Marco Tullio Cicerone De Officiis LIBRO I È vero che tu, o figlio Marco, già da un anno scolaro di Cratippo, ed in Atene, devi essere di gran lunga fornito di precetti a principi filosofici per la grande rinomanza del maestro a della città, 1'uno dei quali ti può arricchire col suo sapere, 1'altra con i suoi esempi. Tuttavia, come io congiunsi sempre per mio profitto le lettere latine alle greche, non solo nello studio della filosofia, ma anche nell'esercizio dell'eloquenza, così penso che lo debba fare la stessa cosa, per essere ugualmente esperto nell'uso dell'una a dell'altra lingua. Nel che penso di avere arrecato grande giovamento ai nostri connazionali, così che non solo gli inesperti del greco, ma anche gli esperti ritengono d'avere conseguito un qualche profitto nel parlare a nel pensare. 2 Tu apprenderai dunque dal principe dei filosofi contemporanei, e apprenderai fintanto che vorrai; e dovrai volerlo fintanto che non sarai scontento del tuo profitto; ma tuttavia, leggendo le cose mie, che non discordano gran che dai Peripatetici, giacché gli uni e gli altri vogliamo essere Socraticí e Platonici, tu, quanto alle dottrine, userai liberamente del tuo giudizio (io non voglio impedirtelo affatto), ma, leggendo le cose mie, renderai certamente più forte e più ricco il tuo stile latino. E non vorrei che questa mia affermazione ti suonasse arrogante. Pur concedendo a molti la scienza del filosofare, se io rivendico a me ciò che è proprio dell'oratore, cioè il parlare con proprietà, con chiarezza, con eleganza, credo di poterlo fare in certo qual modo con pieno diritto, giacché, in quello studio, io ho consumato tutta la mia vita. 3 Perciò, mio Cicerone, ti esorto vivamente a leggere con attenzione non solo le mie orazioni, ma anche questi libri di filosofia, che quasi a quelle sono pari per numero: in quelle v'è maggior vigore oratorio, ma deve essere anche coltivato questo modo di parlare uniforme a temperato. E mi sembra che a nessuno dei Greci sia finora riuscito di ottenere buon successo nell'uno e nell'altro genere, coltivando il genere forense a la discussione piana; a meno che non mettiamo in questo numero Demetrio Falereo, ragionatore sottile, oratore di poco nerbo, garbato tuttavia, così che puoi riconoscere in lui il discepolo di Teofrasto5. Altri giudichi quali progressi io abbia fatto nell'uno a nell'altro genere: ma li ho coltivati entrambi. 4 Per parte mia, io credo che Platone, se avesse voluto trattare il genere forense, sarebbe diventato un potentissimo ed eloquentissimo oratore, e che Demostene se avesse ritenuto le dottrine apprese da Platone, e avesse voluto esporle, l'avrebbe fatto con molta eleganza e splendore; e lo stesso giudizio io faccio di Aristotele e di Isocrate; se non che l'uno e l'altro, innamorato della propria disciplina, tenne in poco conto quella dell'altro. Avendo ora deliberato di scrivere per lo alcune cose, e 2 molte altre in seguito, ho voluto innanzi tutto cominciare da ciò che fosse maggiormente conveniente alla tua età ed alla mia autorità. Sebbene infatti molte siano le questioni filosofiche importanti ed utili accuratamente ed ampiamente discusse dai filosofi, credo che abbiano grandissima estensione i precetti tramandati da quelli intorno ai doveri. Nessuna azione della nostra vita, si tratti di atti pubblici a privati, forensi a domestici, di rapporti con noi stessi a con altri, è esente dal dovere; anzi nell'osservanza a nella trascuratezza di questo si pone tutta 1'onorevolezza a la infamia della vita. 5 Anzi, come nell'adempimento del dovere consiste tutta l'onestà della vita, cosi nell'inosservanza di che ardisca chiamarsi filosofo, senza dare alcun precetto d'ordine morale? Ma ci sono alcune scuole che, con la loro definizione del sommo bene e del sommo male, sovvertono ogni moralità. Chi definisce il sommo bene come affatto disgiunto dalla virtù, e lo misura non col criterio dell'onestà, ma con quello del proprio vantaggio, costui, se vuol esser coerente a se stesso, e non è vinto talora dalla bontà della propria indole, non potrà coltivare né l'amicizia, né la giustizia, né la liberalità: certo non può essere in alcun modo forte, giudicando sommo male il dolore, né temperante, ponendo come sommo bene il piacere. 6 Le quali cose altrove ho trattato, sebbene esse siano chiare a non abbiano bisogno d'essere discusse.Queste filosofie dunque, se vogliono essere coerenti a se stesse, non ragionino intorno al dovere; sul quale non si possono dare precetti saldi, stabili, conformi alla natura, se non da quelli che dicono che solo ciò che è moralmente onorevole deve essere ricercato, per se stesso a sopra ogni altra cosa. Agli stoici, agli accademici, ai peripatetici spetta di diritto il dare precetti sui doveri, poiché già da tempo è stata confutata 1'opinione di Aristone, di Pirrone a di Erillo. Anche questi tuttavia avrebbero diritto di parlare sui doveri, se avessero mantenuto un qualche criterio di scelta fra le cose che lasciasse adito a determinare 1'idea del dovere. Seguirò dunque in questa circostanza ed in questo argomento soprattutto gli stoici, non come espositore, ma attingerò, come sono solito, alle loro fonti, liberamente quanto a come riterrò opportuno. 7 Ora, poiché tutto il mio ragionamento si aggirerà intorno al dovere, mi piace definir prima l'essenza del dovere; e mi meraviglio che Panezio abbia trascurato questo punto. Ogni trattazione, infatti, che s'imprenda metodicamente su qualche argomento, deve partire dalla definizione, perché ben si comprenda qual è l'oggetto di cui si discute. La dottrina del dovere abbraccia due punti: uno riguarda teoricamente il sommo bene, 1'altro i precetti, con i quali si può regolare praticamente la vita. Appartengono al primo queste questioni: se vi sono doveri assoluti, se ve ne sono più importanti di altri, ed altre questioni del medesimo genere. Sebbene questi doveri, dei quali si danno precetti, riguardino anch'essi il sommo bene, tuttavia ciò non appare chiaro, perché sembra the essi abbiano attinenza piuttosto alla condotta pratica della vita: a di questo secondo punto io tratterò in questi libri. 8 Ma c'è anche un'altra divisione del dovere. C'è infatti il cosi detto dovere mezzano o comune e c'è quello che si chiama assoluto. Il dovere assoluto possiamo anche chiamarlo, se non erro, perfetto, poiché i Greci lo chiamano Katorthoma, mentre chiamano Kathekon il dovere comune. E dei due doveri danno questa definizione: definiscono 3 dovere assoluto l'assoluta rettitudine, mentre chiamano dovere mezzano quello del cui adempimento si può dare una plausibile ragione. 9 Tre dunque, secondo Panezio, sono i casi che si presentano, quando si deve prendere una deliberazione. Riflettere cioè se sia onorevole o turpe a farsi ciò che è argomento di deliberazione: nella quale considerazione spesso gli animi ondeggiano in opposti pensieri. Ricercare poi ed esaminare se 1'argomento preso in considerazione possa arrecare o no le comodità a le giocondità della vita, gli averi, il benessere, il credito a il potere, con i quali portiamo giovamento a noi stessi ed ai nostri; la quale deliberazione rientra nel campo dell'utile. Si è infine incerti nel deliberare, quando ciò the sembra utile contrasta con ciò che è moralmente onorevole: mentre infatti 1'utilità ci trascina verso di sé a 1'onestà anche ci chiama a sé, avviene che il nostro animo vacilli nel prendere una decisione a rimanga perplesso fra opposti pensieri. 