un certo Lico, sposo di Dirce, fu signor di Tebe e delle sue sette torri, pria che vi regnassero Anfíone e Zeto, i due figli di Giove dai candidi puledri. Un suo figliuolo, ch'à lo stesso suo nome, e non tebano, ma venuto d'Eubèa, piombò su Tebe, mentre a mal di fazioni essa era in preda, Creonte uccise, ed or la terra impera. Onde ora, sembra, è mal grande per noi il parentado con Creonte stretto; perché, mentre mio figlio è nelle viscere della terra, il signor nuovo di questa contrada, Lico, i figli vuole uccidere d'Ercole, e, per lavar sangue con sangue, uccidere la sposa, e me, se pure tuttora annoverar convien fra gli uomini me, disutile vecchio, affin che i pargoli, un giorno, divenuti uomini, il sangue non vendichin dei loro avi materni. Ed io - poiché mio figlio, allor che scese giú nella negra sotterranea notte, qui mi lasciava educator dei figli, della casa custode - affinché scampo trovassero da morte i figli d'Ercole, con la lor madre, a quest'altare venni di Giove salvatore: il figliuol mio nobile lo fondò, segno del suo trionfo, allor che vinti egli ebbe i Minî. E a questo asilo ci stringiam, di tutto bisognosi, di cibo, di bevanda, di vesti: il fianco distendiamo sopra la nuda terra: sigillate sono per noi le case, e piú non c'è speranza. E degli amici, alcuni vedo ch'erano amici falsi, e i veri non ci possono prestare aiuto; è tal della sciagura per gli uomini l'effetto. Oh, niun patirla possa, per poco che mi sia benevolo. Troppo verace prova è per gli amici. Mègara: O vegliardo che un dí, con tanta gloria, le schiere dei Cadmèi capitanando, ponesti a sacco la città dei Tafi, nulla di chiaro mai veggono gli uomini nei consigli dei Numi. Io sventurata non fui da parte di mio padre; ch'esso magnificato per la sua fortuna, era, ché della terra aveva il regno, il regno, onde le lancie a pugna balzano contro chi se ne bea, piene di brama. E figli aveva; e me sposa a tuo figlio diede, sí ch'io nella magione d'Ercole a gloria entrai. Ma già vanito è il tempo della fortuna, è spento, o vecchio; e a morte siamo presso tu ed io, son questi figli d'Ercole, ch'io, come una chioccia i suoi pulcini, accolgo sotto l'ali. E d'essi or l'uno or l'altro mi si fanno intorno, m'investon di domande: «O madre, parla: nostro padre dov'è, lungi da Tebe? Che fa? Quando ritorna?» E nella vana fanciullesca lusinga, il padre cercano. Io storie invento, e coi discorsi illudo la lunga attesa. Ma se l'uscio scricchiola mai, trasalisce ognuno, e in piedi salta, per balzare del padre alle ginocchia. Ed or, quale speranza, o quale terra trovar sapresti, per salvarci, o vecchio? A te gli sguardi io volgo. Oltre i confini della terra passar di sotterfugio, noi non potremo: guardano i passaggi scolte di noi piú forti; e negli amici piú non ci resta di salvezza speme. Il tuo disegno a noi dichiara adesso, quale ch'ei sia: ché, se morire è d'uopo, non convien, per viltà, soverchio indugio. Anfitrióne: Piacevole non è consigli simili, o figlia, offrire a cuor leggero, e pompa di zelo far, quando non c'è pericolo. Mègara: Poca è la doglia tua? Tanto ami vivere? Anfitrióne: Certo ne godo; ed amo la speranza. Mègara: Anch'io; ma non sperar mai l'impossibile. Anfitrióne: C'è scampo ai morbi, quando si procràstina. Mègara: Odïosa è l'attesa, e il cuor mi morde. Anfitrióne: Potrà forse una rotta favorevole lungi da questi mali, o figli, addurci: il figlio mio verrà, forse, il tuo sposo. Càlmati adesso, e i lagrimosi estingui rivi sugli occhi dei fanciulli, e illudi l'anime loro con infinte fole, sebbene è trista finzïon. Si stancano sin le sciagure che colpiscon gli uomini, né i venti ognor con ugual forza spirano, né fortuna sorride insino all'ultimo ai fortunati. Con alterna vece tutte mutan le cose: ottimo è l'uomo che sempre spera; e chi dispera, è un vile. (Entra il Coro, composto di vecchi compagni d'Anfitrióne) CORO: Strofe Ai letti eccelsi, al talamo senile, sul baston cercando appoggio, simile a cigno dalle piume candide, giunsi, cantor di querule canzoni. Altro non siamo piú che ciance, e fatue di sogni visïoni. Pur, se tremulo è il corpo, è il cuore impavido. O figli, orbi di padre! O vecchio misero, e tu, misera madre, che il tuo consorte lagrimi, giú disceso nell'Ade! Antistrofe Il piede, e le tue vecchie membra non affannar, siccome a ripida rocciosa erta un corsier, che, sotto il carico di roteante cocchio, al peso cede. S'appigli al manto ed alla man, chi debile sente mancargli il piede. O vecchio, ed ora tu conduci il vecchio. Compagni già nelle fatiche, giovani l'armi stringemmo un giorno coi giovani; e la celebre patria non n'ebbe scorno. Epodo Vedete, a quella simile del padre lor, terribile fulge la lor pupilla. Non v'è sciagura che su questi pargoli non piombi; e pure in lor la grazia brilla. Ahi, col morir di questi fanciulli, di che validi difensori stremata, Ellade, resti! CORO: Ora ecco, presso a queste case io vedo farsi Lico, il signor di questa terra. (Si avanza Lico) LICO: Interrogarvi, o padre e sposa d'Ercole, voglio, se pure m'è lecito, e lecito m'è, poiché son vostro signore, chiedervi quello ch'io bramo. Quanto a lungo ancora la vostra vita prolungar credete, e che speranza avete, e che sostegno contro la morte? Confidate forse che dall'Ade tornar possa di questi fanciulli il padre spento? Oltre ogni limite esagerate la sciagura vostra, tu per l'Ellade tutta i fatui vanti spargendo, che con Giove e figlio e talamo comuni avesti, e tu che proclamata fosti consorte al piú prode fra gli uomini. Ma che cosa di grande Ercole, il tuo sposo, ha compiuto? Sterminò, die' morte a un serpente palustre, e a quella belva nemèa, che prese al laccio, e disse poi che fra la stretta delle braccia sue soffocata l'aveva. E tali sono le ragion' vostre? E a morte esser sottratti dovrebbero per esse i figli d'Ercole, che, privo affatto di coraggio, fama lucrò, lottando con le fiere, e niuna prodezza ebbe nel resto al braccio manco, mai lo scudo non resse, e mai non mosse contro le lancie, ma brandiva l'arco, l'arma d'ogni altra piú codarda; e pronto era sempre alla fuga. E non è l'arco prova al valor d'un guerrïer, ma quando resta a pie' fermo, e i solchi fissa intrepido irti di lancie dei nemici, saldo nella sua fila. E questa mia non è efferatezza, ma prudenza, o vecchio. Io so che il padre di costei, Creonte uccisi, e il soglio or n'occupo. Se crescono questi fanciulli, io vivo avrò lasciato chi dell'opere mie trarrà vendetta. Anfitrióne: Giove, per quanto spetta a lui, difenda di Giove il figlio; ma provare io voglio che stoltezza è la sua, parlando come, Ercole, di te parla; e che la fama tua sia macchiata, io tollerar non posso. E prima, allontanar voglio l'accusa sacrilega da te; ché sacrilegio, Ercole, fu chiamarti vile; e invoco testimonî gli Dei, lo chiedo al folgore di Giove, alla quadriga, ove egli asceso, ai Giganti nel fianco i dardi alati infisse, ai figli della terra, e fulgida vittoria fra gli Dei ne celebrò. Al monte Folo poi récati, chiedi dei Centauri alla stirpe, alla quadrupede lor tracotanza, o pessimo fra i re, se prode sovra tutti altr'uomo estimino tranne che il figlio mio, ch'è, dici tu, solo apparenza: al Dirfi chiedi, dove fra gli Abanti crescesti, e non ne avrai lode; ché non c'è luogo dove tu qualche prodezza abbia compiuta, e possa testimonianza dalla patria averne. L'arma ch'ei tratta, l'arco, tu poi biasimi; e l'arco è un gran trovato. Odi, ed apprendi da me. Dell'armi sue schiavo è l'oplita, e se prodi non son quanti schierati sono con lui, per la viltà di quelli che gli son presso, ei stesso muore. E se la sua lancia si spezza, ei non ha schermo contro la morte piú; ché sola aveva quella difesa. Quanti