Le Eumènidi di Eschilo traduzione di Ettore Romagnoli PERSONAGGI: PROFETESSA pìttica APOLLO ORESTE L'OMBRA di Clitennèstra CORO di Furie Atèna La scena della prima parte rappresenta l'adito del tempio di Apollo in Delfi. PROLOGO SACERDOTESSA (Prega dinanzi al tempio): Prima con questa prece onoro Gea che profetessa fu prima: indi Tèmide che seconda ebbe sede in questo oracolo, dopo sua madre, com'è fama; e terza, né già per forza, ma piacendo a Tèmide, vi salí Febe, prole dei Titani, figliuola anch'essa della terra; e dono natale a Febo ella ne fece, e il nome serba ancora dell'ava. E il Dio, lasciate le scogliere di Delo e la palude, alle acclivi approdò spiagge di Pallade e a questo suolo, ed al Parnaso giunse. Scorta gli fanno, e grande onore, e innanzi gli schiudono la via, gli Atenïesi figli d'Efesto, e la selvaggia terra rendono pervia. E come ei giunge, il popolo assai l'onora, e il re che questa terra governa, Delfo. E Giove a lui fatidica mente concesse; e quarto, in questo trono, dei vaticini re lo fece; onde ora è profeta di Giove il Nume ambiguo. Le prime preci a questi Numi salgano. Poscia il saluto a Pallade che siede innanzi al tempio io volgo, ed alle Ninfe ch'ànno dimora nella cava rupe coricia, asilo ai Dèmoni, diletta agli aligeri; e Bromio ha quivi impero, non l'oblio, no, dal dí ch'egli fu duce alle Baccanti, ed al Pentèo la sorte feroce intorno, come a un lepre, strinse. E del Pleisto le fonti, e la possanza di Posídone invoco, e il sommo Giove: e, fatidica voce, il trono ascendo. Ed ora a me fausto l'ingresso, quanto mai già non fu, concedano. - E degli Èlleni se alcuno è qui, traggan la sorte e avanzino: come il Dio guida, i vaticini io dico. (Entra nel tempio. Ma subito ne balza fuori esterrefatta. piomba con le mani al suolo, e si trascina ancora uno o due passi verso gli spettatori) Ahi! terribile a dire, e piú terribile a vederlo, mi scaccia uno spettacolo fuor dal tempio del Nume! Io non ho forze piú: non mi reggo piú: sovra le palme io mi trascino, e non sui piedi. Nulla è una vecchia che teme, è come un pargolo! (Rimane pochi momenti in silenzio) Ai penetrali e alle sacre bende m'accosto, e vedo sulla pietra un uomo supplice, sozzo d'un delitto: sangue stillano ancor le mani e il ferro ignudo; e stringe un ramo di montano ulivo, tutto avvolto di pii candidi bioccoli. È chiaro assai, ciò che finor v'ho detto. Ma dinanzi a costui, sovressi i troni, sopito giace un mostruoso stuolo di femmine: non femmine, anzi Gòrgoni io le dirò: benché, neppure a Gòrgoni le posso assimigliar, quali dipinte io le vidi a Finèo predar la mensa. Ma senz'ali son queste, e negre, e tutte lorde: con ammorbanti aliti russano, e sozze marce giú dai cigli colano. Né vesti pari a quelle ch'esse cingono tollerare saprian dei Numi gl'idoli, né tetti umani. Io mai progenie simile non ho veduta, e non mi so qual terra glorïar si potrà ch'ebbe a nutrirle senza suo danno, senza averne a piangere. Ma ciò che far si debba, il Nume ambiguo, il possente Signor di questo tempio, egli lo vede: ché indovino e vate medico, anche le altrui case purifica. (La profetessa esce) PRIMO EPISODIO (Si spalancano le porte del tempio, e, dinanzi all'ara d'Apollo si vede prostrato Oreste, che stringe la spada grondante di sangue. D'intorno a lui sono le Furie sdraiate e addormentate. Quasi subito, presso a lui compare Apollo) APOLLO: Io non ti tradirò. Presso o lontano, t'assisterò sino alla fine, e mite mai non sarò per gl'inimici tuoi. Vedi che queste Furie infine ho colte: giaccion nel sonno le odïose vergini, le antiche figlie della notte, a cui non dei Superi alcuno e non degli uomini né fiera alcuna mescesi. Ministre qui di ruina vennero: ché pure sotto la terra, in ruinosa tenebra, han dimora, nel Tartaro; e degli uomini le aborrisce la stirpe e degli Olimpî. Ma pur, tu fuggi, e non fiaccarti: ch'esse t'inseguiranno; o sia che tu per vasti piani sospinga l'errabondo piede, o su le popolose isole e il pelago: né sostener questa fatica stanco te renda. E giunto alla città di Pàllade, posa, e l'antico simulacro abbraccia. Quivi saranno giudici e ragioni per farli miti; e spedïenti avrò che te per sempre dagli affanni sciolgano: ché io t'indussi a uccidere tua madre. ORESTE: O sire Apollo, essere giusto sai. Poi che sai questo, sappi anche esser memore. La potenza d'oprare è in te ben salda. APOLLO: Ricorda! Né terror ti vinca l'anima. Ermete, e tu ch'ài padre il padre mio, come, o fratello, il nome tuo pur suona, sii custode, sii guida a questo supplice mio, sii pastore. Giove stesso onora, quando la sorte ad essi arride, i supplici. (Oreste fugge, Apollo sparisce. Subito appare l'ombra di Clitennèstra, e si rivolge alle Furie) Clitennèstra: Ehi là! Dormite? E che bisogno ho io di sonnacchiose? Perché m'offendete cosí? Perché questa diversa legge? Neppur fra i morti, poi che morte diedi, evito io l'onta, ed erro in turpe bando: ahi!, triste taccia, vi so dir, mi dànno! Ma il male ch'io patii dai miei piú prossimi, che fui sgozzata per man di mio figlio, nessun dei Numi pensa a vendicarmene. Queste mie piaghe l'animo tuo scorga: pupille acute ha l'animo nel sonno, anche se desto poco lungi vede. Eppur molti lambiste, ed io v'infusi, libamenti di pure acque e di miele; e v'imbandii presso la sacra fiamma notturne