10 Ora, questa divisione, benché sia gravissimo difetto trascurar qualche cosa nel dividere un argomento, trascura ben due elementi. Giacché non si suol già deliberare soltanto se un partito sia onesto o disonesto, ma anche, postici innanzi due partiti onesti, quale dei due sia più onesto; e, allo stesso modo, postici innanzi due partiti utili, quale dei due sia più utile. Si trova cosi che quella materia, che Panezio reputò triplice, deve invece distribuirsi in cinque parti. Prima di tutto, adunque, si dovrà ragionare dell'onestà, ma sotto due aspetti; poi, con lo stesso metodo, dell'utile; infine si dovranno confrontare tra loro questi due principi. 11 Anzitutto a tutti gli esseri viventi la natura ha dato l'istinto di conservare se stessi, la vita ed il corpo, di evitare tutto ciò che può nuocere, a di ricercare a procacciare le cose necessarie al sostentamento della vita, come il cibo, il ricovero ed altre cose dello stesso genere. Ugualmente comune a tutti è l'istinto di procreare a la cura della prole. Ma fra 1'uomo a la bestia v'è grandissima differenza. La bestia, solo in quanto è stimolata dal senso, conforma le sue attitudini a ciò che è vicino a presente, poco affatto curandosi del passato o del futuro. L'uomo invece, poiché è dotato di ragione a per mezzo di quella è in grado di cogliere le concatenazioni, vede le cause delle cose, non ne ignora i prodromi a per così dire gli antecedenti, confronta le cose simili a congiunge intimamente le cose future alle presenti, può facilmente vedere tutto il corso della vita a preparare le cose necessarie per viverla. 12 Oltre a ciò la natura, con la forza della ragione, concilia l'uomo all'uomo in comunione di linguaggio e di vita; soprattutto genera in lui un singolare e meraviglioso amore per le proprie creature; spinge la sua volontà a creare e a godere associazioni e consorzi umani, e sollecita il suo ardore a procacciarsi tutto ciò che occorre al sostentamento e all'affinamento della vita, non solo per sé, ma anche per la moglie, per i figli e per tutti gli altri a cui porta affetto e a cui deve protezione. Ed è appunto questa sollecitudine che rinfranca pur lo spirito e lo fa più forte e più pronto all'azione. 13 Ed è soprattutto propria dell'uomo la diligente ricerca del vero. Tanto che, non appena siamo liberi da faccende ed occupazioni, allora desideriamo vedere, ascoltare, conoscere cose nuove e, per condurre una vita piena di soddisfazioni, riteniamo necessaria anche la conoscenza dei fatti segreti a delle meraviglie della natura. Da ciò si comprende che ciò che è vero, semplice a sincero, è soprattutto conveniente alla natura dell'uomo. Una certa brama di preminenza è congiunta al desiderio di conoscere il vero, in modo che un animo ben nato a nessuno vuole essere soggetto, se non a chi dà precetti, a chi insegna, e a chi nell'interesse comune è investito di giusta e legittima autorità; dal che nasce la grandezza d'animo e il disprezzo delle cose umane. 14 E non è davvero piccolo privilegio della ragionevole natura umana il fatto che l'uomo, unico fra tutti gli esseri viventi, sente quale sia il valore dell'ordine, della decenza e della misura negli atti e nei detti. Ecco perché, perfino in quelle cose che cadono sotto il senso della vista, nessun altro animale sente la bellezza, la grazia, l'armonia; solo la ragionevole natura dell'uomo, trasferendo per analogia questo sentimento dagli occhi allo spirito, pensa che a maggior ragione la bellezza, la costanza e l'ordine si abbiano a conservare nei disegni e nelle azioni; e mentre essa si guarda dal commettere cosa contraria al decoro e alla dignità dell'uomo, anche si studia, in ogni pensiero e in ogni azione, di non fare e di non pensare nulla obbedendo al capriccio. Ora, dall'intrinseca unione di questi quattro elementi sorge quello che andiamo cercando, cioè l'onesto, il quale, anche se non gode di molta fama tra gli uomini, non cessa pertanto d'esser onesto; e anche se nessuno lo loda, noi diciamo con verità che esso, per sua propria virtù, è ben degno di lode. 15 Tu vedi appunto, o figlio Marco, la immagine a quasi il vero sembiante dell'onesto, il quale, come dice Platone, se si potesse vedere con gli occhi, susciterebbe un ardente amore del sapere. Ma tutto 1'onesto nasce da una di queste quattro fonti: o si trova infatti nella diligente ricerca del vero; o nel proteggere la società umana, nel dare a ciascuno il suo a nell'attenersi agli impegni assunti; o nella grandezza a fortezza di un animo sublime ed invitto; o nell'ordine a nella misura di tutte le cose che si fanno a si dicono, nella moderazione quindi a nella temperanza. Queste quattro parti sono collegate fra di loro e sono unite l’una all'altra. Ma da ciascuna di esse si originano determinate categorie di doveri: così la ricerca a la conoscenza del vero è propriamente ufficio di quella parte, che nella nostra divisione abbiamo trattata per prima, e nella quale facciamo consistere la sapienza a 1'accortezza. 16 Difatti, chi più si addentra con gli occhi della mente nella segreta verità delle cose; chi con più acume e con più prontezza può non solo penetrarne, ma anche spiegarne le intime ragioni, questi di solito e giustamente tenuto per più prudente e per più sapiente. Costui perciò ha in suo potere la verità, quasi come materia ch'egli debba trattare e foggiare col suo lavoro. 17 Le altre tre virtù si propongono di provvedere a conservare le cose che riguardano la vita pratica, affinché si tuteli il vincolo della umana società, a risplenda la sublimità a la grandezza dell'animo nell'accrescimento delle ricchezze a dei vantaggi a per noi stessi a per i nostri, a molto più nel disprezzo di tali cose. Ugualmente l'ordine, la 4 costanza a la moderazione ed altre simili virtù sono tali, che richiedono azione pratica a non soltanto attività della mente. Usando infatti una certa misura ed ordine nella condotta della vita conserveremo 1'onestà ed il decoro. 18 Delle quattro parti, nelle quali abbiamo suddiviso la natura a 1'essenza dell'onesto, la prima, che consiste nella cognizione del vero, è quella che più da presso riguarda la natura umana. Tutti infatti siamo tratti a guidati dal desiderio di conoscere a di sapere, nel che riteniamo sia bello eccellere sugli altri; giudichiamo invece turpe e vergognoso parlare a sproposito, errare, ignorare ed illudersi. Ma in questo naturale ed onorevole desiderio bisogna evitare due difetti: uno, di credere di sapere quello che non sappiamo a di accettarlo alla leggera: chi vorrà evitare questo errore (e tutti debbono volerlo) dovrà usare tempo a diligenza nel considerare le cose. 19 Un altro difetto è che taluni pongono troppo studio e troppa fatica in cose oscure e astruse, e, per giunta, non necessarie. Scansati questi due difetti, tutto lo sforzo e tutta la cura che si porrà in questioni oneste e proficue, avrà giusta e meritata lode: così fece, per esempio, nell'astronomia come ho sentito raccontare Gaio Sulpicio; nella matematica come so di mia scienza Sesto Pompeo; e così fecero molti nella dialettica, più altri ancora nel diritto civile: discipline tutte che hanno per oggetto la ricerca del vero. Ma se l'ardore di questa ricerca ci distoglie dai pubblici affari, noi manchiamo al nostro dovere: tutto il pregio della virtù consiste nell'azione. Un azione tuttavia ci consente spesso qualche svago, e molte occasioni ci si offrono per tornare ai nostri studi; inoltre, l'attività della mente, che non conosce riposo, vale di per sé a trattenerci nelle indagini speculative, anche senza nostro deliberato proposito. Ma ogni atto della mente, ogni moto dell'animo deve avere per oggetto, o le sagge e oneste deliberazioni che conferiscono alla moralità e felicità della vita, o gli studi scientifici e speculativi. E così ho parlato della prima fonte del dovere. 