esperta invece hanno la mano a trattar l'arco, questo vantaggio hanno, che mille e mille dardi lanciando, gli altri dalla morte salvano, e, stando lungi, e con saette cieche trafiggendo i veggenti, a bada tengono le schiere ostili, e i corpi non espongono agli avversarî, e senza esporsi ai colpi, stanno al sicuro; ed è questa in battaglia la massima scaltrezza, i tuoi nemici danneggiare, e salvar la tua persona, senza dipender da Fortuna. Tali son gli argomenti che a pensar m'inducono il contrario da te su tal soggetto. Questi fanciulli poi tu brami uccidere. Ma che t'han fatto? In questo punto solo mi sembri accorto, che dei forti i figli temi, tu che sei vil. Ma iniquo è certo, se noi morremo per la tua viltà, quando per nostra man, che siam piú prodi, tu dovresti cader, se giusto fosse per noi di Giove il cuore. Or, poiché reggere lo scettro vuoi di questa terra, lascia che noi fuggiaschi ne partiamo, e aborri da vïolenza, se non vuoi tu stesso vïolenza patir, quel dí che avversa spiri contro di te l'aura del Nume. Ahi, ahi! Terra di Cadmo, adesso, volgere debbo anche a te la tua parte d'ingiurie: questo soccorso ad Ercole tu porgi, ed ai suoi figli? Contro i Minî tutti venuto a pugna, ei fece sí che libero alto levar poteste il capo. E lode all'Ellade non dò, né so tacere quando la trovo tanto ingrata verso il figliuol mio, mentre dovrebbe accorrere, e fuoco e lancie a questi suoi rampolli recare, ed armi, a compensare, o figlio le tue fatiche, onde purgasti il mare e la terra dai mostri. E invece, o figli, né Tebe a noi soccorso dà, né l'Ellade; e a me gli occhi volgete, amico debole troppo, che nulla ho piú, tranne la voce, poiché vanita è la mia forza antica, e son le memhra per vecchiaia tremule, spenta è la forza. Se ancor fossi giovine, e signor delle mie forze, la lancia impugnerei, cospergerei di sangue le bionde chiome di costui, sicché volgere a fuga oltre i confini atlantici dovesse, per timor della mia cuspide. CORO: Vero non è che buone mosse al dire, pur se tardi a parlare, i prodi trovano? LICO: Parla, tu, contro me parole accumula: a fatti il male io renderti saprò. Presto, a le valli d'Elicona alcuni muovano, ed altri a quelle del Parnaso, e ai boscaiuoli ordine dian che taglino ceppi di quercia; e poi che alla città saranno addotti, fatene catasta dintorno all'ara, appiccatevi il fuoco, e tutti insieme i loro corpi v'ardano; e imparino cosí che in questa terra non regna il morto, e ch'io ne son signore. O vecchi, e voi che v'opponete ai miei divisamenti, non per la progenie d'Ercole sol, ma per la casa vostra dovrete lagrimar, quando sovr'essa piomberà la sciagura, a ricordarvi che voi siete miei servi, io vostro re. CORO: O figli della terra, o germogliati dalle zanne onde Marte un dí vuotò la mascella del drago, or, ché lo scettro, fulcro alla destra, non levate, ché non percotete l'empio capo a sangue di costui, che non è Cadmèo, che giunse di fuori via, che tristo è piú d'ogni altro, e ai giovani comanda? Oh, ma ben poco t'allegrerà tiranneggiarmi, e tuo non sarà ciò ch'io guadagnai con molta fatica del mio braccio e assai travaglio. Vattene donde sei venuto, e lí insolentisci. Ma sin ch'io son vivo, tu non ucciderai d'Ercole i figli: l'eroe che li lasciò, non è nascosto tanto profondo, no, sotto la terra. Ché tu, ch'ài la città tratta a rovina, or la governi; ed egli che ne fu benefattore, di compenso è privo. Ed io, se aiuto ai miei defunti amici, quando bisogno han piú d'amici, arreco, faccendiere sarò? Deh, quanto brami stringer la lancia, o mia mano; e distrutta la brama va, per l'impotenza; o ch'io t'avrei costretto a non chiamarmi schiavo, e glorïosa vita in questa Tebe dove tu godi, condurrei: ché male s'avvisa una città, se la funestano discordia e mal consiglio; e se no, mai Tebe t'avrebbe suo signore eletto. Mègara: Vecchi, v'approvo. Devono gli amici di giusto sdegno per gli amici accendersi; ma non sia che per noi contro il tiranno saliti in ira, incorrere dobbiate in qualche danno. Il mio parere ascolta, Anfitrïone, se ti par che valga. I figli io prediligo. E potrei forse non amar quelli a cui la vita diedi, per cui soffersi? E cosa orrenda credo che sia la morte; eppure, chi resistere vuole al destino, vile uomo lo reputo. Morire è d'uopo; ma morir distrutti dal fuoco non conviene, ed argomento esser di riso pei nemici, ch'è male, per me, peggiore della morte. Obblighi grandi impone a noi la mia progenie illustre: a te vieta morire di vil morte la tua gloria guerresca. E non vorrebbe - non occorre addurre prove - l'illustre sposo mio che salvi fossero i figli, e la lor fama trista. Per le vergogne dei lor figli, soffrono i generosi; e dello sposo mio repudïar l'esempio non m'è lecito. Ascolta poi quello ch'io penso circa le tue speranze. Il tuo figliuolo, credi che dall'Ade risalga? E qual degli uomini dall'Ade mai fece ritorno? O speri con le parole intenerire il cuore di Lico? Oh non sarà! Fuggir conviene il nemico villano, e compiacente esser solo a chi sa, solo ai gentili. Se t'appelli al pudore, agevolmente con essi puoi venire a patti. Or ora l'idea venuta m'era che chiedessimo per questi figli il bando; e poi, pensai quanta miseria è aver salvezza a prezzo d'amara povertà: ché un sol dí l'ospite fa, dicono, buon viso all'amico esule. Con noi la morte, che t'aspetta senza riparo, affronta. Io ti richiamo all'indole tua generosa, o vecchio. Ardire ha certo l'uom che i decreti dei Celesti avversa; ma quell'ardire è folle, e mai sarà che non avvenga quanto avvenir deve. CORO: Se quando vigoroso era il mio braccio t'avesse alcuno offeso, io di leggeri l'avrei fatto cessar. Ma nulla or sono, ed oramai da te provveder devi a schivar la sciagura, Anfitrïone. Anfitrióne: Non codardia, non troppo amor di vita fa che la morte io schivi: io salvi solo i fanciulli vorrei. Ma par ch'io brami l'impossibile. E dunque, ecco, alla spada questa mia gola porgo, ché mi sgozzino mi uccidan, da una roccia giú m'avventino. Solo una grazia accordaci, o signore, te ne preghiamo: uccidi me con questa misera, prima dei fanciulli, sí che non dobbiam vederli, empio spettacolo, morire ed invocar la madre e il padre del padre; e fa' ciò che tu vuoi, del resto: ché schermo non abbiam contro la morte. Mègara: Ed io ti prego che alla grazia aggiungi anche una grazia. I figli miei concedi che adorni io renda, con le vesti funebri. Fa' che le porte s'aprano, che adesso per noi son chiuse; e questa parte almeno del retaggio paterno abbiano i figli. LICO: E sia cosí. Le porte aprite, o servi. - Entrate pur, fatevi adorni: invidia non porto ai vostri pepli; e allor che cinti alle membra li abbiate, io tornerò per inviarvi ai regni sotterranei. (Esce) Mègara: O figli, entrate con la madre misera nella casa paterna. Altri or ne invade le sostanze; ma il nome ancora è nostro. (Entra coi figli) Anfitrióne: Invano dunque, o Giove, fu, che al talamo mio t'avessi compagno, invan partecipe ti chiamai di mio figlio: amico meno che non pensassi m'eri tu. Mortale io sono; eppur la mia virtú piú grande è della tua, possente Nume: i figli d'Ercole io non tradisco. Invece tu furtivamente intruderti sapesti nel letto altrui, la donna altrui rubare, senza diritto averne alcuno; e salvi far gli amici non sai. Privo tu sei d'ogni saggezza, o ingiusto, o Nume, sei. CORO: Strofe prima Dopo l'inno di gaudio, col tristo elíno risuonar fa' l'etra, Apollo, fa' con l'aureo plettro vibrar l'armonïosa cetra. Io, dell'eroe - chi del Croníde vuole chiamarlo, e chi d'Anfitrïone prole - che fra gli estinti scese, nel buio Averno, vo' cantar le imprese. Per le fatiche che gli eroi compierono è corona l'elogio: all'eroe spento di sue gesta