àgapi, quando eran deserte l'are d'ogni altro Nume. E tutto ciò ora lo veggo sotto i pie' calpesto. E colui v'ha deluse, e fugge, simile a cerbiatto: di mezzo alle reti, agile via si lanciò, di voi si prese gioco. Udite, dunque: ch'io vi parlo, inferne Dive, con tutta l'anima: destatevi: io nel sonno vi chiamo, io Clitennèstra. (Le Furie russano) Clitennèstra: Voi russate, e quell'uom fugge, è lontano: ché non son pari ai miei gli amici suoi! (Le Furie russano) Clitennèstra: Troppo dormi, e di me non ti dài cura; e Oreste, quei che uccise me, s'invola. (Le Furie russano) Clitennèstra: Sonnecchi, russi? Non ti desti? Sbrígati! Non sai tu dunque fare altro che mali? (Le Furie russano) Clitennèstra: Stanchezza e sonno insieme congiurarono, e la forza alla fiera idra fiaccarono. FURIE: Ghermisci, ghermisci, ghermisci, ghermisci! Clitennèstra: La fiera in sogno insegui, e al par di cane che mai la caccia non oblia, tu mugoli. Sorgi, che fai? Stanchezza non t'abbatta! Vedi il tuo smacco! Non t'afflosci il sonno! Le mie giuste rampogne il cuor ti cruccino. Son le rampogne, per chi senno ha, pungoli. Sopra lui soffia il tuo fiato sanguineo, consumalo con l'alito, col fuoco dei tuoi visceri, ancora inseguilo, ardilo! FURIA 1 (Si desta, e scuote una compagna): Svégliati! E sveglia quella, io sveglio questa. (Ne scuote un'altra) Dormi? Déstati, dunque, e al sonno càlcitra: vediam se il sonno fu vano preludio. (Le Furie si destano una dopo l'altra) FURIA 2: Strofe prima Ahimè, che smacco soffrimmo, compagne! FURIA 3: Ahimè, travaglio che invano ho durato! FURIA 4: Ahi quale affronto, che male insoffribile dobbiamo plorare! FURIA 5: Da le reti balzò, fugge la fiera! FURIA 6: Vinta dal sonno, perduta ho la preda. (Le Furie si aggruppano in due semicori intorno all'altare di Apollo) FURIA 2: Antistrofe prima Figlio di Giove, ben tu sei furace. FURIA 3: Le antiche Dive, calpesti tu giovine! FURIA 4: Benigno al supplice, all'uom senza Iddio, funesto ai parenti, un matricida, tu, Nume, hai salvato. FURIA 5: Chi potrà dire che giusta è tale opera? SEMICORO PRIMO: Strofe seconda Una rampogna nel sogno giunse, come l'auriga che a mezzo il pungolo stringe; ed il fegato mi batte, e l'anima. Sotto il flagello del reo carnefice, un gelo un brivido ghiaccio m'assidera. SEMICORO SECONDO: Antistrofe seconda Tali, dei nuovi Numi le gesta. Contro Giustizia tengono un seggio che tutto or gemica grumi sanguinei. Contaminata la sacra pietra scorgi dall'orride macchie del sangue. SEMICORO PRIMO: Strofe terza Ei, ch'è pur vate, con brama spontanea, bruttava i recessi fatidici di macchia domestica; e, contro le leggi dei Superi, le Norme antichissime struggeva, ad onor d'un effimero. SEMICORO SECONDO: Antistrofe terza A me diviene odïoso: né libero sarà che mai renda quell'empio, se pur fra le tènebre, del suolo fuggisse. È colpevole: a lui nuovo Dèmone piombare dovrebbe sul cèrebro. SECONDO EPISODIO (Improvvisamente appare Apollo) APOLLO: Via di qui, ve l'impongo, uscite súbito, abbandonate questo antro fatidico, sí che la scintillante alata serpe non si lanci su te dall'aurea corda, e tu non debba, per l'algor, dai visceri negra spuma cacciar, vomendo i grumi che sorbisti, di strage. A queste case tu non devi il tuo pie' volger; ma dove si mozzan capi e forano pupille con giudizî cruenti, ove dei pargoli si offende il boccio e si distrugge il seme, dove si muor sotto le pietre, o gente supina, ai pali infissa, ulula e mugola. E perché, l'intendete?, a voi dilette son tali feste, i Numi v'abborriscono. E all'esser vostro ben la forma addicesi. D'un lion sanguinario a voi conviene cercare l'antro; e gli opulenti oracoli non insozzar con la lordura vostra. Su via, senza pastore uscite a branco: ché niun dei Numi amico è di tal gregge! CORIFEA: Ascoltami a tua volta, o sire Apollo. Complice tu non sei di tal delitto: solo tu lo compiesti, e n'hai la colpa. APOLLO: Come? Piú a lungo questo punto spiegami! CORIFEA: L'uom tu spingesti a uccidere sua madre. APOLLO: Il padre a vendicar l'indussi! Ebbene? CORIFEA: Del nuovo scempio poi t'offristi a tergerlo. APOLLO: E l'indussi a scampare entro il mio tempio. CORIFEA: E noi che l'inseguiam perché vituperi?... APOLLO: In questa casa entrar non v'è concesso. CORIFEA: Pure è questo per noi prefisso debito. APOLLO: Quale? Di' questo tuo gran privilegio! CORIFEA: Via dalle case i matricidi spingere. APOLLO: Pur se la madre il suo consorte uccise?... CORIFEA: Non si macchiò di consanguinea strage. APOLLO: Priva è d'onore, è nulla già la fede di Giove e d'Era pronuba! Bandita va per i detti tuoi, spregiata Cipride, onde hanno ogni maggior dolcezza gli uomini: ché il sacro letto cui Giustizia vigila, per la donna, per l'uom, val piú che giuro. Ora, se tanto indulgi a chi die' morte al suo consorte, che tu non lo vendichi, che all'ira tua non la fai segno, io dico che non a dritto Oreste ora perseguiti. Ché tu per uno scempio assai t'adiri, per l'altro sei palesemente mite. Ma ciò ch'è giusto, vedrà bene Pallade! CORIFEA: Mai non sarà che di cacciarlo io resti! APOLLO: Caccialo! Aggiungi travaglio a travaglio. CORIFEA: Non scemar, coi tuoi detti, il mio diritto! APOLLO: Godere i tuoi diritti, io non vorrei! CORIFEA: Grande sei tu, tu presso a Giove siedi. Ma la materna strage grida, e