20 Delle altre tre quella che opera più estesamente riguarda 1'umana società a quasi il consorzio sociale. Due sono le sue parti: la giustizia, nella quale massimamente risplende la virtù, per cui gli uomini sono chiamati buoni ed a cui è congiunta la beneficenza, che possiamo anche chiamare generosità a liberalità. Primo dovere della giustizia è di non offendere alcuno, se non si è provocati da ingiuria; poi di usare delle cose comuni come comuni e delle cose private come proprie. 21 Beni privati, poi, non esistono per natura, ma tali diventano, o per antica occupazione, come nel caso di coloro che un tempo vennero a stabilirsi in luoghi disabitati, o per diritto di conquista, come nel caso di coloro che s'impadronirono di un territorio per forza d'armi, o infine per legge, per convenzione, per contratto, per sorteggio. Per questo noi diciamo che il paese d'Arpino è degli Arpinati, e quel di Tuscolo, dei Tusculani; e allo stesso modo avviene la ripartizione dei possessi privati. Ora, poiché diventa proprietà individuale di ciascuno una parte dei beni naturalmente comuni, quella parte che a ciascuno toccò in sorte, ciascuno tenga per sua; e se qualcuno vi stenderà la mano per impadronirsene, violerà la legge della convivenza umana. 22 Ma egregiamente Platone ha scritto che noi non siamo nati soltanto per noi soli, ma che della nostra esistenza una parte richiede la patria, una parte gli amici; ed egregiamente ritengono gli stoici che i prodotti della terra sono stati tutti creati ad uso degli uomini, a questi sono stati generati per gli uomini, perché possano giovarsi 1'un 1'altro. Dobbiamo seguire come guida la natura, mettere a beneficio comune ciò che è utile a tutti con lo scambio dei servigi, col dare a col ricevere, stringere fra gli uomini i legami sociali con i prodotti delle arti, la nostra attività e le nostre risorse. 23 Fondamento poi della giustizia è la fede, cioè la scrupolosa e sincera osservanza delle promesse e dei patti. Perciò, ma forse la cosa parrà a taluni alquanto forzata, oserei imitare gli Stoici, che cercano con tanto zelo l'etimologia delle parole, e vorrei credere che fides (fede) sia stata chiamata così perché fit (si fa) quel che è stato promesso. Vi sono, poi, due maniere d'ingiustizia: l'una è di quelli che fanno ingiuria; l'altra, di quelli che, pur potendo, non la respingono da coloro che la patiscono. Invero, colui che, spinto dall'ira o da qualche altra passione, assale ingiustamente qualcuno, fa come chi mette le mani addosso a un suo compagno; ma chi, pur potendo, non ributta e non contrasta l'ingiuria, non è meno colpevole di chi abbandonasse senza difesa i suoi genitori, i suoi amici, la sua patria. 24 Ed è ben vero che quelle ingiurie che si fanno per deliberato proposito di nuocere, hanno spesso origine dalla paura, quando, cioè, colui che medita di recare danno a un altro, teme che, non facendo così, abbia a subire lui qualche malanno. Ma la maggior parte degli uomini si accinge a fare ingiuria per conquistare ciò che l'infiamma di desiderio. E in questa colpa ha grandissima parte l'avidità del denaro. 25 Le ricchezze si desiderano per le necessità della vita e per godere i piaceri. Ma quelli il cui animo mira a grandi cose, le desiderano per divenire potenti ed acquistare popolarità tramite le elargizioni. Marco Crasso diceva che non è abbastanza ricco colui che, volendo primeggiare nello Stato, non può mantenere un esercito a sue spese. Piacciono anche il lusso a le raffinatezze della vita elegante ed agiata: da cui si origina un insaziabile desiderio di denaro. In verità non è da riprovare l'accrescimento del patrimonio familiare, quando non si nuoce ad alcuno; ma si deve sempre evitare di commettere ingiustizia. 26 Ma i più perdono ogni senso e ogni ricordo della giustizia, quando incappano nel desiderio dei comandi, degli onori e della gloria. Certo, quella sentenza di Ennio: “La brama del regno non conosce né santità di affetti né integrità di fede”, ha un suo ben più vasto dominio. In verità, ogni stato e ogni grado che non ammetta supremazia di più persone, diventa per lo più il campo di così aspre contese che è assai difficile osservare “la santità degli affetti”. Chiara dimostrazione ne ha dato di recente il temerario ardire di Gaio Cesare, che sovverti tutte le leggi divine e umane per quel folle ideale di supremazia che egli s'era foggiato nella mente. E a questo riguardo è assai penoso vedere che sono gli animi più grandi e gl'ingegni più splendidi quelli in cui per lo più si accendono desideri d'onore, di comando, di potenza e di gloria. Tanto maggior cautela bisogna dunque usare per non commettere errori a questo riguardo. 27 Ma in ogni ingiustizia è molto importante considerare se 1'ingiuria nasce da un qualche turbamento dell'animo, che per lo più è breve a passeggero, o è a bella posta premeditata. Più Nevi sono infatti le offese causate da un improvviso eccitamento, di quelle studiate e meditate. Ma sul fare offesa ho già detto abbastanza. 28 Diversi sono poi i motivi per cui si tralascia la difesa e si manca al proprio dovere. C'è infatti chi non vuole attirarsi inimicizie a sobbarcarsi a fatiche ed a spese; oppure chi è impedito dalla trascuratezza, pigrizia ed indolenza, così da sopportare che siano abbandonati quelli che dovrebbe aiutare. Non può quindi soddisfare quanto dice Platone a proposito dei filosofi, che sono giusti in quanto si occupano della ricerca del vero a disprezzano e per nulla stimano quelle cose che i più desiderano ardentemente, disputandosele con accanimento. Mentre infatti adempiono il primo dovere della giustizia, col non fare male ad alcuno, trascurano 1'altro: attirati infatti dall'amore della ricerca, non curano quelli che dovrebbero proteggere. Del resto Platone pensa che essi non dovrebbero neppure accedere alle cariche dello Stato, se non costretti. Sarebbe più giusto che ciò si facesse spontaneamente: poiché ciò che si fa rettamente, allora è giusto, quando è volontario. 29 Vi sono anche di quelli che, o per desiderio di ben custodire le proprie sostanze, o per una tal quale avversione contro gli uomini, dichiarano di attendere soltanto ai loro affari, senza credere perciò di far torto ad alcuno. Costoro, se sono esenti da una specie d'ingiustizia, incorrono però nell'altra; disertano l'umana società, perché non conferiscono ad essa né amore, né attività, né denaro. 30 È vero che Cremete, personaggio di Terenzio, “non ritiene estraneo a sé niente di quanto è umano”; ma poiché comprendiamo a sentiamo le fortune a le sventure che capitano a noi più di quelle che capitano agli altri, a consideriamo le cose altrui da una grande distanza, noi giudichiamo diversamente su noi a sugli altri. Perciò insegnano bene quelli che sconsigliano di intraprendere una azione, quando non si sa se sia giusta o ingiusta. La giustizia infatti riluce per se stessa; il dubbio lascia trapelare 1'ingiustizia. 