il ricordo è monumento. Pria dal leon fe' libera di Giove la foresta, e il dorso con la fulvida fauce del mostro orribile cinse, e la bionda testa. Antistrofe prima E la stirpe selvaggia degli alpestri Centauri, col fatale arco abbatté, sterminio ne fe', vibrando delle frecce l'ale. Lo sa Penèo, d'intorno alle acque pure sue, lo san campi e sterili pianure, e del Pelio le gole, e le vallèe finitime d'Omòle, donde le alpestri fiere il pian dei Tèssali tutto invadeano di galoppi equini, le mani armando coi divelti pini. E la cerva dal vario vello, terror d'agricoli uccise: a Enèo ne giubila or la Dea cacciatrice. Strofe seconda E quindi, asceso il cocchio, di Dïomede pose la briglia a le cavalle, che, di redini ignare, di sanguigne vivande sazïavan le fauci ne l'omicide stalle, imbandendo d'umane carni mense nefande. Poi, dell'Ebro alle vene, che tra l'eccelse ripe ora fluiscono, mosse, in servizio al sire di Micene. E su la spiaggia Pelia, presso ai fonti d'Anàuro, Cigno, sterminatore d'uomini, uccise con le frecce, il barbaro d'Anfèna abitatore. Antistrofe seconda Alle canore vergini, quindi, agli orti che d'Espero crescon sui lidi, mosse, per cogliere dai rami floridi l'aureo pomo. E il dragone custode, che le sue scaglie rosse, avvolticchiava in orride spire, da lui fu domo. Poi, per umida traccia, nel mar s'immerse, e al remigar dei nauti procurò la bonaccia. E il cielo alto nell'ètere levò, sottoponendovi le palme, il dí che presso Atlante venne: tanto era saldo; e la magion siderea dei Superi sostenne. Strofe terza Fra i molti fiumi poi della Meòtide, fra l'estuare dell'Eusin, le Amazzoni schiera d'equestri vergini, affrontò. E quanti mai dell'Ellade eroi non radunò, per conquistar la vesta della fanciulla d'Ares figlia, il cingolo d'oro intessuto, la preda funesta! Della fanciulla barbara le spoglie ebbe Acaia: Micene ora l'accoglie. Quindi la sanguinaria cagna, l'Idra dai capi innumerabili, presso Lerna struggea con la fiamma; e col tòssico sterminò delle sue frecce il tricorpore pastore d'Erittèa. Antistrofe terza E lieto conseguí d'altre vittorie trofei. Poi navigò fra il pianto e i gemiti d'Ade; e questa la prova ultima fu. Quivi si spense, o misero, né fe' ritorno piú. Deserto ora è l'ostello d'amici; e i figli attende all'empio tràmite di Caronte il battello, donde niun mai riedé. Nella tua mano spera or la casa; e tu sei ben lontano. Se fossero ancor floride le mie forze, e vibrare ancor la cuspide fra gli amici cadmèi, io potessi, ai tuoi pargoli darei soccorso: ma ben lungi è il gaudio dei giovani anni miei. CORIFEO: Precinti di funebri vesti già d'Ercole i figli, che un giorno fu grande, s'avanzano, avanza la fida sua sposa, che stretti ai suoi passi conduce i fanciulli, ed il vecchio padre d'Ercole. Oh me sciagurato, che non posso le vecchie sorgive degli occhi frenare! (Appare Mègara coi figli pronti al sacrificio) Mègara: Ecco. Il ministro ov'è dei riti, dove l'assassino dei miseri, il carnefice della dogliosa anima mia? Le vittime sono già pronte, per condurle all'Ade. Bello, figli, non è questo corteo di moribondi, e vecchi e madri e pargoli. O trista sorte mia, dei figli miei, dei figli miei che le mie luci vedono l'ultima volta! Io generati v'ho, nutriti v'ho, perché foste ludibrio e sterminio ai nemici, e vituperio. Ahimè! Come abbattute le speranze furono che un giorno io concepii per le promesse del padre vostro! Il morto padre, a te Argo assegnava; ed abitata avresti la casa d'Euristèo, della feconda terra Pelasgia avresti avuto il regno; e a te cingeva del leone il vello, ond'ei schermito andar soleva. Tu di Tebe dai bei cocchi eri signore, redavi i campi della patria mia, tanto molcivi di tuo padre il cuore; e nella destra a te ponea la clava schermitrice dei mali, il dono subdolo di Dèdalo. Ed a te fece promessa d'Ecalía, la città che un giorno egli ebbe col lungi saettante arco distrutta. Del suo valor nell'alto orgoglio, il padre a tre regni estolleva i suoi tre figli; ed io sceglievo il fiore delle vergini per celebrar le vostre nozze, a Tebe, a Sparta, ed in Atene, affinché, stretta a saldi ormeggi, trascorresse prospera la vita vostra. E tutto ora è finito: la fortuna ha mutato, e vuol che spose le Parche invece abbiate, e ch'io di lagrime lavacri nuzïali appresti a voi. Il banchetto di nozze appresta il padre di vostro padre: ché l'Averno ei reputa suocero vostro. Ahi, chi di voi per primo, chi per ultimo al seno io stringerò, su chi le labbra imprimerò, le braccia chiuderò? Deh, potessi al par d'un'ape, le querele di tutti insieme accolte, in un profluvio riversar di lagrime! Se voce alcuna dei mortali giunge nell'Ade, o mio diletto Ercole, a te favello: il padre, i figli tuoi soccombono, perduta io son, che avventurata gli uomini già dicevan per te. Corri al soccorso, móstrati a me, sia pur come ombra: giungi, sia pur simile a sogno: innanzi a te, vili son quelli che i tuoi figli uccidono. Anfitrióne: Donna, tu della morte i riti appresta. Ed io, le mani al cielo alzando, o Giove, favello a te: se tu recar soccorso a questi figli vuoi, piú non tardare: ché presto in tempo non sarai. Chiamato t'ho molte volte; e fu vana fatica, dacchè la morte, sembra, è necessaria. è la vita, o vegliardi, un picciol bene, né modo v'ha migliore di trascorrerla, che giungere ogni dí da mane a sera senza dolore. Ché il tempo non sa mantener le promesse, anzi il suo cómpito affretta e fugge via. Guardate me, che un tempo mèta agli occhi ero di tutti per la celebre mia felicità, e la Fortuna or via me l'ha rapita, come piuma nell'aria, in un sol giorno. La gran felicità, la fama, ignoro per chi siano sicure. Addio. Per l'ultima volta vedete il vostro amico, o vecchi. (Durante le ultime parole del vecchio Mègara fissa gli occhi verso un punto lontano. Ad un tratto, prorompe) Mègara: Ahimè! Mio vecchio padre, vedo il bene mio sommo? O che dirò? Anfitrióne: Non lo so, figlia: anch'io muto rimango. Mègara: Questi è colui che si dicea sepolto, se pur di sogno ombra non è, che in piena luce vediamo. Che dirò? Nel mio mortal travaglio, ombre vedo io! Non altri è costui, che il tuo figlio, o vecchio. Qui, figli, alle vesti del padre appendetevi, affrettatevi, su, non lo lasciate, ch'ei men di Giove non vale a salvarvi. (Giunge Ercole) ERCOLE: O della casa mia tetto, o vestibolo, salute! A luce ritornato, quanta gioia m'è rivedervi! Oh, ma che avviene? Veggo alla casa innanzi i figli miei, che di funebri bende il capo han cinto, e la mia sposa fra una turba d'uomini, e il padre mio che lagrima. Perché? Per che sciagura? Ad essi avviciniamoci, chiediamo. O donna mia, che nuova angustia piombò su questa casa? Mègara: Oh fra i mortali dilettissimo! Anfitrióne: O luce al padre apparsa! Mègara: Sei qui, sei salvo, a far salvi i tuoi cari, in punto giungi. ERCOLE: Che mai dici? In quale turbamento vi trovo, o padre mio? Mègara: Siamo perduti. E tu, vecchio, perdona se dico io prima, e te ne privo, quanto dire volevi tu. Ma piú proclivi sono ai lagni le donne; e i figli miei erano già perduti, ero io distrutta. ERCOLE: Apollo! Qual preludio hanno i tuoi detti! Mègara: Caddero i miei fratelli, e il vecchio padre... ERCOLE: Che cosa dici? In campo, o per qual sorte? Mègara: Lico li uccise, il nuovo re di Tebe. ERCOLE: In guerra? Oppure in un civil tumulto? Mègara: Re di Tebe lo fece una sommossa. ERCOLE: E il vecchio padre, e tu, che temevate? Mègara: Il padre, i figli e me voleva uccidere. ERCOLE: Che dici? E che temeva dai figli orfani? Mègara: Ch'essi Creonte un giorno vendicassero. ERCOLE: Perché funebri serti i figli cingono? Mègara: Redimiti eravam già per la morte. ERCOLE: Spenti a forza eravate? O me tapino! Mègara: Privi d'amici. E te credevam morto. ERCOLE: Come giungeste a tale scoramento? Mègara: Araldi d'Euristèo la nuova diedero. ERCOLE: Perché lasciaste la mia casa e l'ara? Mègara: A forza. Il padre strappato dal letto... ERCOLE: Oltraggio a un vecchio fece. O spudorato! Mègara: Dalla Forza il Pudore abita lungi. ERCOLE: Tanto l'assenza mi privò d'amici! Mègara: E quali amici agl'infelici restano? ERCOLE: Spregiate andâr le mie lotte coi Minî? Mègara: Non ha, te lo ripeto, amici, il misero. ERCOLE: Presto, gittate via quei serti lugubri, fissatevi alla luce, e sia ricambio soave, invece delle inferne tènebre. Ed io, frattanto, poi che spetta a me adesso oprare, vado prima, e abbatto del nuovo re la casa, e l'empio capo gli recido, e lo gitto ai cani in pasto. E quanti dei Cadmèi che un giorno furono da me beneficati, or troverò malvagi, scempio ne farò con questa vittorïosa clava, o con la furia dei dardi alati, ed empirò l'Ismèno di sterminio e di sangue, e la corrente bianca di Dirce, diverrà purpurea. E a chi prestar dovrei soccorso, prima che alla mia sposa, ai figli, al vecchio padre? Le antiche gesta mie ripudio: è vano compiuto averle, s'io questa non compio. Devo affrontar pei figli miei la morte, com'essi ora pel padre l'affrontavano. Gloria la mia sarà, se, per comando d'Euristèo, col leone a lotta venni, e con l'idra, e da morte i figli miei salvare non saprò? Vittorïoso Ercole niuno piú chiamar potrebbe. CORO: Giusto è che un padre i figli suoi difenda, ed il padre suo vecchio e la consorte. Anfitrióne: Bene è, se tu gli amici ami, e i nemici odî, o figlio; però schiva la fretta. ERCOLE: In che, padre, sono io troppo sollecito? Anfitrióne: Ha molti partigiani, il re, che poveri sono, ma ricchi a ciance. Essi eccitarono la rivolta, in rovina essi mandarono Tebe, per far dei beni altrui rapina, da poi che i loro, per la loro accidia, andati erano in fumo. Or t'hanno visto che in Tebe entravi: bada che non debbano, tutti piombando all'improvviso, opprimerti. ERCOLE: Visto m'avesse pur l'intera Tebe, nulla mi fa. Ma poi che in plaghe infauste volar vidi un augello, intesi ch'era su la mia casa qualche mal piombato, e per prudenza di nascosto entrai. Anfitrióne: Sta bene. Entra or, saluta l'ara, fa' che la tua casa ti rivegga. Il re stesso verrà per trarre la tua sposa e i tuoi figli al supplizio, e me sgozzare. Tutto potrai, se tu qui resti, compiere sicuramente, o figlio; e non sconvolgere Tebe, prima d'aver questo trionfo. ERCOLE: Tu dici bene, ed io cosí faccio. Entro nella casa. Poiché giunsi dai bàratri d'Ade e di Cora senza sole, dopo sí lungo tempo, ai Numi intendo volgere del focolare il mio primo saluto. Anfitrióne: Davvero, o figlio, sei disceso all'Ade? ERCOLE: E la fiera a tre teste a luce trassi. Anfitrióne: In zuffa vinta? O Cora a te la diede? ERCOLE: In zuffa; e mi beai, vidi i misteri. Anfitrióne: E il mostro è nella casa or d'Eutistèo? ERCOLE: è nella selva della Diva, a Ermíone. Anfitrióne: Ed Euristèo, che tu sei giunto ignora? ERCOLE: Non so: qui prima a cercar nuove io venni. Anfitrióne: Perché sotterra sí a lungo restasti? ERCOLE: Indugiai per salvar Tesèo dall'Ade. Anfitrióne: E adesso ov'è? Sul suol della sua patria? ERCOLE: Quivi, ben lieto che scampò dagl'Inferi. Ma su via, figli, nella casa il padre vostro seguite: è piú lieto il ritorno che non fu la partenza: or fate cuore, né dai vostri occhi piú lagrime erompano. E tu, raccogli, o sposa mia, gli spiriti, e cessa di tremare. E distaccatevi dalle mie vesti. Alato io non son già, né dei miei cari l'abbandono medito. Ehi là! Non mi voglion lasciare, anzi al mio peplo si stringon di piú. Tanto eravate su l'orlo dell'abisso? Io vi trarrò, come un naviglio, o fragili battelli, con le mie mani: ch'io l'amor pei figli non celo: uguali son gli uomini in tutto; e i piú possenti, e quei che nulla valgono amano i figli. I beni differiscono: chi li possiede, e chi no; ma pei figli tenera è tutta la progenie umana. (Entrano tutti nella reggia) CORO: Strofe prima Sempre diletta m'è giovinezza; ma di vecchiaia il carico sul capo, grave piú delle rupi d'Etna mi pesa, su le mie pàlpebre tende i suoi veli cupi. No, non desidero di tutta l'Asia l'impero avere, non la ricchezza, né d'oro piena la casa, in cambio di giovinezza, che fra gli agi è bellissima, e fra gli stenti. Aborro la vecchiaia, la funesta, la lugubre. Per sempre, deh!, scompaia dalle case degli uomini, dalle cittadi. Immersa sia fra i gorghi del mare, oppur dell'ètere fra i soffi a vol dispersa. Antistrofe prima Se per prudenza, per senno, agli uomini simili i Numi fossero, concederebbero due gioventú, suggel visibile, per tutti gli uomini in cui fulse virtú. Ripercorrendo l'ultimo tramite, tornar dovrebbero del sole al raggio; mentre i degeneri compier dovrebbero solo un viaggio. Fra i tristi i buoni allor si scernerebbero: cosí nella procella il nocchier fra le nuvole distingue alcuna stella. Invece, or non c'è limite chiaro fra il buono e il tristo: sola una vita ha l'uomo; e nel suo volgere sol bada a fare di ricchezze acquisto. Strofe seconda Le Muse con le Càriti io vo' che sempre l'une con l'altre sian confuse: dolcissimo connubio! Vivere io mai non vo' senza le Muse, ma di ghirlande ognor le tempie cingere. Gode la voce alzare per Mnemòsine il cantore ancor vecchio: io le vittorie d'Ercole a cantar m'apparecchio. Vicino a Bromio largitor di grappoli, vicino alla settemplice lira, ed al flauto libio, sempre sarà che onori le Muse onde il mio pie' spinsi nei cori. Antistrofe seconda Le Delíadi vergini cantano di Latona la bellissima prole, presso del tempio agli àditi intrecciando vaghissime carole. Io vo' peani innanzi alla tua reggia cantare, io vecchio al par di cigno candido, dalle canute gote: ché nobile materia non manca alle mie note. Figlio è di Giove; eppure la sua nascita col suo valore supera. Le fiere formidabili sterminò la sua caccia; onde tornò fra gli uomini bonaccia. (Arriva Lico col suo séguito, mentre Anfitrióne esce dalla porta del palazzo) LICO: Esci in buon punto, Anfitrïone. Assai dell'acconciarvi fu lungo l'indugio, coi pepli e le funeree bende. Orsú, ingiungi ai figli ed alla sposa d'Ercole, che fuori della casa alfin si mostrino: spontanei prometteste a morte offrirvi. Anfitrióne: Tu mi soverchi nella mia miseria, mi vituperi, o principe, perché spento è mio figlio. Eppur, sebbene re, porre freno alla tua foga dovresti. Ma, poiché tu morte c'imponi, è forza gradir la morte, e far ciò che ti piace. LICO: Mègara ov'è? D'Alcmèna ove i nepoti? Anfitrióne: Mi sembra ch'ella, a giudicar da fuori... LICO: Faccia che cosa? e qual prova tu n'hai? Anfitrióne: Supplice giaccia presso all'are sante... LICO: pregando invan salvezza alla sua vita? Anfitrióne: E lo spento consorte invano attende. LICO: Ei non è qui, né tornerà piú mai. Anfitrióne: No, se alcun degli Dei non lo resuscita. LICO: A lei récati, fa ch'ella esca, alfine. Anfitrióne: No, che sarei della sua morte complice. LICO: Io stesso andrò, se nutri questi scrupoli: ch'io non ho certe ubbie: trarrò qui fuori e madre e figli. Olà, servi, seguitemi, e lieta calma sia dopo il sospetto. Anfitrióne: Va' dunque, muovi al tuo destino. Al resto altri provvederà. Se tu fai male, aspetta male. O vecchi, ei muove proprio nel punto giusto; e piomberà nei lacci d'una rete di spade, egli che pensa la morte, o scellerato, ad altri infliggere. Entro, vederlo vo' spento cadere: ché dà gioia veder morto il nemico che la pena scontò dei suoi misfatti. (Entra nella reggia) CORO: Strofe prima A: Avviene un tramutare di mali: il prisco, il forte nostro signore, vivo ritorna ancor dall'Ade. Viva viva! La Sorte e il Destino dei