insegue come un cane, quest'uomo, a la vendetta. APOLLO: Ed io proteggo, io farò salvo il supplice! Su l'uom, sul Nume che tradisce un supplice, né v'è costretto, incombe alta vendetta. (Apollo da una parte, le Furie dall'altra, lasciano la scena) SECONDA PARTE (La scena è in Atene, dinanzi al tempio d'Atèna Pallade. Al principio di questa seconda parte, giunge Oreste, e si prostra dinanzi al simulacro della Dea) ORESTE: Atèna Dea, per gli ordini di Febo giungo: il fuggiasco accogli tu benevola: ch'io non impuro, né con le man' sozze, ma innocuo già, purificato già in altre case, in altri umani tramiti, attraversando e terre e mari, docile ai fatidici mòniti d'Apollo, giungo al tuo tempio; e al simulacro tuo strettomi, aspetto dal giudizio il fine. (Irrompono nell'orchestra le Furie, cercando, fiutando il suolo, come una canea in traccia della preda) FURIA 1: Ecco! Un palese indizio del fuggiasco. Segui le tracce della muta guida! FURIA 2: Come canea su ferito cerbiatto moviamo dietro le stille di sangue. FURIA 3: Seguir quest'uomo assai mi fiacca; ed ansima il mio polmone: ch'errai della terra per ogni luogo, lo cercai, volando sul mar, senz'ali, al par di nave rapida. FURIA 4: Ed ora, certo, egli è nascosto qui: ché mi conforta odor d'umano sangue. FURIA 1: Cerca, su, cerca per tutto, ed investiga ché il matricida non fugga impunito! FURIA 2: Bene ei trovò soccorso! Strettosi all'idolo sacro d'Atèna, chiede giudizio del sangue versato. FURIA 3: Ma lecito non è: non si riscatta il sangue materno che al suolo stillava effuso, che bagna la terra. FURIA 4: No: dalle membra ancor vive, tu devi l'èpula offrirci di rosso libame: nelle tue vene convien ch'io m'abbeveri. FURIA 1: Vivo t'emacierò, ti condurrò ad espiare la colpa, tra gl'Inferi. FURIA 2: Qui tu vedrai chiunque altri degli uomini peccò, facendo ingiuria ai Numi, agli ospiti, ai suoi genitori, ciascuno avendo la débita pena. FURIA 3: Che l'Ade v'è sotto la terra, giudice solenne dei mortali, che nella mente tutto scrive, e vigila. (Le Furie si aggruppano intorno all'altare di Diòniso) ORESTE: Dalle sciagure ammaestrato, appresi ciò che convenga in ogni evento; e so quando parlar convien, quando il silenzio. Saggio maestro or favellar m'impone. Langue su la mia man, si strugge il sangue: del matricidio la recente macchia lavata è già: con sangue espiatorio presso l'ara del Dio fu cancellata: lungo sarebbe annoverare quanti contatto ebbero meco, e illesi andarono. E santamente e con pio labbro, adesso chiamo la Dea di questa terra, Atèna, che a soccorrermi giunga. Ella, senz'armi, e me stesso e la terra e il popol d'Argo fido alleato ognor guadagnerà. O sia che tu ne le contrade libiche su 'l fluvïale tramite tritonio che ti die' vita, a sostener gli amici, o nascosto o palese il piede avanzi, o sia che, ardita guidatrice, vigili con virile saldezza il pian di Flegra, tu, che sei Dea, che pur da lungi m'odi, amami, e me da queste pene salva. FURIA 1: Apollo non potrà, non la possanza potrà d'Atèna farti salvo. Andrai randagio, né mai piú pace saprai! Ombra vagante, esangue epula, ai Démoni tu non rispondi, i detti miei tu spregi, tu sacro a me. Sarai la mia pastura, non su l'ara sgozzato, anzi ancor vivo; e udrai quest'inno che t'allacci e affàscini! PRIMO CANTO INTORNO ALL'ARA FURIA 2: Su via, dunque, la danza s'intrecci, poiché la ferale canzone vogliamo intonare, e dire la sorte che agli uomini comparte la nostra congrega. Ci vantiam di seguire Giustizia. Chi pure ha le mani, nessuna vendetta spirata da noi su lui repe, e illeso trascorre sua vita. Ma se un reo, come l'uomo ch'or fugge, nasconde le mani cruente, noi, vindici giuste a chi cadde, dinanzi apparendogli, del sangue il riscatto esigiamo. Strofe prima O mia madre, o tu che m'hai generata, Notte madre, a punir vivi e defunti, tu m'ascolta: ch'ora Febo me d'ogni onore priva, e m'invola questo fuggiasco, che la sua madre scannò, ch'è sozzo di sangue ancora! Sopra la vittima questa mia nenia dissennatrice, folle, delira, quest'inno delle Furie, che avvince gli animi, che strugge gli uomini, schivo di lira. Antistrofe prima Tale a noi perenne cómpito die' la Parca inesorabile: al mortale temerario che le man' di strage macchia, sempre seguire le sue vestigia, sin che la terra non lo ricopra; né dopo morto libero è ancora. Sopra la vittima questa mia nenia dissennatrice, folle, delira, quest'inno delle Furie, che avvince gli animi, che strugge gli uomini, schivo di lira. Strofe seconda Quando nascemmo, tal sorte per noi stabiliva il Destino: lontane tenere le mani dai Superi: Nume non v'è che meco la mensa partecipi. Candide vesti indossare mi negano il Fato e la Sorte: ch'io m'elessi la rovina delle case, allor che Marte entro i letti ov'ha l'amico nido, compie amica strage. Sopra questo ci avventiamo, e per quanto sia gagliardo, l'abbattiam con nuovo sangue. Antistrofe seconda Altri cosí, mercè nostra, di simile cura va sgombro. Orecchio a le preci che a me si volgono, i Numi non prestino, né l'opera nostra inquisiscano. Giove di motto non degna la gente odïosa che sangue da le man' stilla: io rovino, le lor case, allor che Marte entro i letti ov'ha tranquillo nido, compie amica strage. Sopra questo ci avventiamo, e per quanto sia gagliardo, l'abbattiam con nuovo sangue. Strofe