31 Ma vi sono determinate circostanze in cui le cose che sembrano soprattutto degne di un uomo giusto, di un uomo saggio, si mutano a diventano anzi l'opposto; come restituire un deposito o adempiere una promessa a ciò che attiene alla verità a alla buona fede: talvolta è giusto trasgredirle a non darsene pensiero. Bisogna infatti sempre attenersi a quelle massime fondamentali della giustizia che ho prima stabilito: non nuocere ad alcuno, a contribuire all'utilità comune. Cambiando le circostanze, cambiano i doveri che non possono essere sempre gli stessi. 32 Può darsi infatti che qualche promessa o convenzione sia di tal natura che il mandarla ad effetto rechi danno, o a chi è stata fatta o a chi l'ha fatta. In verità, se Nettuno, come raccontano le favole, non avesse mantenuto la promessa fatta a Teseo, Teseo non avrebbe perduto il figlio Ippolito. Di quelle tre grazie che il dio, come si narra, gli aveva promesse, gliene restava a chiedere una, la terza, ed ecco che, accecato dall'ira, chiese la morte d'Ippolito: ottenuta la grazia, egli piombò nei più atroci dolori. Dunque non si debbono mantenere quelle promesse che son dannose alle persone a cui son fatte; e se quelle promesse recano maggior danno a chi le ha fatte che vantaggio a chi le ha ricevute, non è contrario al dovere anteporre il più al meno. Così, per esempio, se tu avevi promesso a qualcuno di recarti in tribunale per assisterlo in giudizio, e nel frattempo un tuo figliolo fosse caduto gravemente malato, non sarebbe contrario al dovere non mantenere la parola, anzi mancherebbe ben di più l'altro al dover suo, se si lamentasse d'abbandono. Inoltre, chi non vede che non si deve stare a quelle promesse che si son fatte o costretti da paura o tratti in inganno? E appunto la maggior parte di queste obbligazioni è annullata dal diritto pretorio; alcune di esse anche dalle leggi. 33 Vi sono poi ingiustizie che traggono origine da una certa cavillosità a da una troppo sottile, ma maliziosa, interpretazione delle leggi. Di qui quel proverbio sulla bocca di tutti: giustizia ferrea, ingiustizia somma. Sotto questo aspetto si commettono ingiustizie anche nella vita politica; come colui che, avendo patteggiato col nemico una tregua di trenta giorni, saccheggiava di notte le campagne, perché la tregua era stata pattuita per il giorno e non per la notte. Né deve essere elogiato quel nostro concittadino, Quinto Fabio Labeone, se la cosa è vera, o qualche altro (ne parlo solo per averlo sentito), nominato dal Senato arbitro per i Nolani a Napoletani sulla controversia dei confini. Giunto sul luogo, parlò separatamente con gli uni a con gli altri, perché non si comportassero da avidi a preferissero piuttosto retrocedere che avanzare. Avendo questo fatto gli uni a gli altri, restò nel mezzo un pezzo di terreno. E così egli fissò i loro confini come essi avevano detto; a aggiudicò al popolo romano lo spazio rimasto in mezzo. Ma questo è ingannare, non giudicare. In ogni atto, quindi, bisogna evitare tale sottigliezza. Devono essere rispettati certi doveri anche verso coloro che ci abbiano offesi. V'é infatti una misura nella vendetta a nel castigo: direi anzi che debba bastare che 1'offensore si penta d'avere agito male, perché egli stesso non faccia più la stessa cosa a gli altri siano meno pronti all'ingiustizia. 34. Ma quando si tratta degli interessi dello Stato bisogna scrupolosamente rispettare le leggi di guerra. Poiché due sono i modi di combattere, 1'uno per via di discussione, 1'altro con la forza, ed il primo è proprio dell'uomo, il secondo delle bestie; bisogna ricorrere a questo se non è possibile usare il primo. 35 Si devono perciò intraprendere le guerre al solo scopo di vivere in sicura e tranquilla pace; ma, conseguita la vittoria, si devono risparmiare coloro che, durante la guerra, non furono né crudeli né spietati. Cosi, i nostri padri concessero perfino la cittadinanza ai Tusculani, agli Equi, ai Volsci, ai Sabini, agli Ernici; ma distrussero dalle fondamenta Cartagine e Numanzia; non avrei voluto la distruzione di Corinto; ma forse essi ebbero le loro buone ragioni, soprattutto la felice posizione del luogo, temendo che appunto il luogo fosse, o prima o poi, occasione e stimolo a nuove guerre. A mio parere, bisogna procurare sempre una pace che non nasconda insidie. E se in ciò mi si fosse dato ascolto, noi avremmo, se non un ottimo Stato, almeno uno Stato, mentre ora non ne abbiamo nessuno. E se bisogna provvedere a quei popoli che sono stati pienamente sconfitti, tanto più si devono accogliere e proteggere quelli che, deposte le armi, ricorreranno alla fede dei capitani, anche se l'ariete abbia già percosso le loro mura. E a questo riguardo 6 i Romani furono cosi rigidi osservatori della giustizia che quegli stessi capitani che avevano accolto sotto la loro protezione città o nazioni da loro sconfitte, ne divenivano poi patroni, secondo il costume dei nostri maggiori. 36 La giustizia poi della guerra è stata religiosamente prescritta dal diritto feziale del popolo romano. Ne deriva quindi che nessuna guerra è giusta se non quella che si intraprenda dopo regolare domanda di soddisfazione a sia stata prima minacciata a dichiarata.Il generale Popilio occupava una provincia a nel suo esercito militava il figlio di Catone. Avendo Popilio giudicato opportuno di congedare una legione, congedò anche il figlio di Catone che militava in quella. E poiché egli, per desiderio di combattere, era rimasto nell'esercito, Catone scrisse a Popilio che, se gli permetteva di trattenersi nell'esercito, gli facesse prestare un secondo giuramento poiché sciolto il primo non poteva combattere legittimamente col nemico. 37 Tanto rigorosa era l'osservanza del diritto anche nella condotta della guerra].C'è una lettera del vecchio Catone al figlio Marco, nella quale scrive d'aver saputo che egli era stato congedato dal console, mentre si trovava come soldato in Macedonia, nella guerra contro Perseo. Ammonisce dunque di guardarsi bene dall'entrar in battaglia: “Non è giusto”, dice, “che chi non è soldato, combatta col nemico”. E vorrei anche osservare che colui, che con vocabolo appropriato dovrebbe chiamarsi perduellis [nemico di guerra], mitigandosi con parola più dolce la gravità della cosa, fu chiamato hostis [forestiero]. Presso i nostri antenati infatti era detto hostis quello che noi oggi chiamiamo forestiero. Lo dicono le dodici tavole: “Il giorno stabilito con un forestiero”, a così: “Contro un forestiero c'è sempre il diritto di azione giuridica”. Quale maggiore dolcezza, chiamare con nome così mite colui col quale si è in guerra? II trascorrere del tempo ha ormai dato un significato più ingrato a tale nome. La parola si è allontanata dal significato di forestiero ed è rimasta per colui che porta guerra. 38 E' ben vero che ormai il lungo tempo trascorso ha reso questo vocabolo assai più duro: esso ha perduto il significato di forestiero per indicare propriamente colui che ti viene contro con le armi in pugno. Quando, poi, si combatte per la supremazia, e con la guerra si cerca la gloria, occorre che anche allora il conflitto sia promosso da quelle stesse ragioni che, come ho detto poc'anzi, sono giuste ragioni di guerra. Queste guerre, però, che hanno per scopo la gloria del primato, si devono condurre con meno asprezza. Come, con un cittadino, si contende in un modo, se è un nemico personale, in un altro, se è un competitore politico (con questo la lotta è per l'onore e la dignità, con quello per la vita e il buon nome), così coi Celtiberi e coi Cimbri si guerreggiava come con veri nemici, non per il primato, ma per Pesistenza; per contro, coi Latini, coi Sabini, coi Sanniti, coi Cartaginesi, con Pirro si combatteva per il primato. Fedifraghi e spergiuri furono i Cartaginesi, crudele fu Annibale; più giusti gli altri. Splendida fu davvero la risposta che Pirro diede ai nostri legati sul riscatto dei prigionieri: “Io non chiedo oro per me, e voi a me non offrirete riscatto. Noi non facciamo la guerra da mercanti, ma da soldati Non con l'oro, ma col ferro decidiamo della nostra vita e della nostra sorte. Sperimentiamo col valore se la Fortuna, arbitra delle cose umane, conceda a voi o a me l'impero; o vediamo che altro ci arrechi la sorte. E ascolta anche queste altre parole: è mio fermo proposito lasciar la libertà a tutti quelli, al cui valore la fortuna delle armi lasciò la vita. Ecco, riprendeteli con voi: io ve li do in dono col favore del cielo”. 