Numi batton novelle strade. B: Su te, pur tarda, la Giustizia cade: ché tu oltraggiavi i migliori di te. C: Dagli occhi il pianto a rivi sgorga per l'esultanza. è ritornato - innanzi, chi mai pur la speranza ne concepia? - di questa terra il re. D: Vecchi, dentro il palagio ora spiamo, se qualcuno ebbe la sorte ch'io bramo. (Dall'interno del palazzo si leva un altissimo urlo di Lico) LICO: Ahimè, ahimè! CORO: Antistrofe prima A: Lungi non è la morte: tale suona un concento dentro la reggia: a udirlo l'animo mio ne gode. Con questo suo lamento il tiranno preludia di morte alla melode. LICO: Terra di Cadmo, son morto di frode! B: Perché uccider volevi: adesso espii. C: Qual fu l'uomo che i Numi contaminare volle con l'iniqua calunnia, che, con parola folle, privi di possa proclamò gl'Iddii? D: è spento già lo scellerato, o vecchi: la nostra schiera al canto or s'apparecchi. CORO: Strofe seconda Danze, danze e convivi di Tebe odi suonar fra i muri santi. Non di doglia or si lagrima: mutò fortuna, e prospera ispira i nostri canti. è spento il nuovo re, l'antico impera che lasciò l'Acheronte: verisimile non fu la mia speranza; eppur s'avvera. Antistrofe seconda Importa, importa ai Superi che con gli onesti il reo non sia confuso. Ma l'anime degli uomini l'oro e il successo svïano, sí ch'elle faccian di sue forze abuso. Niun, che le leggi vïolò, mai l'occhio volge al futuro; e, ligio ad ingiustizia, di sua fortuna spezza il negro cocchio. Strofe terza Di fior' cíngiti, Ismène: o vie di Tebe levigate, empietevi di gioiose carole; e voi, limpide vene di Dirce, e voi, dell'Àsopo figliuole, del padre abbandonate ora le linfe, qui venite, e le glorie belle, gli agoni d'Ercole, con me cantate, o Ninfe. Pito, rupe ch'ài d'alberi corona, fanciulle d'Elicona, Tebe e le sue settemplici porte cantate. Qui balzâr dal suolo gli Sparti, bronzei scudi: essi tramandano da figliuolo a figliuolo, della terra il retaggio: questo è di Tebe il raggio. Antistrofe terza Deh, uniche e diverse nozze, dell'uomo e del Signore Olimpio, che giacente sorprese la nipote di Perse! Che fu tuo quel prodigio ora è palese: contro ogni speme, o Giove, ora si vide il tuo poter: tangibile il tempo rese e fulgida l'alta possa d'Alcide: della terra gli abissi, e di Plutone ei lasciò la magione. Quanto dei nuovi príncipi miglior sei tu, del tristo lor lignaggio! Ma, venuti al pericolo, or, delle spade al saggio, veduto s'è ben chiaro se ai Numi il giusto è caro. (In vetta alla reggia appaiono due forme soprannaturali: Iride e Furia. Quest'ultima ha l'orribile aspetto della Gòrgone, chiomata di serpi, e stringe in pugno una sferza) CORO: A: Nuovo terrore ci percòte, o vecchi! Quale fantasma su la casa veggo? B: A fuga, a fuga lancia le tarde membra, di qui sàlvati! C: O Dio Peana, i cordogli da me sempre allontana! IRIDE: O vecchi fate cuor. Furia è costei, della Notte figliuola, ed io sono Iri, messaggera dei Numi; e danno alcuno a Tebe non rechiamo, e d'un sol uomo sopra la casa ci avventiam, di quello che d'Alcmèna e di Giove è detto figlio. Pria che compiesse le sue gesta crude, salvo egli esser dovea, né fargli danno ad Era o a me consente Giove. Adesso ch'à le fatiche ad Euristèo compiute, Era vuol che di strage consanguinea si macchi, e i figli uccida; e anch'io lo voglio. Orsú, riscuoti, o della Notte negra vergine figlia, il tuo cuore spietato, e avventa la follia sopra quest'uomo, e parricidi turbamenti d'animo, spingi i suoi piedi a dissennato balzo, molla tutte le gòmene di strage, sí ch'ei, spingendo d'Acheronte al valico dei suoi figliuoli la corona bella, di sua mano distrutta, apprenda quale è per lui d'Era l'odio, e quale il mio. Piú nulla i Numi non saranno, e grande l'uomo sarà, se questi il fio non paga. FURIA: Nobili e padre e madre ebbi: dal sangue del Cielo e della Notte ebbi la vita. Ed è l'ufficio mio tal, che gli amici s'allegrano di me poco, né gaudio è per me frequentarli. Adesso, voglio Era esortare e te, pria che cadiate in qualche fallo: i miei discorsi udite. L'uomo al cui tetto m'inviate, privo non è di fama, né sopra la terra né fra i Celesti. Incivilendo impervie terre, e selvaggi mari, egli da solo rialzò l'are degli Dei, cadute sotto le mani d'empie genti. Ora io male sí grande non t'esorto a compiere. IRIDE: Alle mie trame, alle trame d'Era, apporre non ti piaccia. FURIA: Io t'avvio sul buon sentiero: ché tu sei su mala traccia. IRIDE: Era qui non m'ha mandata per udir sagge parole. FURIA: Devo far ciò ch'io non bramo: testimonio invoco il Sole. Pur, se devo, come segue cacciatore il suo segugio, l'orme tue premere a furia, l'orme d'Era, senza indugio vado; e tanto impetuoso non vedrai di mare flutto, né tremuoto, né di folgore scintillio, segno di lutto, come io l'anima, correndo, presto avrò d'Ercole invasa. Farò sí che il tetto crolli, che su lui piombi la casa. Prima ai figli darò morte; e poi ch'egli uccisi li abbia, non ne avrà sentore, prima che lo lasci la mia rabbia. Vedi, ve', già per entrare nella lizza, il capo scuote, e le orribili pupille volge muto, in pronte ruote, né piú modera l'anelito, sembra toro inferocito, e dal Tartaro le Parche, con orribile muggito chiama. A danza piú selvaggia, d'un mio flauto coi deliri, vo' spronarti. Col pie' rapido tu all'Olimpo affrettati, Iri. Io d'Alcide inoltro il piede - nella casa, e non mi vede. (Entra nella reggia. Iri sparisce) CORO: Deh, gemi, gemi! Reciso il tuo fiore, o Tebe, cade, di Giove la prole. èllade, misera! Il tuo difensore tu perdi, perdi: lo spinge la Furia con i suoi flauti a dementi carole. Balzò sopra il plaustro, il pungolo, a scorno, dal cocchio vibrando, la Gòrgone altrice di lamenti, della notte la figlia, dall'occhio che impietra, la Furia chiomata dal sibilo di cento serpenti. Ben presto è il bene mutato in affanno; per man del padre i figliuoli morranno. (Dall'interno si ode un alto urlo di Anfitrióne) Anfitrióne: O misero me! CORO: Oh Giove! Presto privato il tuo figlio sarà dei figli: le crude implacabili Vendette furenti l'abbatteranno sotto i tormenti. Incomincia la danza, e non i timpani, non il tirso l'allegra di Bromio. Anfitrióne: Oh casa mia! CORO: Sangue ella chiede, e non l'umor dei grappoli stillante, di Dïòniso. Anfitrióne: Volgete a fuga il piede, o figli! CORO: Ahi, cantici odo suonare infesti. Dei figli su la traccia rompono in caccia. Non sarà che tal rabida danza nella magione írrita resti. A: Ahimè, sciagure! CORO: A: Ahi, ahi! Quanto gemo pel padre vegliardo, per la madre che i pargoli ha generati indarno! B: Oh, senti, senti! Scuote la casa un turbine! Il tetto traballa! C: Ahi, ahi! O figlia di Giove, che fai? Un tremoto tartàreo, come un dí per Encèlado, avventi contro la reggia, o Palla! (Dal palazzo esce un messaggero) MESSAGGERO: O voi per gli anni candidi... CORIFEO: Tu gridi e mi chiami: perché? MESSAGGERO: Che orrori entro la reggia! CORIFEO: D'altro araldo bisogno non c'è. MESSAGGERO: Son morti i figli! CORIFEO: Ahimè! MESSAGGERO: Piangete, ché tempo è di lagrime! CORIFEO: Ahimè, scempio inumano! Ahimè, d'un padre barbara mano! MESSAGGERO: Motto non v'ha che queste pene agguagli. CORIFEO: Come lo scempio paterno, lo scempio piombò sui figli? Narrami. Come questi travagli sospinti dall'ire divine, su la reggia piombarono? Dei figli narra la misera fine. MESSAGGERO: Di Giove innanzi all'ara eran le vittime raccolte già, per espiar la casa, dopo ch'Ercole ucciso ebbe e gittato fuor dalla reggia il principe di Tebe. E l'amabile schiera anche dei figli v'era, e il padre, e Mègara. E in giro già si portava il canestro intorno all'ara, e fauste grida innalzavamo. Ed ecco, d'Alcmèna il figlio, mentre già la face nella destra