terza Anche se giungono al cielo, la fama, la gloria degli uomini, cadono al suolo disfatte, deserte d'onore, quando avanziamo recinte dai lividi pepli, e batte l'infesto mio piede la danza. Con un gran lancio dall'alto io piombo, e l'orma somma del mio pie' gravo sopra i fuggiaschi, gravo a sterminio le membra, e infliggo la trista sorte. Antistrofe terza Né chi rovina, nel turpe delirio, del crollo s'avvede: come caligine attorno lo scempio gli svola; e la lor misera fama, sovr'esse le case addensa fra lagrime le tenebre cieche. Con un gran lancio dall'alto io piombo, e l'orma somma del mio pie' gravo sopra i fuggiaschi, gravo a sterminio le membra, e infliggo la trista sorte. Strofe quarta Questa è la nostra legge, e al nostro fine agevoli troviamo i mezzi. Memori e severe ai mortali, e inesorabili, senza onore né pregio, viviam lunge dai Numi, dove non s'apre tramite né ai vivi, né ai defunti, ove non brillano giammai del sole i lumi. Antistrofe quarta Chi mai dunque fra gli uomini non mi venera e teme, udendo la mia norma fatale, a cui concede esito il Dio? L'antico privilegio anche oggi in me perdura; né priva andrà d'onore, se pur sotto la terra io mi rifugio, ne la tènebra oscura. TERZO EPISODIO (Giunge Atèna) Atèna: Da lungi udito ho de l'appello il suono, dallo Scamandro, ove la sede mia stabilita ho nel suol, che, parte eletta dei predati trofei, tutto a me sacro, per sempre, i duci e i prenci d'Argo vollero, e ai figli di Tesèo dono ne fecero. Di lí spingendo il pie' mai stanco, giunsi senz'ali, e ai venti fremea gonfia l'egida. Or, qui veggendo cosí nuova accolta, non temo io già, ma stupefatta resto. Chi siete mai? Lo chiedo a tutti. A questo che, stranïero, all'idol mio si stringe, e a voi, disforrni ad ogni essere nato, cui né mai tra le Dee videro i Numi, né somigliate alle parvenze umane. Ma rinfacciare apertamente altrui la sua deformità, non mi par giusto! CORIFEA: Figlia di Giove, in breve il tutto udrai. Noi della Notte siam le fiere figlie, Dire chiamate nelle inferne case. Atèna: Noti mi son la stirpe vostra e il nome. CORIFEA: E il nostro ufficio presto apprenderai. Atèna: L'apprenderò se me lo dice alcuno. CORIFEA: Dalle case scacciam qualunque ancide. Atèna: E dove trova di sua fuga il termine? CORIFEA: Dove per sempre ogni letizia è morta. Atèna: Tale è la caccia che su costui gridi? CORIFEA: Egli sua madre assassinare ardí. Atèna: Né la furia teméa d'altra pressura? CORIFEA: Pungol non v'ha, che al matricidio astringa! Atèna: Son due le parti, e solo una parlò. CORIFEA: Ei non può dare il giuro, né riceverlo! Atèna: Piú che oprar giusto, averne fama brami! CORIFEA: Dimmi il perché, saggezza a te non manca. Atèna: Far non può il giuro che trionfi il falso. CORIFEA: Chiedi le prove, e tu la lite giudica. Atèna: Dunque il giudizio rimettete a me. CORIFEA: Come no? Ti prestiamo l'onor debito. Atèna: E tu, che cosa opporre, ospite, puoi? Di' la tua patria, la progenie tua e le vicende, e dalle accuse scólpati, se fede hai pur nella giustizia, e siedi perciò, come Issïon, supplice sacro vicino all'ara e al simulacro mio. Rispondi a tutto, e fa ch'io chiaro intenda. ORESTE: O diva Atèna, prima io dall'estreme parole tue, vo' tôrre un gran sospetto. Non giunsi qui contaminato. All'idolo tuo non m'assisi con le mani impure. E grande prova addurre io te ne posso. Muto convien che l'omicida resti, sin che del sangue d'un lattante verro altri, a espïar, non lo cosperga. Ed io, da lungo tempo già, presso altre case, presso altre genti, fui purificato. Il tuo primo sospetto ecco rimosso. Ed ora, sappi la progenie mia. Io sono d'Argo: è mio padre Agamènnone, signor dei navichieri, a te ben noto: che tu con esso, ov'era la città d'Ilio, facesti la rovina. Ora, egli, tornato alla sua casa, trovò morte: ignobil morte: ché la torva madre mia, lo sgozzò, lo strinse entro una rete versicolore, testimone ancora dell'assassinio: e fu nel bagno. Ed io tornai, che prima andato era fuggiasco, ed uccisi mia madre, io non lo nego, e con la morte vendicai la morte del carissimo padre. Ed è partecipe di questo scempio, Apollo: egli mi disse quali tormenti il cuor mio punto avrebbero se cosí non punivo i due colpevoli. Se il giusto feci, se fallai, tu giudica: loderò, qual che sia, la tua sentenza. Atèna: Se alcuno v'è che troppo ardua tal causa pensa che sia da giudicarla gli uomini, neppure a me consento io stessa sciogliere d'un omicidio l'odïosa lite. Ché tu supplice giungi alla mia casa, purificato, innocuo, né può biasimo la città rinfacciarti, e debbo accoglierti. Ma tali queste Dee son, che difficile è lo scacciarle; e ov'esse non trionfino, piombando al suol dai lor visceri, un tossico letal susciterà funereo morbo. A questo punto or siam: né trattenerle né rimandarle senza lite io posso. E poi che a ciò giunser gli eventi, giudici eleggerò, che sacra abbian la legge ch'eterna io renderò, del giuramento; e voi le prove procacciate e i giuri e i testi onde ristoro abbia giustizia. Ed io, dei cittadini il fiore eletto troverò: scioglieranno essi la lite, senza far torto insidïoso al giuro. SECONDO CANTO INTORNO ALL'ARA CORO: Strofe prima Leggi novelle sconvolgeranno la terra tutta, se questo scempio, se questa causa del matricida trionferà. Per tal sentenza, la man degli uomini