39 Parole veramente regali e degne di un Eacida. Chi poi, costretto dalle circostanze, ha fatto promesse al nemico, deve anche mantenervi fede. Così nella prima guerra punica Regolo, catturato dai Cartaginesi ed inviato a Roma per trattare dello scambio dei prigionieri, appena arrivò, disse in Senato che non si dovevano consegnare i prigionieri; poi, sebbene trattenuto da parenti ed amici, preferì andare al supplizio piuttosto che mancare alla parola data al nemico. 40 Nella seconda guerra punica, poi, dopo la battaglia di Canne, quei dieci giovani che Annibale mandò a Roma, vincolati dal giuramento che avrebbero fatto ritorno, se non avessero ottenuto il riscatto dei prigionieri, tutti, finché ciascuno di loro visse, furono lasciati dai censori, appunto perché spergiuri, fra i tributari; e non meno degli altri, colui che era caduto in colpa di eluso giuramento. Uscito questi dal campo col permesso di Annibale, vi ritornò poco dopo, col pretesto d'aver dimenticato non so che cosa; poi, uscito di nuovo dal campo, si teneva prosciolto dal giuramento; e lo era, a parole, ma non di fatto. Quando si tratta di lealtà, bisogna guardar sempre, non alla lettera, ma allo spirito della parola. Il più grande esempio di lealtà verso il nemico fu dato dai nostri padri, quando un disertore di Pirro offri al senato di uccidere A re col veleno. Il senato e Gaio Fabrizio consegnarono il disertore a Pirro. Così, neppure di un nemico potente e aggressore si approvò la morte, se questa doveva comportare un delitto. E dei doveri di guerra ho parlato abbastanza. 41 Ma sui doveri di guerra ho detto abbastanza. Dobbiamo poi ricordare che bisogna osservare la giustizia anche verso gli infimi. Certamente la condizione e la sorte più umile è quella degli schiavi, che alcuni giustamente propongono di considerare come mercenari, esigendo il lavoro a ridando loro in cambio il giusto. Due poi sono i modi con i quali si fa ingiustizia: con la violenza a con la frode; la frode è propria della volpe, la violenza del leone; sia l'una che l'altra è contraria alla natura umana, ma la frode desta maggior repulsione. Ma di tutte le ingiustizie nessuna è più deprecabile di quella di coloro, i quali, quando più ti ingannano, allora appunto fanno in modo di sembrare uomini onesti. Ma sulla giustizia basti ormai. 7 42 Come mi ero proposto, parlerò ora della beneficenza e della liberalità, della quale nulla è più consentaneo alla natura umana; vuole però parecchie cautele. Bisogna infatti fare attenzione che la liberalità non riesca dannosa a quelli che si vorrà beneficare, ed agli altri; poi, che essa non sia superiore ai nostri mezzi; infine, che sia corrispondente ai meriti di ciascuno: questo è infatti il fondamento della giustizia, alla quale si devono riferire questi precetti. Coloro infatti che donano ciò che è dannoso a chi essi vogliono beneficare, non devono essere considerati né benefici né liberali, ma pericolosi adulatori. Quelli poi che danneggiano gli uni per essere liberali con altri commettono la stessa ingiustizia di chi si appropria delle cose altrui a proprio vantaggio. 43 Ci sono poi molti, e proprio fra quelli più avidi di onore e di gloria, i quali tolgono agli uni per largheggiare con altri; e credono di passare per benefici verso i loro amici, se li arricchiscono in qualunque maniera. Ma ciò è tanto lontano dal dovere che nulla è più contrario al dovere. Si cerchi dunque di usare quella liberalità che giova agli amici e non nuoce a nessuno. Perciò l'atto con cui Lucio Silla e Gaio Cesare tolsero ai legittimi possessori i loro beni per trasferirli ad altri, non deve sembrare liberale: non c'è liberalità dove non è giustizia. 44 La seconda cautela da prendere in considerazione è che la liberalità non sia superiore ai nostri mezzi; poiché quelli, che vogliono essere più benefici di quanto possono, commettono in primo luogo ingiustizia verso i familiari: trasferiscono infatti ad altri quelle sostanze, che sarebbe più giusto concedere a lasciare a quelli della propria famiglia. In tale liberalità c'è inoltre la cupidigia di rapire a di togliere 1'altrui per avere modo di fare elargizioni. Si può anche osservare come i più non sono liberali per natura ma per amore della gloria; e, per sembrare benefici, fanno molte cose che sembrano derivate da ostentazione più che da sincerità. Tale ostentazione poi è più vicina alla impostura che alla liberalità o alla onestà. 45 Terza cautela da osservare è che, nella beneficenza, si faccia un'avveduta scelta dei meriti; bisogna, cioè, considerare bene il carattere della persona che si vuol beneficare, la disposizione dell'animo suo verso di noi, i rapporti sociali che tra noi intercedono e, infine, i servigi che essa ci ha resi: è desiderabile che tutte queste ragioni concorrano insieme; se no, le più numerose e le più importanti dovranno prevalere. 46 E poiché si vive non già con uomini perfetti e del tutto saggi, ma con gente in cui è già molto se c'è un'ombra di virtù, bisogna anche persuadersi (io credo) che non si deve assolutamente trascurare nessuno, da cui trasparisca un qualche indizio di virtù; anzi, con tanta maggior cura si deve coltivare una persona, quanto più essa è adorna di certe virtù più miti, come la moderazione, la temperanza e questa stessa giustizia di cui si è già tanto parlato. Invero, un animo forte e grande, in un uomo non perfetto e non saggio, è per lo più troppo fervido; quelle virtù, invece, sembrano convenire piuttosto al comune uomo dabbene. E questo valga per ciò che riguarda il carattere. 47 Venendo poi a parlare della benevolenza che altri può avere verso di noi, è nostro primo dovere che doniamo di più a colui che più ci ama, valutando però la benevolenza non da un affetto passeggero, come possono fare i ragazzetti, ma dalla stabilità a costanza dell'affetto. Se invece saremo stati obbligati, in modo che non si tratti di beneficare, ma di essere riconoscenti, dovremo usare maggiore impegno. Nessun dovere infatti è più necessario della gratitudine. 48 E se Esiodo consiglia di rendere in maggior misura, solo che tu possa, quello che hai avuto in prestito, che cosa non dobbiamo noi fare se altri ci previene nel beneficio? Non dobbiamo forse imitare i campi fertili, che rendono assai più di quel che ricevono? Invero, se non esitiamo a prestare i nostri servigi a coloro dai quali ci ripromettiamo vantaggi futuri, quale riconoscenza non dobbiamo avere verso coloro che vantaggi ce n'hanno già dati? Ci sono due maniere di liberalità: quella che fa e quella che rende il beneficio. Ora, se il farlo o il non farlo è in nostra facoltà, il non renderlo non è lecito a un uomo dabbene, pur che possa far ciò senza commettere un'ingiustizia. 