recava, per immergerla entro l'acqua lustral, muto ristette. E del padre all'indugio, i figli alzarono su lui lo sguardo. Ed ei non era piú quel di poc'anzi; ma torceva gli occhi già deliranti; e sanguinosi i globi sporgean de le pupille, ed una bava stillava giú, lungo il villoso mento. E, con un riso folle, disse: «O padre, perché, prima che ucciso abbia Euristèo, il fuoco accendo espiatore, e addoppio il travaglio cosí, quando m'è lecito compierlo tutto in una volta? Quando la testa d'Euristèo qui porterò, anche per quelli che son morti adesso, pure le mani renderò. Spandete l'acqua, le mani lascino i canestri. Chi mi dà l'arco? Chi mi dà la clava? A Micene m'avvio: leve e bidenti prendere è d'uopo, e con l'intorto ferro, dei Ciclopi le mura, a cui compagine diede la subbia e la purpurea fune, sconquassar nuovamente». E, cosí detto, mosse; e dicea d'avere un carro, quando non l'aveva, e facea gesto d'ascenderlo, vibrando, come pur l'avesse, il pungolo. Stavano i servi fra riso e terrore, guardandosi l'un l'altro; ed uno disse: «Con noi scherza il Signore? oppure è folle?» Quello scorrazza su e giú, per tutta la casa; e, giunto nella sala, dice che la città di Niso è quella; ch'entra in una casa; e si distende a terra come si trova, e si dispone al pranzo. Fu breve indugio. E poi, nel pian selvoso dell'Istmo disse ch'era giunto, e qui, sciolte le fibbie del mantello, ignudo, una gara impegnò senza rivali. Quindi silenzio impose, e proclamò, di se stesso precóne, il suo trionfo contro nessuno. E orribili minacce contro Euristèo ruggendo, eccolo giunto - diceva egli - a Micene. E allora, il padre toccò la sua mano possente, e disse: «Figlio, che fai? Che turbamento è questo? Dei tuoi nemici la recente strage ti fa deliro?» Ed ei crede che il padre sia d'Euristèo, che, per timore supplice, s'afferri alla sua man, via lo respinge, e l'arco appresta e la faretra contro i figli suoi, pensando di trafiggere i figli d'Euristèo. Per lo spavento tremando, quelli qua e là si sbandano, al peplo un d'essi della madre, l'altro d'un pilastro al riparo; e a pie' dell'ara, al par d'uccello, s'accovaccia il terzo. E la madre gridò: «Padre, che fai? Uccidi i figli?» E grida il vecchio, e gridano tutti i famigli. Attorno alla colonna quello persegue il figlio; e ad un'infausta svolta del piede, se lo trova innanzi a faccia a faccia, e lo colpisce al fegato. Cade quegli supino, e l'alma spira, e spruzza il sangue sul marmoreo zoccolo. Ed ei tal vanto, con un grido innalza: «E uno! Spento è per mia mano questo figliuolo d'Euristèo: pagò la pena della paterna nimistà». Su l'altro tese poi l'arco, che dell'ara ai piedi accovacciato s'era, e che sperava qui rimaner nascosto. Ed il tapino prevenne il colpo, e ai ginocchi del padre corse, e le mani al mento e al collo tese. «O padre mio - gli dice - o dilettissimo, non uccidermi, io tuo sono, tuo figlio!» L'altro, gli occhi selvaggi, occhi di Gòrgone, stravolge; e poi che presso troppo è il figlio alla freccia funesta, a mo' di fabbro che forgia il ferro, alta sul capo vibra la clava, e il figlio sulla testa bionda colpisce, e il cranio gli fracassa. E, spento il secondo cosí, muove ad aggiungere a queste prime due la terza vittima. Ma lo previene la misera madre, che il pargolo sottrae dentro la casa, e serra l'uscio. Alle ciclopie mura quei credendosi allor, vibra la zappa, scalza le imposte, fa saltar gli stipiti, e sposa e figlio a un colpo sol prosterna. Di qui, si lancia a sterminare il vecchio; ma comparve un'imago - in essa, Pàllade riconobbero tutti, all'elmo, all'asta ch'essa crollava - e contro il petto d'Ercole una pietra scagliò, che fine pose al delirio di strage, e l'assopí. A terra esso piombò, col dorso urtò una colonna, che spezzata in due, quando il tetto crollò, s'era, e sul plinto giacea rovescia. Dalla fuga il piede noi trattenemmo allora; e, insiem col vecchio, con forti guigge lo legammo stretto alla colonna, ad impedir che quando cessasse il sonno, egli aggiungesse nuovi scempii agli antichi. E un infelice sonno dorme il tapin: ché figli e sposa uccise. Fra i mortali niun so di lui piú misero. CORO: Vide la rupe argolica un altro scempio già, per tutta l'Ellade famoso ed incredibile, delle figlie di Dànao. Ma piú atroce e funesto, piú terribile è questo. E la strage rammemoro del generoso misero di Procne unico figlio, vittima delle Muse. Ma tu, tristo, tre pargoli avevi, e in un unico scempio le tre vite hai confuse. Ahimè, ahimè, qual gemito, quale ululo, quale cantico lugubre, quale danza d'Averno intonerò? Ahimè, ahimè! Vedi, il serrame duplice dell'eccelsa magion si spalancò. (Si spalanca la gran porta della reggia, e sull'encíclema vengono tutti fuori, Ercole, sopito, legato ad una colonna, e, intorno a lui, i cadaveri dei figli e di Mègara) Ahimè, ahi, ahi! Vedete quei miseri pargoli che giacciono presso al misero padre? I suoi figli uccise; ed adesso terribil sopore l'assonna. E lacci e vincigli, coi nodi molteplici, d'Ercole le membra costringono a questa marmorea colonna. CORIFEO: E come augello che l'implume piange frutto del nido, il tardo piede affretta il vecchio, e verso noi rivolge il passo. CORO: Silenzio sia, silenzio, o vegliardi cadmèi! Dei suoi funesti malanni dall'oblío, deh, non si desti! Delle lagrime il fonte per te prorompe, o vecchio, e per i pargoli, e per la sua vittorïosa fronte. Andate, andate via! Grido o rumor non sia, che turbi la quïete del suo sonno sereno. Ahimè, ahi, quanto sangue... Anfitrióne: Ahimè, voi m'uccidete! CORO: bulica nel terreno! Anfitrióne: O vecchi, ai lagni non porrete freno? S'egli si desta, e spezza le ritorte, il genitore a morte porrà, distruggerà la reggia e la città. CORO: Tacer non posso, non posso, o vecchio! Anfitrióne: Taci, ch'io spíi l'anelito suo, ch'io tenda l'orecchio. CORO: Dorme? Anfitrióne: Sí, dorme: orribile sonno, ché sposa e figli sterminò coi letali impeti dei suoi strali. CORO: Bagna di lagrime il ciglio... Anfitrióne: Ahimè! CORO: Per la morte dei pargoli... Anfitrióne: Ahimè! CORO: E pel tuo figlio. Anfitrióne: Ahimè! CORO: O vecchio... Anfitrióne: Taci, mira, si ridesta, si gira; lascia ch'io nella reggia súbito mi nasconda. CORO: Fa' cuor; su lui s'aggrava tuttor notte profonda. Anfitrióne: Oh vedi vedi! Abbandonar la luce fra i mali in cui mi trovo non m'è penoso; ma qualor m'uccida, ch'io son suo padre, ai vecchi mali un nuovo s'aggiungerà, piomberanno altre furie sovra lui parricida. CORIFEO: Morir dovevi quel dí che, distrutti gli spaldi Tafii recinti dai flutti, t'apparecchiavi a vendicar la morte dei consanguinei della tua consorte. Anfitrióne: Fuggite, o vecchi, via dalla reggia, fuggite, il folle di nuovo è desto: affrettatevi, o presto ei sterminio a sterminio aggiungerà, empirà di delirio la città. CORO: Giove, perché perseguitato hai d'odio cosí feroce il figlio tuo, perché in tanto mar di guai tu l'hai sospinto? ERCOLE (Si riscuote dal letargo a poco a poco): Ahimè! Traggo il respiro, e quello scorgo ch'io scorgere devo, l'ètere, e la terra, e questo arco del sol. Come in un vortice ero piombato, in un tumulto orribile del mio spirito; e ardente esce l'anelito dal mio polmone, ed incomposto e greve. Oh, ma perché di lacci stretto il giovine petto e le braccia, io qui mi trovo, come nave all'ormeggio, ad un troncone avvinto di marmorea colonna? E a terra sparsi gli alati dardi, e l'arco, onde alleanza ebbe il mio braccio, ed essi proteggevano il mio fianco, ed io loro? All'Ade forse sono disceso ancor? Tornato appena, per Euristèo di nuovo ho l'altro braccio dello stadio percorso? Eppur, di Sísifo la rupe non è qui, non della figlia di Demètra lo scettro, e non Plutone. Stupor