ad ogni eccesso trascorre immune. Di vere piaghe dai figli aperte la doglia incombe già sui parenti. Antistrofe prima La furia nostra, Mènadi vigili sovra i mortali, nessun delitto piú colpirà. Ogni destino volga a sua posta! Narrando i mali dei lor vicini, si chiederanno l'un l'altro un fàrmaco, una difesa dai mali, ahi, miseri!, dove consigli non son che vani! Strofe seconda Bene è spesso che tra gli uomini trovi luogo, e che degli animi a custodia il timor segga: non disdicono a saggezza angusti freni. Qual città, quale uomo credi che potrà, se in cuore dramma di timore non alberghi, venerare la giustizia? Antistrofe seconda Niuno ormai, se la sciagura lo percuota, osi levare piú le supplici parole: O Giustizia, e voi, troni dell'Erinni! Leverà presto tal gemito qualche padre, qualche madre tormentata, poi che il tempio di Giustizia crolla già. Strofe terza Non lodar vita servile, né che sciolto abbia ogni freno. Ogni possanza nel mezzo locar volle il Nume, che vigile or qui l'occhio volge, ora altrove. Io dico in verità, ch'è Tracotanza figliuola d'Empiezza; ma dal pensier prudente nasce Beatitudine, diletta ad ogni gente. Antistrofe terza Sempre a te ripeto: «Próstrati all'altare di Giustizia. Né calpestarlo, per lucro che vegga, con piede sacrilego: ché pronta la pena t'aspetta, il destinato giorno. Dunque, rispetta chi luce ti diede; e se giunge al tuo tetto a rifugiarsi un ospite, abbi di lui rispetto». Strofe quarta Chi, non costretto, la giustizia pratica, mai non vivrà d'ogni fortuna privo, mai non cadrà nell'ultima rovina. Ma chi veleggia con opposti sensi, molte recando, e mal raccolte prede, dovrà col tempo, a forza, raccogliere le vele, allor che la procella piomberà sopra la spezzata antenna. Antistrofe quarta Soccorso invoca allor, nell'invincibile vortice chiuso, ma nessun l'ascolta; ché ride il Nume, allorché vede un empio senza piú millantar, senza piú forza, tra le iatture senza uscita, al culmine piú non regger del flutto. E l'antica fortuna, di giustizia allo scoglio, non pianta e non veduta, urta, e si fiacca. QUARTO EPISODIO Atèna (All'Araldo): Lancia l'appello, e frena, o araldo, il popolo. E la squillante búccina tirrena, sino al cielo, di vivo alito gonfia, l'acutissima voce alzi alla turba. (Si leva l'acutissimo squillo della tromba. Accorre tutto il popolo e riempie la scena) Atèna: Poi che già piena è l'assemblea, conviene che silenzio vi regni, e Atene e i giudici queste mie leggi, ch'io sancisco eterne, odano, ed equa le sentenza diano. (Si presenta Apollo) CORIFEA: Apollo re, nei tuoi dominî impera. Quale ufficio a te spetta in questa causa? APOLLO: Testimonio qui giungo e n'ho diritto: ché al tempio mio, che all'ara mia, già venne quest'uom supplice, ed io puro l'ho reso. E partecipe giungo: è mia la colpa del matricidio. Apri ora tu la causa, e giusta, come sai, dà la sentenza. Atèna: A voi parlare. Aperta è già la causa. Quegli che accusa, favellando primo, dirittamente i fatti ci esporrà. CORIFEA: Molte siam noi, ma parleremo brevi. E tu motto per motto a noi rispondi. Or di' prima se tua madre uccidesti. ORESTE: L'uccisi: mai non negherò lo scempio. CORIFEA: Una delle tre prove è vinta già. ORESTE: Non millantar: caduto ancor non sono. CORIFEA: Or devi dire come l'uccidesti. ORESTE: Stretta una spada, le tagliai la gola. CORIFEA: Istigato da chi? Chi vi t'indusse? ORESTE: Dai responsi di Febo. Ei lo conferma. CORIFEA: T'indusse Apollo a uccidere tua madre? ORESTE: Né della sorte mia fin qui mi lagno. CORIFEA: Altro presto dirai, se ti condannano. ORESTE: Non temo: il padre aiuta me dal tumulo. CORIFEA: Tu, matricida, hai fede nei defunti? ORESTE: Di due misfatti la coprian le macchie. CORIFEA: Di due misfatti? Spiega questo ai giudici. ORESTE: Mio padre uccise, e insiem lo sposo suo. CORIFEA: Ma tu sei vivo, e lei Morte fa libera. ORESTE: Perché, mentre vivea, non l'inseguisti? CORIFEA: Non era, l'uom che uccise, consanguineo. ORESTE: E consanguineo di mia madre io sono? CORIFEA: O tristo, il sangue ch'è piú tuo, repudî: di tua madre, che in grembo ha te cresciuto. ORESTE: Tu siimi teste, e tu dimostra, Apollo, se a buon diritto uccisi. Uccisa l'ho, non io lo nego. Ma se giusto fu, versare il sangue, o ingiusto, a tuo giudizio ora tu dimmi, ch'io lo dica a questi. APOLLO: Il giusto a voi favellerò, d'Atene giuría suprema. Io, che profeta sono, non mentirò. Dal mio trono fatidico, né di città, né d'uomo, né di femmina nulla io non dissi mai, che Giove Olimpio nol m'imponesse. Ed or, persuadetevi quanto fu l'atto di costui legittimo, ed al voler del padre mio chinatevi: ché piú di Giove nessun giuro vale. CORIFEA: T'esortò Giove, che ad Oreste dessi tal responso, tu dici? In nessun conto tener la madre, e vendicare il padre? APOLLO: Ugual cosa non è, morire un uomo nobile, che lo scettro ebbe da Giove, e per man d'una donna, e non di freccia saettata da lungi, d'una Amazzone, ma, come udrete, o Dea Pàllade, e giudici, che dar dovrete in questa causa il voto. Come dal campo egli tornò, compiuta felicemente la gran gesta, quella, con dolci motti accoltolo, mentr'egli scendea nel bagno, gli stese d'attorno un manto; e stretto nel funereo laccio di screzïato peplo, lo colpí. Del glorïoso eroe tal fu la sorte, del condottiere delle navi; ed anche vi parlai