49 Fra i benefici ricevuti bisogna poi fare delle distinzioni ed è fuori di dubbio che tanto più dobbiamo essere riconoscenti, quanto più grande è stato il beneficio ricevuto. E prima di tutto bisogna considerare quale fu 1'animo, 1'inclinazione, 1'affetto del benefattore. Molti infatti operano alla leggera, senza discernimento, spinti verso gli altri come da una malattia o da improvviso impeto dell'animo, come da una raffica di vento: questi benefici non debbono essere considerati alla pari con quelli che si fanno a ragion veduta, con ponderazione a costanza. Inoltre, nel fare a ricambiare un beneficio, è nostro dovere, a condizioni pari, soccorrere soprattutto chi ha più bisogno. Spesso invece accade il contrario: tanto più gli uomini si mostrano servizievoli con alcuni, anche se questi non ha bisogno di loro, quarto più sperano di trarne vantaggio. 50 Manterremo più saldi i legami sociali se saremo soprattutto generosi verso chi ci è più strettamente legato. Ma bisogna rifarsi più da lontano, per esaminare quali sono i principi naturali della comunità umana. Il primo è quello che appare nella stessa universale famiglia degli uomini collegati dalla ragione a dal linguaggio, che con 1'insegnare avvicinano fra loro gli uomini tutti riunendoli in un'associazione naturale. Né per altro ci differenziamo maggiormente dalle bestie, nelle quali spesso diciamo di trovare il coraggio, come nei cavalli a nei leoni, ma non troviamo la giustizia, 1'equità a la bontà, poiché sono privi di ragione a di linguaggio. 51 Questa, dunque, è la più ampia forma di società che esista, in quanto comprende e unisce tutti gli uomini con tutti gli uomini: in essa, quei beni che le leggi e il diritto civile assegnano ai privati, siano dai privati tenuti e goduti come appunto le leggi dispongono; ma tutti quegli altri beni che la natura produce per il comune vantaggio degli uomini siano tenuti e goduti dagli uomini come patrimonio di tutti e di ciascuno, così come raccomanda il proverbio greco: “Gli amici hanno tutto in comune con gli amici”. E comuni a tutti gli uomini sono evidentemente quei beni che appartengono a quel genere che, simboleggiato da Ennio in un singolo esempio, può facilmente estendersi a moltissimi altri casi: 8 “L'uomo che mostra cortesemente la via a un viandante smarrito, fa come se dal suo lume accendesse un altro lume. La sua fiaccola non gli risplende meno, dopo che ha acceso quella dell'altro”. Con un solo ed unico esempio il poeta ci insegna che, quanto possiamo concedere senza nostro danno, tutto dobbiamo accordare anche a uno conosciuto. 52 Di qui le massime: non vietare ad alcuno di attingere acqua dal fiume, permettere di prendere il fuoco dal fuoco, dare un buon consiglio a chi deve decidere: cose che sono utili a chi le riceve, a non dannose a chi le dà. Dobbiamo perciò attenerci a questi principi e contribuire al comune benessere. Ma poiché i mezzi dei singoli sono modesti ed infinita è la moltitudine di quelli che hanno bisogno, la liberalità verso gli altri deve restringersi a quel termine indicato da Ennio, “né il suo lume splende meno”, perché vi sia modo di esser liberali verso chi ci è più vicino. 53 Diversi sono poi i gradi della società umana. Per non parlare infatti di quella società universale che unisce tutti gli uomini, ci riguarda più da vicino quella costituita fra gli uomini della stessa stirpe, nazione a lingua, che sono i vincoli più importanti. Ancora più intima è quella fra uomini dello stesso Stato; poiché i cittadini hanno molte cose in comune, le piazze, i templi, i portici, le leggi, i diritti, i tribunali, i voti, le consuetudini inoltre a le amicizie, i molteplici impegni ed i contratti d'affari. Società più stretta è poi quella della propria famiglia: infatti dalla grande società del genere umano si restringe ad un cerchio più piccolo. 54 In verità, tutti gli esseri viventi tendono per naturale istinto alla procreazione, e perciò la prima forma di società si attua nell'accoppiamento sessuale; la seconda, nella prole, e quindi nell'unita della casa e nella comunanza di tutti i beni. Ed è questo il primo principio della città e, direi quasi, il semenzaio dello Stato. Seguono le unioni tra fratelli e sorelle, poi tra cugini e biscugini, i quali, quando una sola casa non può più contenerli, escono a fondare nuove case, quasi come colonie. Seguono i matrimoni e le affinità, per cui si moltiplicano le parentele; e in questo propagarsi e pullulare della prole è appunto l'origine degli Stati. Or bene, la comunanza del sangue avvince gli uomini di benevolenza e d'amore. 55 Ed è proprio gran cosa avere gli stessi ricordi di famiglia, le cerimonie religiose agli stessi sepolcri. Ma di tutte le società nessuna è più apprezzabile a più sicura di quella fra gli uomini simili nei costumi a legati da amicizia; poiché 1'onesto, come spesso ho detto, quando lo vediamo anche in altri, allora ci fa impressione a ci rende amici di colui nel quale crediamo di vederlo. 56 E benché ogni virtù ci attragga a sé e ci faccia amare coloro nei quali sembra che essa risieda, tuttavia la giustizia e la liberalità producono più specialmente questo effetto. E niente è più atto a destare amore e a stringere i cuori che la somiglianza dei costumi nelle persone dabbene: quando due uomini hanno le stesse inclinazioni e le stesse aspirazioni, allora avviene che ciascuno dei due prende piacere dell'altro come di se stesso, e si avvera quello che Pitagora vuole nell'amicizia, che, cioè, di più anime si faccia un'anima sola. Grande è ancora quella unione che nasce da vicendevole scambio di benefici: finché questi sono reciproci e graditi, una salda alleanza avvince tra loro benefattori e beneficati. 57 Ma quando avrai ben considerato ogni cosa con la mente e col cuore, vedrai che fra tutte le forme di società la più importante e la più cara è quella che lega ciascuno di noi allo Stato. Cari sono i genitori, cari i figlioli, cari i parenti e gli amici; ma la patria da sola comprende in sé tutti gli affetti di tutti. E quale buon cittadino esiterebbe ad affrontare la morte per lei, se il suo sacrificio dovesse giovarle? Tanto più esecrabile, dunque, è la crudeltà di codesti facinorosi che, con ogni sorta di scelleratezze, fecero strazio della loro patria, e a nient'altro furono e sono intenti che a distruggerà dalle fondamenta. 58 Ma, se si vuole far questione e confronto per sapere a chi dobbiamo rendere maggior ossequio e miglior servigio, abbiamo il primo posto la patria e i genitori, ai quali noi dobbiamo i più grandi benefici; vengano subito dopo i figlioli e tutta la famiglia, che tiene fisso lo sguardo in noi soli e in noi soli trova il suo unico rifugio; seguano poi i parenti che sono in buona armonia con noi, i parenti coi quali noi abbiamo per lo più in comune anche la sorte. Perciò gli aiuti necessari a sostentare la vita si devono principalmente a questi che ho nominato; ma la comunanza e l'intimità del vivere, i consigli, i colloqui, le esortazioni, i conforti, talora anche, rimproveri, hanno il loro massimo vigore e valore nell'amicizia, e amicizia dolcissima è quella che conformità di carattere annoda. 59 Ma nell'adempimento di tutti questi doveri bisogna avere riguardo a ciò di cui uno ha soprattutto bisogno ed a quello che può ottenere o no senza di noi. Perciò non identici sono i gradi delle relazioni a delle circostanze a vi sono riguardi che si debbono più agli uni che agli altri; e così nella raccolta dei prodotti dovrai aiutare con più sollecitudine il vicino che non il fratello o 1'amico; ma, se vi è un processo, aiuterai il parente a 1'amico piuttosto del vicino. In ogni dovere dunque bisogna considerare tali cose ed acquistare senso pratico per poter essere buoni contabili dei doveri e, sommando a sottraendo, vedere dal risultato quanto si debba a ciascuno. 