m'invade. Dove son? L'ignoro. Ehi, nessun degli amici, o presso o lungi, non c'è, che sperda questo mio stupore? Ché nulla io vedo qui che a me sia noto. Anfitrióne: Alla sciagura mia, vecchi m'appresso? CORO: Ed io con te: nel mal non t'abbandono. ERCOLE: Padre, ché piangi e ti nascondi gli occhi, lungi cosí dal figlio tuo carissimo? Anfitrióne: Figlio! ché figlio sei, pur fra i tuoi mali. ERCOLE: Forse un mal mi colpisce, onde tu lagrimi? Anfitrióne: Tal, che, a patirlo, gemerebbe un Nume. ERCOLE: Orribil, dunque; ma qual sia, non dici. Anfitrióne: Da te, se in te pur sei, puoi ben vederlo. ERCOLE: Qual nuova sorte su me incombe? Parla. Anfitrióne: Sí, se d'Ade il delirio ancor non t'occupa. ERCOLE: Tutto enigmi e sospetti ancor favelli. Anfitrióne: Se la tua mente è proprio salda investigo. ERCOLE: Che delira sia stata, io non rammento. Anfitrióne: Sciolgo i suoi lacci, o vecchi? A che m'appiglio? ERCOLE: E chi li stringe dí: ch'io me ne sdegno. Anfitrióne: Non dimandare: il mal che soffri è assai. ERCOLE: A saper ciò ch'io vo', basta il silenzio? Anfitrióne: Dal trono d'Era, tu non vedi, o Giove? ERCOLE: Qual male infesto a me di lí provenne? Anfitrióne: Non pensare alla Dea, pensa ai tuoi mali. ERCOLE: Una sciagura annunzi: io son perduto. Anfitrióne: Guarda, contempla i figli tuoi caduti. ERCOLE: Misero me, che visïone è questa? Anfitrióne: Ai tuoi figli movesti orribil guerra. ERCOLE: Di qual guerra tu parli? E chi li uccise? Anfitrióne: Tu, l'arco tuo, quel Dio che ne fu causa. ERCOLE: Come? Che feci? O di sciagure araldo! Anfitrióne: Eri folle. Oh, spiegar quanto m'è duro! ERCOLE: Ed anche la mia sposa ho dunque uccisa? Anfitrióne: La tua mano compié tutta la strage. ERCOLE: Ahi, ahi, m'avvolge un nuvolo di gemiti! Anfitrióne: Vo' piangendo perciò la tua sciagura. ERCOLE: La mia furia distrusse anche la reggia? Anfitrióne: So questo: che per te tutto è sciagura. ERCOLE: Dove il delirio mi colpí, mi strusse? Anfitrióne: Quando la man purificavi all'ara. ERCOLE: Ahimè, perché la vita mia risparmio, poi che fatto sono io dei dilettissimi figli miei l'assassino, e giú dal salto d'un'erta rupe non mi gitto, o il fegato mio non trafiggo con l'aguzzo ferro, per espiar dei figli miei la morte? O per fuggire all'onta che m'aspetta, sovra una pira il mio corpo arderò? (Alza gli occhi, e li fissa verso un punto lontano) Ecco, a impedire i miei divisamenti di morte, qui Tesèo giunge, l'amico, il mio parente: ei mi vedrà: lo scempio del parricidio agli occhi apparirà del piú diletto amico. Ahi, che farò? Dove restar coi mali miei soletto potrò, fuggendo a volo, o inabissandomi sotto la terra? Oh!, buio, almen, circondi la fronte mia: troppa onta mi rimorde pei delitti commessi; e, poi che tanta macchia di sangue sopra me s'è sparsa, niun innocente vo' ch'essa contamini. (Entra Tesèo, seguito da guardie armate, e si volge ad Anfitrióne) Tesèo: Son giunto, o vecchio, qui, con altri giovani Atenïesi, che schierati attendono lungo le rive dell'Asòpo, e reco d'armi soccorso al figlio tuo: ché fama degli Erettídi alla città pervenne che lo scettro di Tebe usurpò Lico, e indisse a voi guerra e sterminio. Ora io, per ricambiare il beneficio d'Ercole, che dall'Averno mi salvò, qui venni, se pure il braccio mio, dei miei compagni, giovar vi possa. - Ahimè! Pieno d'estinti vedo il terreno. Troppo tardi giungo? Compiuto il male è già? Questi fanciulli chi pose a morte? E di chi sposa è questa donna ch'io vedo? I pargoli non sogliono trovarsi in mezzo alle battaglie: è questo male ch'io trovo qui, novello e strano. Anfitrióne: Re che sul colle dell'ulivo imperi... Tesèo: Perché m'appelli con tristi proemi? Anfitrióne: I Numi ci percossero coi malanni piú fieri. Tesèo: Chi son questi fanciulli onde tu gemi? Anfitrióne: Fu lor padre mio figlio; ed or li uccise: del loro sangue ora ha le mani intrise. Tesèo: Usa piú pia favella. Anfitrióne: Ubbidir ti potessi! Tesèo: O tremenda novella! Anfitrióne: Siam da ogni male oppressi. Tesèo: Che di'? Come colpia? Anfitrióne: Il tòssico dell'Idra centocípite vibrò, colpito da cieca follia. Tesèo: D'Era fu tale impresa. Or, vecchio, dimmi: chi è colui che in mezzo ai morti giace? Anfitrióne: Il figlio, il figlio mio sventurato, che, in pro' dei Súperi, imbracciò lo scudo nella pugna di Flegra, dove tanti sterminò dei Giganti. Tesèo: Ahi, piú infelice chi di lui, fra gli uomini? Anfitrióne: No, trovar non potrai uomo di lui piú misero, piú percosso dai guai! Tesèo: Perché nel manto asconde il capo misero? Anfitrióne: Di te che amico, che gli sei parente, del sangue dei suoi pargoli esso vergogna sente. Tesèo: Ma per soffrire con lui venni: scoprilo. Anfitrióne: O figlio mio, discosta dagli occhi il manto, gittalo, del sole offriti al guardo. Or, contro le tue lagrime lotta una forza opposta. Io mi prosterno supplice a te dinanzi, o figlio, ed alle tue ginocchia, alla tua man m'appiglio, al volto, e spargo il mio pianto senile. Frena la leonina, la selvaggia tua bile, che ti sospinge a furia empia di strage, che vuole ai mali aggiungere di guai nuova compage. Tesèo: Orsú, favello a te, che siedi in tanto miserabil postura, il viso tuo mostra agli amici. Oh, tènebra non v'è di cosí negra nuvola, che possa celar la tua sciagura. E perché tendi la mano, e mostri il sangue effuso a me? Forse perché delle parole tue il contagio su me cader non debba? Oh, non mi pesa di soffrir con te: ché un tempo fui teco felice: al giorno debbo pensar che tu dai morti regni mi salvasti alla luce. I cuori in cui gratitudine invecchia, odio, e chi vuole goder dei beni, e, quando poi sventura sugli amici piombò, schiva con essi affrontar la tempesta. Or sorgi, e scopri il tuo povero volto, e gli occhi fissa negli occhi miei: chi generoso nacque, soffre i colpi dei Numi, e non recàlcitra. ERCOLE: Vedi, Tesèo, come i miei figli caddero! Tesèo: Ho appreso, e il mal che tu m'addìti scorgo. (Dolcemente gli scopre il volto) ERCOLE: Perché dunque il mio volto al sol discopri? Tesèo: Non puoi, ché sei mortal, macchiare i Numi. ERCOLE: L'empio contagio mio fuggi, infelice! Tesèo: Furia ultrice all'amico è mai l'amico? ERCOLE: Ti sovvenni in buon punto: or ti ringrazio. Tesèo: Da te mi venne il bene: or ti commisero. ERCOLE: E di pietà son degno: i figli uccisi. Tesèo: Ti colpisce sventura; ed io ne piango. ERCOLE: Altri vedesti in piú crudeli affanni? Tesèo: Dalla terra i tuoi mali al ciel s'adergono! ERCOLE: Son dunque in luogo onde colpire io posso. Tesèo: Pensi che i Numi a tue minacce badino? ERCOLE: Son temerarii; e tale io son per essi. Tesèo: Taci, ché i vanti il mal tuo non accrescano. ERCOLE: Al colmo è il male mio, piú non può crescere. Tesèo: Che farai? Dove, tanto irato, andrai? ERCOLE: Morrò, sotterra andrò, donde ora giunsi. Tesèo: Dici quanto direbbe un uom qualsiasi. ERCOLE: Fuor degli affanni sei, tu che consigli. Tesèo: Ercole, il saldo ad ogni prova, parla? ERCOLE: Non a queste: ai dolori anche c'è limite. Tesèo: L'amico, il gran benefattor degli uomini? ERCOLE: Che aiuto non mi dànno. Era può tutto. Tesèo: Che tu muoia da stolto, il vieta l'èllade. ERCOLE: Le mie parole ascolta dunque, come gli ammonimenti tuoi ribatterò, ti spiegherò come non è possibile ora, e da tempo già, per me la vita. Primo, da un uomo io nato son che uccise il vecchio padre di mia madre, e, ancora contaminato, ne sposò la figlia, mia madre, Alcmèna; e allor che i fondamenti saldi non sono d'una stirpe, è forza che sopra i figli la sventura cada. E Giove, poi - qual che sia Giove - in odio mi generava ad Era; e non offenderti, o vecchio, tu: ché te padre, e non Giove reputo. E mentre ancor suggevo il latte, la compagna di Giove avventò contro