della donna: il cuore, io penso s'indignerà di voi, prescelti giudici. CORIFEA: Giove, tu dici, ha piú riguardo ai padri? Ed egli in lacci il vecchio Crono avvinse. Ché non esponi il fatto a questi giudici? A udirlo, o testimonî, io vi sollecito. APOLLO: Mostri a tutti esecrandi, odio dei Numi, si può sciogliere un laccio, esiston farmachi di questo male, ed assai vie di scampo. Ma poi che spento è un uomo, e n'ha la polvere bevuto il sangue, mai piú non risurge. Trovare incanto a ciò, non lo potrebbe il padre mio, che tutto ordina e tutto in cielo e in terra, senza ansimo, volge. CORIFEA: Vuoi che costui venga assoluto? Pensa! Versato il sangue ha della madre: come del padre, in Argo, abiterà la casa? A quali altari pubblici potrà far sacrifizî? Qual tribú vorrà partecipar con lui l'acqua lustrale? APOLLO: Anche questo dirò: se a dritto, intendilo! A quel che figlio noi diciam, la madre genitrice non è: bensí nutrice del nuovo germe: genitore è quegli che il germe espresse. Come ospite l'ospite, se non lo strugge un Nume, essa lo porta. E dei miei detti dar prova ti posso. Aver puoi padre senza madre: è presso a noi la figlia dell'Olimpio Giove, a farne prova, che non fu cresciuta entro l'oscuro viscere; ma quale Dea, generar saprebbe un tal rampollo? O Palla, ed io, per quanto posso, grande la tua città, la tua gente farò; e mandai questo alla tua casa supplice, che per sempre fedele egli ti fosse, ed alleato, o Diva, egli e i suoi posteri; e sacri ognora questi patti restino. Atèna: Bastino i detti. Or voi, giusto, sí come coscïenza vi spinge, il voto date. CORIFEA: Tutte scagliate abbiam le nostre freccie: della causa il giudizio ora attendiamo. APOLLO: Avete udito: nel dar voto, o giudici, il giuramento in cuor sacro vi sia. Atèna: Or la mia legge udite, Attiche genti, voi prime elette a giudicare questa causa di sangue. Al popolo d'Egeo anche i venturi dí, questo consesso darà sentenza, qui dove le Amazzoni posero campo e tende, allorché l'odio contro Teseo le spinse a guerra, ed esse, di fronte alla città, questa munirono di torri eccelsa rocca, ed immolarono vittime ad Are: onde la rupe ancora d'Arëopàgo ha nome. Esso il rispetto ed il timore ai cittadini in cuore indurrà, che non mai, né dí, né notte, vïolino giustizia, e che le leggi, d'Atene i cittadini mai non mutino: ché, se di fango e umor fradici, l'onda limpida inquini, ber piú non la puoi. Vita consiglio ai cittadini miei né senza freno, né servil: né lungi dalla città si scacci ogni timore: qual uom giusto sarà, se nulla teme? Voi temetelo dunque e rispettatelo: esso schermo dell'Attica sarà, e salute d'Atene; e alcun degli uomini il simile non ha, né fra gli Sciti, né di Pelope il suol: tale consesso, venerando severo incorruttibile della terra d'Atene propugnacolo, vigile su chi dorme, io stabilisco. Questo ammonisco ai cittadini miei che sia per l'avvenire. Adesso alzatevi, prendete i voti, ed ossequenti al giuro, equa sentenza pronunciate. Ho detto. CORIFEA: Ed io t'esorto che d'onor non frodi questa dura d'Atene ospite schiera. APOLLO: Di temere io t'impongo i miei responsi che son di Giove, e non li renda sterili. Eumènidi: D'omicidî t'impacci: a te non spetta: né l'oracolo tuo sarà piú sacro. APOLLO: Anche mio padre mal mi consigliò, che d'Issíone udí le prime preci? CORIFEA: Anche in Fere, per te, le Parche un giorno vita perenne diedero ai mortali. APOLLO: Giusto non è far bene a chi ti venera, massime allor ch'ei di soccorso indige? CORIFEA: Le antiche leggi da te son distrutte: le antiche Dee di loro epule privi. APOLLO: Presto, sconfitta nella causa, innocuo vomirai sui nemici il tuo veleno. CORIFEA: Tu cianci! Ove io la causa perda, infesta a questo suol sarà la torma nostra. APOLLO: Fra i Numi antichi, fra i novelli Numi, tu vai priva d'onore: io vincerò. CORIFEA: Giovine Iddio, tu me conculchi annosa: ma se infierire contro Atene io debba non so: che fine abbia la causa attendo. (Durante tutta questa discussione s'è compiuta la votazione. Atèna si approssima ultima a dare il voto) Atèna: È la mia volta: a me l'ultimo voto. In favore d'Oreste io lo darò. Madre non ho che generata m'abbia; e il costume virile, approvo, tranne che stringer nozze, con gran cuore, in tutto. Figlia son di mio padre: e a cuor la sorte mai d'una donna non avrò, che uccise lo sposo suo, custode della casa. Anche se i voti siano pari, Oreste vince la causa. O voi, giudici, cui l'ufficio spetta, rovesciate l'urne. ORESTE: O Febo Apollo, quale sarà l'esito? CORIFEA: Notte, mia negra madre, a noi riguarda! ORESTE: Questo è il punto: esser perso o veder luce! CORIFEA: E per noi, bando avere, o nuovi onori. Atèna: Attentamente computate i voti, ospiti: e lunge ogni ingiustizia vada. Un voto meno, e un gran cordoglio segue: un voto piú, risorge una progenie. (Intanto, si è fatto lo spoglio dei voti. Atèna lo verifica) Atèna: Assoluto quest'uomo è nella causa: ché ugual risulta il numero dei voti. ORESTE: O Palla, o tu che la mia stirpe hai salva, tu la mia casa rendi a me, che privo ero di patria. Ed or diranno gli Èlleni: «Un uomo d'Argo, le paterne mura abita ancora, pel favor di Pallade e di Febo e di quei che tutto domina, di Giove». Ei tutelò del padre mio la sorte, e volle me salvo, e neglesse queste, a vendetta di mia madre sorte. Ed