60 Ancora. Come i medici, i generali, gli oratori, per bene imparate che abbiano le regole della teoria, non possono conseguire nulla che meriti gran lode senza l'esperienza e la pratica, così, regole e precetti, sulla rigorosa osservanza dei doveri, se ne impartiscono di certo, come appunto sto facendo io, ma la vastità e la varietà della cosa richiedono anche esperienza e pratica. E così credo d'aver chiarito abbastanza in che modo, da quei principi che si fondano sul diritto dell'umana convivenza, deriva l'onesto, da cui dipende a sua volta il dovere. 61 Bisogna comprendere, una volta proposti i quattro generi da cui scaturiscono ciò che è moralmente onorevole a il dovere, che ad apparire il più splendido è quello che comporta un animo grande ed elevato, che disprezza le cose umane. Perciò negli insulti ciò che è più a portata di mano è dire, se è possibile, qualche cosa come: “Voi, o giovani, avete un animo di donna, a quella fanciulla ha un animo da eroe” ; ed anche: “O Salmacide, spoglie senza sudore a sangue”. Al contrario, lodiamo con voce, non si sa come, quasi più piena a più forte le azioni compiute da un animo 9 valoroso a fermo. Di qui nascono i luoghi comuni dei retori su Maratona, Salamina, Platea, Leuttra, sulle Termopili, e, fra i nostri, ecco Coclite, i Decii, Gneo a Publio Scipione, Marcello a tanti altri; a soprattutto lo stesso popolo romano eccelle per magnanimità. L'entusiasmo per la gloria militare si rivela anche dal vedere non generalmente le statue in tenuta militare. 62 Ma questa elevazione d'animo, che si fa notare nei pericoli a nelle fatiche, se è disgiunta dalla giustizia a non combatte per la comune prosperità, ma per il proprio vantaggio, è colpevole; non solo infatti non è virtù, ma è proprio contraria ad ogni sentimento di umanità. Molto bene quindi gli stoici definiscono la fortezza come virtù che lotta per 1'equità. Perciò nessuno che meritò la fama di forte con malizie a con insidie, s'acquistò mai la lode: poiché nulla che sia contrario alla giustizia può essere onesto. 63 Bellissima, dunque, quella sentenza di Platone: “Non solo quel sapere, che è disgiunto da giustizia, va chiamato furfanteria piuttosto che sapienza, ma anche il coraggio che affronta i pericoli, se è mosso non dal bene comune, ma da un suo proprio interesse, abbia il nome di audacia piuttosto che di fortezza”. Noi vogliamo pertanto che gli uomini forti e coraggiosi siano, nel medesimo tempo, buoni e schietti, amanti della verità e alieni da ogni impostura: qualità queste che scaturiscono dall'intima essenza della giustizia. 64. Ma ciò che è veramente biasimevole è che in questa elevatezza e grandezza d'animo facilmente nascono le caparbietà allo smodato desiderio di predominio. Si legge in Platone che lo spirito degli Spartani era sempre infiammato dal desiderio di vincere”; a così, quanto più uno eccelle per grandezza d'animo, tanto più vuole essere il primo fra tutti o piuttosto il solo. È difficile poi che, chi desidera a tutti sovrastare, rispetti la equità, che è praticamente inseparabile dalla giustizia. Per cui avviene che non si lascia vincere né dal confronto di idee né dall'autorità del diritto a delle leggi; ed ecco sorgere allora nello Stato corruttori a faziosi per poter raggiungere la massima potenza ed essere superiori con la forza piuttosto che pari con la giustizia. Ma quanto più conservare 1'equità è difficile, tanto più è apprezzabile: non v'è infatti nessuna circostanza, nella quale non si debba operare secondo giustizia. 65 Forti e magnanimi, adunque, si devono stimare non quelli che fanno, ma quelli che respingono l'ingiustizia. E la vera e sapiente grandezza d'animo giudica che quell'onestà, a cui tende sopra tutto la natura umana, sia riposta non nella rinomanza, bensì nelle azioni, e perciò non tanto vuol parere quanto essere superiore agli altri. In verità, chi dipende dal capriccio d'una folla ignorante, non deve annoverarsi fra gli uomini grandi. D'altra parte, l'animo umano, quanto più è elevato, tanto più facilmente è spinto a commettere azioni ingiuste dal desiderio della gloria; ma questo è un terreno assai sdrucciolevole, perché è difficile trovare uno che, dopo aver sostenuto fatiche e affrontato pencoli, non desideri, come ricompensa delle sue imprese, la gloria. 66 La fortezza e la magnanimità si manifestano soprattutto in due cose: nel disprezzo dei beni terreni, persuaso che uno sia che 1'uomo non deve ammirare o ricercare nulla che non sia 1'onesto a il decoro a che non deve lasciarsi vincere dalle passioni a dalla fortuna. Poi, dato uno stato d'animo così disposto, nell'intraprendere cose grandi a massimamente utili, ma che siano piene di difficoltà, di fatiche a di pericoli a mettano a rischio la vita stessa a molte cose che interessano la vita. 67 Di questi due modi, tutto lo splendore e tutta la magnificenza, aggiungo anche tutta l'utilità, è nel secondo; ma la vera causa efficiente della grandezza d'animo è nel primo: in questo risiede l'intima ragione che fa gli animi veramente grandi e superiori alle cose umane. E appunto questa forza morale si riconosce, dicevo, per due contrassegni: lo stimare buono solo ciò che è onesto e l'esser liberi da ogni passione. In verità, se il giudicare meschine quelle cose che ai più sembrano straordinarie e magnifiche, e perciò il disprezzarle con fermo e costante proposito, è proprio d'un animo forte e grande, senza dubbio il sopportare quelle cose che sembrano penose, quelle che, molte e varie, accadono nella travagliata e tempestosa vita umana, in modo che tu non ti discosti per nulla dallo stato naturale dell'uomo, per nulla dalla dignità del sapiente, questo è proprio di un animo vigoroso e di una grande fermezza. 68 Non è coerente che chi non si lascia vincere dal timore, si faccia vincere dalla cupidigia;a che chi non cede alle fatiche, ceda ai piaceri. Perciò bisogna tener conto di queste cose a rifuggire dalla avidità del denaro; niente è tanto indizio di un animo meschino a gretto quanto 1'amore delle ricchezze; niente al contrario è più bello a più nobile che disprezzare il denaro, se non ce n'è, o impiegarlo in beneficenza a liberalità, se ce n'è. Bisogna anche guardarsi dal desiderio della gloria, come già ho detto: sopprime infatti la libertà, per ottenere la quale gli uomini magnanimi devono affrontare ogni sforzo. Né si devono desiderare i comandi militari o, piuttosto, bisognerà ogni tanto non accettarli. 69 Sia l'animo tuo sgombro da ogni passione, non solo dalla cupidigia e dalla paura, ma anche, e specialmente, dalla tristezza, dalla soverchia allegria e dalla collera, perché tu abbia quella tranquilla serenità che porta con sé fermezza e soprattutto dignitosa coscienza. Molti sono e molti furono quelli che, aspirando a questa tranquillità di cui parlo, rinunziarono ai pubblici uffici per cercare un rifugio nella pace d'una vita appartata: fra questi troviamo celebratissimi filosofi, veri principi del sapere, e certi uomini austeri e autorevoli che non seppero acconciarsi ai capricci del popolo o dei potenti; e non pochi di essi passarono la vita in campagna, trovando il loro piacere nell'attendere ai loro privati interessi. 