le fasce mie, perché morissi, due serpenti occhi di fiamma. E allor che pubere muscoleggiò tutto il mio corpo, è d'uopo dire i travagli che affrontai? Leoni, tricòrpori Tifoni, o vuoi Giganti, e sterminai, pugnando, dei Centauri le quadrupedi frotte, e l'Idra, cagna di cento teste, che, recise, ancora cresceano; e mille e mille altre fatiche; e fra i morti discesi, ed il tricípite cane, custode dell'Averno, a luce, per obbedire ad Euristèo, condussi. E questa fu l'ultima prova, o misero me: che i miei figli uccisi, e di sciagure colmai la casa. E a tale estremo or sono, che non posso abitar nella mia Tebe senza empietà. Se resto, a quale sagra andrò, d'amici a quale accolta? Io sono contaminato, e niun mi parlerà. O in Argo andrò? Se dalla patria io sono bandito! O forse a qualche altra città? M'avranno appena conosciuto, e bieco mi guarderanno, e lungi mi terranno con questi di parole amari pungoli: «Non è costui di Giove il figlio, quello che figli e sposa uccise? E non andrà, lungi da questa terra, alla malora?» Per l'uom che un giorno detto fu beato, ogni rovescio è doloroso: quello che ognor fra i mali si trovò, non soffre: ché seco la sciagura a un parto nacque. Ed a tal punto di sciagura io sono, che sin la terra parlerà, divieto mi farà, ch'io tocchi il suo grembo, e il pelago ch'io l'attraversi, e i valichi dei fiumi; e sarò pari ad Issïon, che gira alla sua ruota avvinto. E questo è il meglio: piú nessuno veder me degli Ellèni debba, fra cui lieto e felice io vissi. Dunque, viver perché? Mi giova forse una vita serbare empia ed inutile? Di Giove or danzi pur l'illustre sposa, faccia suonar, col suo calzare, il lucido pavimento d'Olimpo: a fine addusse il suo disegno: essa abbatté, scalzò da sommo ad imo il primo eroe de l'Ellade. Ad una tale Dea, chi mai preghiere rivolgere vorrà? Per una donna, per gelosia del talamo di Giove, essa l'uomo abbatté ch'era de l'èllade benefattore, e immune era di colpe. Tesèo: Era t'infligge questa prova, sappilo sicuramente, la sposa di Giove, e niun altro dei Numi. Ed io t'esorto a rassegnarti, ad evitare il peggio. Niun dei mortali immune è da sciagura, e niuno degli Dei, se pur non mentono dei poeti i racconti. Essi non strinsero nozze fra lor che niuna legge approva? Per cupidigia di potere, i padri non avvilîr nei ceppi? Eppur, dimora hanno in Olimpo, ed è per essi lieve delle colpe il rimorso. E che dirai se tu, nato mortale, intollerante ti mostri alle sciagure, e i Numi no? Come la legge vuole, ora abbandona Tebe, e me segui alla città di Pàllade. Quando pure le tue mani avrai rese, l'ospizio quivi, e parte dei miei beni io ti darò: quanti presenti m'ebbi dai cittadini, allor che sette e sette giovinetti salvai, ponendo il toro di Creta a morte, tuoi saranno. Stese di terra grandi, a me per tutta l'Attica furon servate; e tue dette dagli uomini, finché tu viva, ora saranno; e quando tu sarai spento, e scenderai nell'Ade, con sacrifici e con marmorei tumuli Atene tutta onor ti renderà. Pei cittadin' sarà fulgido serto rendere omaggio a un forte eroe, dagli èlleni averne fama: la salvezza ch'ebbi da te, compensi questa grazia mia. Ch'or d'amici hai bisogno. Allor che i Numi t'accordano favore, a nulla servono gli amici. Basta, quando vuole, un Dio. ERCOLE: Ahimè, lievi conforti ai miei malanni son questi. E creder non posso io che i Numi vaghi sien mai d'illeciti connubî, né che le mani l'un dell'altro avvincano credetti, o crederò mai, né che siano soverchiatori l'un dell'altro. Un Dio, se veramente è Dio, di nulla ha d'uopo. Dei poeti son queste inani favole. Ma, pure in tanto mal, m'assale il dubbio che di viltà, se mai fuggo la vita, sarò tacciato. Che, se tu non sai tollerar le sciagure, innanzi all'arme d'un nemico, saprai restare impavido? Di non morire avrò forza: verrò teco alla tua città. Dei doni tuoi mille grazie ti rendo. Oh, mille e mille travagli già patii; né mi ritrassi mai dinanzi ad alcuno, e mai dagli occhi pianto versai, né mai pensai di giungere a tale un punto ch'io versassi lagrime. Or conviene al destin, sembra, chinarsi. E sia. L'esilio mio, vecchio, tu vedi, vedi ch'io sono l'uccisor dei figli. Tu dà sepolcro ad essi, tu componi le salme loro, onorali di lagrime - di farlo a me vieta la legge -, adagiali sovra il sen della madre, e fra le braccia: pïetosa concordia; ed io la fransi, misero me, contro mia voglia. E quando le salme loro avrai sotterra ascose, abita ancor questa città. Ben misera sarà per te la vita; eppure, aiutami a sopportare i miei tormenti, e vivi. V'uccise, o figli, il padre vostro, quello che vi die' vita; e non cogliete il frutto delle fatiche mie, la fama ch'io procacciarvi cercavo, il piú bel dono d'un padre ai figli. E tristi grazie resi, misera, a te, che il letto mio serbasti immacolato ognor, badando all'opere. Ahimè, sposa, ahimè, figli, ahi, me tapino, quanto misero io sono! E separarmi debbo dai figli e dalla sposa. Ahi, lugubre gioia di questi abbracci! Oh, per me lugubre compagnia di quest'armi! In dubbio io sono se conservarle debbo, oppur lasciarle: ch'esse, battendo al fianco mio, diranno: «Uccidesti con noi figliuoli e sposa: l'assassino dei figli in noi tu serbi?» Ed io le porterò su le mie spalle? E perché mai? - Ma, pur dell'armi privo, onde le glorie mie compiei ne l'Ellade, datomi in preda ai miei nemici, morte d'obbrobrio troverò. No, non le devo lasciare, anzi serbarle, anche se soffro. In una cosa assistimi, Tesèo. Vieni in Argo con me, del can d'Averno con me fissa il compenso, affin che il cruccio non mi spinga dei figli a qualche eccesso. O suol di Cadmo, o popolo di Tebe, tutti le chiome recidete, il lutto prendete tutti, al tumulo dei figli movete, e tutti ad una voce, i morti e me piangete: ché morti siam tutti. Era ci sterminò con un sol colpo. Tesèo: Sorgi, o tapino, bastano le lagrime. ERCOLE: Non posso: irrigidito io sono tutto. Tesèo: Dunque, abbatte sciagura anche i piú saldi. ERCOLE: Ahimè! Pietrificato io qui scordassi i mali! Tesèo: Taci: la mano a chi t'assiste porgi. ERCOLE: Bada: il tuo peplo il sangue imbratterà. Tesèo: Non ci pensar, l'imbratti. Io non lo schivo. ERCOLE: Privo di figli, un figlio io trovo in te. Tesèo: Il braccio al collo mio cingi: io ti guido. ERCOLE: Fida coppia d'amici! E quanto è misero l'un d'essi! - O vecchio, ecco gli amici veri. Anfitrióne: Madre di generosi è la sua patria. ERCOLE: Fa', Tesèo, ch'io mi volga, e i figli veda. Tesèo: Perché? Sollievo ti darà tal farmaco? ERCOLE: Lo desidero. Oh, il padre almeno abbracci! Anfitrióne: Figlio son qui! La mia brama previeni. (Si abbracciano) Tesèo: Piú non rammenti i tuoi travagli antichi? ERCOLE: Troppo di questi men penosi furono. Tesèo: Niun loderebbe questa tua mollezza. ERCOLE: Molle un tempo non fui: tale or ti sembro? Tesèo: Troppo: l'intrepido Ercole, dov'è? ERCOLE: E che cos'eri tu, laggiú tra gl'Inferi? Tesèo: Quanto a baldanza, il piú gramo degli uomini. ERCOLE: E perché dici allor che il mal m'abbatte? Tesèo: Andiamo. ERCOLE: O padre, addio! Anfitrióne: Mio figlio, addio. ERCOLE: Come t'ho detto, dà sepolcro ai figli. Anfitrióne: Ed io, da chi l'avrò, figlio? ERCOLE: Da me. Anfitrióne: Qui verrai? ERCOLE: Quando avrai sepolto i figli... Anfitrióne: Ebbene? ERCOLE: Io farò sí che tu da Tebe venga ad Atene. Ora al sepolcro i figli accompagna, corteo misero. Ed io, che a turpe fine la mia casa addussi, come dietro alla nave il palischermo, seguo Tesèo. Chi preferisce l'oro e la ricchezza ai buoni amici, è folle. (Si allontana con Tesèo, Anfitrióne segue le salme dei fanciulli, il coro s'avvia anch'esso all'uscita) CORO: Ed io ti seguo in fiero lutto immerso: ché in te l'amico mio piú fido ho perso.