ora, io parto, e alla mia casa torno, a questa terra e al popol tuo giurando che mai, pei mille e mille anni venturi uomo alcun che la mia terra governi qui condurrà guerresco ordin di lance. Ché io, dal fondo della tomba mia, chi questo giuro mio trasgredirà, colpirò con sciagura immedicabile, e ogni via di sgomento, ed ogni tramite gli sbarrerò di tristi augurî, ond'egli dovrà desister dall'impresa. E dove il mio giuro rispettino, ed a questa città d'Atene aiuto in guerra prestino, sarò benigno ai cittadini miei. A te salute e al popolo d'Atene. LAMENTAZIONE CORO: Strofe prima Ahi, nuovi Iddei, sotto i pie' calpestate le antiche leggi! Di man le mie prede voi mi strappate! Ma, spoglia d'onore, io sciagurata, nell'aspra mia doglia, stillerò lo sterminio sopra questo terreno, dal furore dell'anima sprizzando atro veleno. Da questo una serpigine che greggi strugga ed erba, su le zolle spargendosi, le letifere macchie la terra coprirà. Che ti faccio? Verso lagrime? Sarò con questi cittadini acerba? O della Notte misere figlie, nessuno, onor prestato v'ha. Atèna: Credete a me: non v'affliggete troppo. Vinte non foste: il numero dei voti fu pari: e spregio a te non vien. Ma v'erano segni ben chiari del voler di Giove; e quegli stesso che il responso diede, giunse a prestar la fede sua, che Oreste compier dovea lo scempio, e andare immune. Non vi crucciate dunque, e il fiero sdegno non infliggete a questo suolo, e sterile non lo rendete, non struggete i germi col morso edace dell'infeste bave. Ed io con certa fede a voi prometto che in questa terra di giustizia avrete riposte sedi, e onor dai cittadini, presso l'are sedendo, in troni fulgidi. CORO: Antistrofe prima Ahi, nuovi Iddei, sotto i pie' calpestate le antiche leggi! Di man le mie prede voi mi strappate! Ma, spoglia d'onore, io, sciagurata, nell'aspra mia doglia, stillerò lo sterminio sopra questo terreno, dal furore dell'anima sprizzando atro veleno. Da questo una serpigine che greggi strugga ed erba, su le zolle spargendosi, di letifere macchie la terra coprirà. Che faccio? Verso lagrime? Sarò con questi cittadini acerba? O della Notte misere figlie, nessuno, onor prestato v'ha. Atèna: Prive d'onor non siete, e non vi piaccia, per troppo d'ira, questo suolo rendere sterile, o Dive. Anch'io - dirlo che giova? - posso in Giove fidare: io sola so del ricetto le chiavi ove la folgore è sigillata. Ma per che, la folgore? Ben t'indurrai per le parole mie a non scagliare con impronta lingua su questa terra il maleficio, e tutti farne abortire i frutti. In cuor sopisci l'impeto amaro della negra furia, e delle cose e degli onor partecipe con me sarai: di questa terra grande offerte le primizie a te saranno per gli sponsali, e quando nascon pargoli: onde il consiglio mio loderai sempre. CORO: Strofe seconda Questo da me si tollera, da me vetusta Diva! E, ahimè, di questa terra, impunita la sozzura resta! Spirerò la mia furia, la mia collera. Ahimè, ahimè, sciagura, quale tortura penetra il fianco mio! O Madre notte, il mio furore ascolta. Gli onori a me dovuti, antica Diva, invincibile frode or me ne priva. Atèna: Le furie tue sopporterò: ché annosa piú sei di me: piú accorta anche tu sei: ma senno acuto Giove anche a me diede. Se ad altre terre, ad altre genti andrete, brama vi pungerà, ve lo predíco, di questo suol: ché ai cittadini miei maggior gloria addurranno i dí venturi. E tu, vivendo in onorata sede, d'Erettèo presso la dimora, offerte avrai da turbe d'uomini e di femmine, quali niun altra gente a te farebbe. E su la terra mia tu non gittare i sanguinei pungigli, onde si struggono i cuori giovanili in una furia d'ebbrezza senza vino; e non accendere come galli pugnaci i cittadini, non annidarvi la guerra civile, la promiscua strage. E non s'appressi, resti la guerra oltre le porte, ed ivi terribile di gloria amore avvampi. Queste le offerte ch'io ti faccio. Beni largire e averne, onori aver, partecipe di questo sacro suol diletto ai Numi. CORO: Antistrofe seconda Questo da me si tollera, da me, vetusta Diva! E, ahimè, di questa terra, impunita la sozzura resta! Spirerò la mia furia, la mia collera. Ahimè, ahimè, sciagura, quale tortura pènetra il fianco mio! O madre Notte, il mio furore ascolta. Gli onori a me dovuti, antica Diva, invincibile frode or me ne priva. Atèna: Mai stanca mi farà parlarti il bene: dir non potrai che tu, vetusta Diva, spregiata da me giovine, e dal mio popolo, vai da questo suolo in bando. Ma, se pur tu la Dea Suada veneri, che dal mio labbro col suo miel ti molce, resta fra noi. Ché se restar non vuoi, giusto non è che l'ira tua su Atene piombi, né il danno od il furor sul popolo: ch'esser tu puoi di questo suol partecipe direttamente, e onore aver perenne. CORIFEA: Qual sede, o Atèna, dici tu che avrei? Atèna: D'ogni cordoglio immune: or dunque accettala. CORIFEA: L'accetterò. Ma quali onor' mi serbi? Atèna: Che senza te nessuna casa prosperi. CORIFEA: Questo farai? Che tal potere io m'abbia? Atèna: La fortuna daremo a chi te veneri. CORIFEA: Per sempre? E te ne fai mallevadrice? Atèna: Cosa non posso dir ch'io non la compia. CORIFEA: Molcir mi sento, e il furor mio depongo! Atèna: Qui rimanendo, amici acquisterai! CORIFEA: Quali inni vuoi per questo suol ch'io levi? Atèna: Tali che araldi sian di fausta sorte! Dalla terra essa giunga, e dalla rorida acqua del mar, dal cielo: e spirino aliti di venti su la terra, e il sole sfolgori. E che le zolle il frutto e de le greggi rigogli e abbondi; e non la fiacchi il tempo; e la progenie dei mortali, prosperi. E si disperda dei malvagi il germe: ch'io, come saggio agricoltore, illese le progenie dei giusti sol desidero. Queste saranno le tue cure. Ed io questa città vittrice, ognor fra gli uomini chiara farò nelle guerresche prove. ULTIMO CANTO INTORNO ALL'ARA CORO: Strofe prima Mi sarà grato vivere con Pallade; né la città dispregio cui Giove ed il gagliardo Marte, dei Numi asil vollero, e fregio, e all'are baluardo di tutti i Numi Ellèni. Per essa, con fatidici benigni augurî imploro che della vita i beni faccia il sol coi suoi vampi impetuosi germinar dai campi. Atèna: Lieta sono che ai miei cittadini tanto ben procacciai: che qui restino queste Dive possenti e implacabili. Tutte quante le sorti fra gli uomini spetta ad esse partir. Chi non mai s'imbatté ne le Dive terribili, della vita gli strazî non sa. I delitti che gli avi compierono te lo spingono contro; e Rovina, senza voce, mentre alto tu gridi, con infesto furore ti stermina. CORO: Antistrofe prima Che mai non soffi aura nociva agli alberi sarà vigil mia cura, né a questo suol s'appressi, le nuove gemme a struggere, l'arsura, né a far vane le messi feral morbo serpeggi, anzi, con parti duplici allegri a tempo debito Pan le floride greggi; e le genti felici lodino ognor dei Numi i benefici. Atèna: O d'Atèna presidio, o voi giudici, questi voti ora udite? Ben grande presso i Dèmoni inferni è la possa de l'Erinni; e palese è fra gli uomini ciò che valgano: a questi concedono gioie e canti: di lagrime a quelli fosca e torbida rendon la vita CORO: Strofe seconda E depreco le sorti d'intempestive morti. O Dive, che degli uomini leggete il fato, o Moire, a quest'amabile gioventú date la vita propizia, o Dive nostre suore, Dive della Giustizia, d'ogni casa partecipi, vigili a tutte l'ore, o severa adunanza che sopra ogni altro Iddio godi onoranza! Atèna: Bene io godo che a questa mia terra tali augurî si facciano, e venero il tuo volto, Suada, che il labbro, che la voce m'ornasti; e m'opposi di costoro al selvaggio rifiuto. Or trionfo ebbe Giove, cui grata è facondia: trionfo la causa di Giustizia ebbe in tutto per me. CORO: Antistrofe seconda Né mai su questa terra frema civile guerra, che mai di mali è sazia. Né d'atro sangue cittadin s'abbeveri la polvere, onde poi furia nemica sitisca nuova strage a vendicar l'antica. Ma li stringa d'unanimi affetti una compage, d'unanimi odî: ai mali farmaco sommo è questo pei mortali. Atèna: Chi ben pensa, di sagge parole trova dunque la via! Grandi beni io da queste terribili forme qui prevedo alla nostra città. E se voi queste Dive benevole con benevolo cuore onoriate, sempre insigni ne andrete, reggendo con giustizia la patria ed Atène. CORO: Strofe terza Genti d'Atene, salvete, salvete! Fluisca abbondanza sovra te, popol, ch'ài stanza presso a Giove, e della vergine sua figliuola sei delizia! Saggio ognor tu sii: di Pàllade fanno l'ale a te riparo. e per ciò Giove t'ha caro. Atèna: E salute anche a voi. Debbo ai talami, or, movendo io la prima, guidarvi, alla luce del sacro corteo. Avanzate al bagliore di queste sacre fiaccole, e, giunte sotterra, trattenete nel suolo ogni germe di sfacelo, e crescete i proficui pel trionfo di nostra città. E voi tutti, o rampolli di Crànao, siate guida a queste ospiti, e sempre bei pensieri a begli atti vi spronino. CORO: Antistrofe terza Anche una volta - raddoppio gli augurî - salvete, salvete!, tutti voi che sede avete in Atene, uomini e Dèmoni, nella rocca sacra a Pàllade. Da voi lungi, sin che ospite voi m'avrete in queste mura, sarà sempre ogni sciagura. Atèna: Di questi voti io godo, ed al fulgore v'invierò di scintillanti fiaccole sottesso il suolo, in sotterranei lochi, e le ministre mie guida vi siano che santamente l'idol mio tutelano. Compagna avrete un'onorata schiera, del suolo di Teseo viva pupilla, di fanciulle, di donne e di vegliarde, tutte velate di purpurei manti. Movete! E il fuoco ed il baglior proceda, sí che felice questa patria schiera sempre per fausta sorte insigne vada. (Formano un corteo le ministre di Atèna, poi le Eumènidi, poi le fanciulle, le donne e le vecchie d'Atene, poi tutto il popolo. Una schiera di cittadini, durante la sfilata, canta l'inno seguente) SCHIERA DI CITTADINI: Strofe prima O de la Notte possenti onorate figliuole intatte, a la vostra dimora movete, seguite dal sacro corteo. E voi, cittadini, acclamate! (Alto applauso del popolo) Antistrofe prima Entro gli spechi segreti dei secoli prischi movete: qui vittime solenni, qui onori avrete: ed arrida Fortuna. E voi, cittadini, acclamate! (Alto applauso del popolo) Strofe seconda A questa terra benevole e ai Lari, qui, venerande, movete; e v'allegrino lungo la strada, brillando, le fiaccole! Sposate ai canti grida alte di giubilo! (Il popolo leva alte grida di gioia) Antistrofe seconda Di libagioni penuria non abbiano i cittadini di Pallade. Vigile a tutto Giove, e la Parca, acconsentono. Sposate ai canti grida alte di giubilo! (Con le ultime note dell'inno, tutti i personaggi sono usciti dalla scena e dall'orchestra)