70 Tutti costoro non ebbero altro ideale che questo: “vivere da re”, vale a dire, non aver bisogno di nulla, non obbedire a nessuno e godere di quella libertà, che consiste nel vivere come si vuole. Questi si prefissero il medesimo scopo dei re: non avere bisogno di nulla, non obbedire a nessuno, a godere della libertà, che consiste essenzialmente nel vivere secondo i propri desideri. Questo scopo è comune a quelli che desiderano il potere a quelli che desiderano la vita tranquilla; ma gli uni ritengono di poterlo conseguire con molte ricchezze, gli altri accontentandosi del poco che possiedono. Non si può dare torto né agli uni né agli altri, con la differenza che la vita 10 dei secondi è più tranquilla, più sicura, meno fastidiosa a molesta agli altri; mentre la vita di coloro che si dedicano alla vita pubblica a alle imprese di guerra è più utile al genere umano a più adatta a dare splendore e dignità. 71 Perciò si può forse concedere di non occuparsi dello Stato a quelli che, dotati di singolare ingegno, si dedicano agli studi, e a quelli che, impediti o dalla malferma salute o da qualche altra più grave cagione, si ritraggono dalle cure dello Stato, cedendo ad altri il potere e la gloria di amministrarlo; ma a quelli che non hanno nessun motivo di tal genere, credo che non si debba ascrivere a lode, bensì a colpa, se adducono il pretesto d'avere in dispetto quelle cose che i più ammirano, cioè i comandi militari e le cariche civili. E' vero che sarebbe difficile non approvare il loro proposito, in quanto dichiarano di non tenere in nessun conto la gloria; ma il male è che essi hanno tutta l'aria di temere, nonché le fatiche e le noie, anche i contrasti e gl'insuccessi, come una specie di disonore e d'infamia. Ci sono alcuni che, in casi del tutto opposti, non eccellono per troppa coerenza: disprezzano con estremo vigore il piacere e nel dolore si accasciano: non si curano della gloria e si fiaccano per l'infamia e anche nell'incoerenza sono incoerenti. 72 Ma quelli che hanno per natura le qualità necessarie per svolgere le attività politiche, senza alcuna esitazione devono cercare di ottenere le magistrature a amministrare lo stato; altrimenti né la società può essere retta, né la grandezza d'animo essere manifesta. Quelli poi che si dedicano alla vita politica, non meno che i filosofi, a forse più, devono essere forti d'animo ed avere disprezzo per le cose umane, a sicurezza a tranquillità, se vogliono non essere ansiosi per 1'avvenire a vivere con fermezza a costanza. 73 Il che riesce tanto più facile ai filosofi, quanto meno essi, nella loro vita, offrono aperto il fianco ai colpi di fortuna, e quanto minori sono i loro bisogni; e anche perché, se qualche avversità li assale, non possono cadere con tanta rovina. Perciò, non senza ragione, più vigorosi slanci dell'animo e più generoso desiderio d'operare si accendono in colui che sta al governo che non negli uomini appartati e tranquilli; e perciò tanto più l'uomo di Stato deve armarsi di grandezza d'animo e serbarsi libero da ogni affanno. D'altra parte, chiunque s'accosta agli affari pubblici, si guardi bene dal considerare soltanto l'onore che gliene possa derivare, ma guardi anche d'aver le forze adatte a eseguire i suoi disegni. E anche in questa considerazione, si guardi da due pericoli: dal disperare senza ragione per fiacchezza d'animo e dall'aver troppa fiducia in se stesso per smaniosa ambizione. Del resto, in ogni sorta d'impresa, prima di mettersi all'opera, occorre una diligente preparazione. 74. Nonostante il fatto che molti ritengono che le imprese militari abbiano maggiore importanza delle civili, bisogna combattere questa opinione. Molti infatti ricercano le guerre per desiderio di gloria; a questo avviene per lo più in animi forti a grandi ingegni, a tanto più se sono adatti alle imprese di guerra a desiderosi di guidare eserciti. Ma se vogliamo giudicare rettamente, molte azioni civili sono più importanti a più onorevoli delle imprese di guerra. 75 Si lodi pure a buon diritto Temistocle; sia pure il suo nome più radioso che quel di Solone, e si chiami Salamina a testimonianza d'una splendidissima vittoria, per anteporla al provvedimento col quale Solone per la prima volta istituì l'Areòpago; ma questo provvedimento è da giudicarsi non meno luminoso di quella vittoria: questa non giovò che una sol volta, quello invece gioverà in ogni tempo allo Stato. E' questo consesso che custodisce le leggi d'Atene; è questo che preserva le istituzioni degli avi. E mentre Temistocle non potrebbe vantarsi d'aver giovato in nulla all'Areòpago, Solone avrebbe invece ogni ragion di dire che egli giovo a Temistocle, in quanto la guerra fu condotta per consiglio di quel senato che Solone aveva istituito. 76 Si potrebbero dire le stesse cose di Pausania a di Lisandro perché, sebbene si ritenga che con le loro opere la potenza degli Spartani sia aumentata, tuttavia queste non sono minimamente da paragonarsi con le leggi a gli ordinamenti di Licurgo; anzi proprio grazie a questi ebbero eserciti più preparati a più forti. Secondo poi il mio parere, né al tempo della mia fanciullezza Marco Scauro era inferiore a Gaio Mario, né al tempo della mia partecipazione alla vita politica Quinto Catulo a Gneo Pompeo; poco infatti contano le armi al di fuori dei confini, se non v'è saggezza in patria. Né 1'Africano, uomo a generale eccellente, giovò più alla sua patria con la distruzione di Numanzia, the in quello stesso tempo il privato cittadino Publio Nasica, quando fece uccidere Tiberio Gracco; quel fatto, si potrà dire, non piu' soltanto civile, ma anche militare, poiché fu compiuto con la forza a con le armi; ma tuttavia fu un atto di politica interna senza intervento dell'esercito. 77 Ottima è quella mia sentenza, contro la quale, a quel ch'io sento, si scagliano di solito i maligni e gl'invidiosi: “Cedano l'armi alla toga, ceda l'alloro del capitano alla gloria del cittadino”. E invero, per tacere d'altri, quando io reggevo il timone dello Stato, non cedettero forse le armi alla toga? Mai lo Stato corse più grave pericolo e mai godette più sicura pace. Con tanta prontezza, in virtù dei miei provvedimenti e della mia vigilanza, caddero da se stesse le armi dalle mani di temerari e facinorosi cittadini. Quale impresa dunque fu mai compiuta così grande in guerra? Quale trionfo di capitano può paragonarsi con questo di magistrato? 78 Lascia, Marco, lascia, figliolo mio, che io me ne vanti con te, poi che a te spetta di ereditare questa mia gloria e di emulare queste mie azioni. Certo è che un uomo, colmo di gloria militare, Cneo Pompeo, mi fece l'onore di affermare alla presenza di molti che invano egli avrebbe riportato il suo terzo trionfo, se, per le mie benemerenze patriottiche, egli non avesse avuto una patria, ove trionfare. Le prove di fortezza che si danno in pace non sono dunque inferiori alle prove che si danno in guerra; ché anzi quelle richiedono maggior lavoro e maggior zelo di queste. 79. Insomma quell'onesto, che noi cerchiamo in un animo nobile a grande, proviene dalle forze dell'animo a non del corpo. Anche il corpo tuttavia deve essere esercitato ad obbedire alla saggezza a alla ragione nel compimento delle attività a nel sopportare le fatiche. L'onesto dunque, che noi cerchiamo, consiste nell'attività dell'animo e nella riflessione; ed in questo riguardo non minore utilità apportano quelli che in tempo di pace governano lo stato di quelli che fanno la guerra. Spesso infatti per i Toro consigli le guerre non furono intraprese, o vennero condotte a termine, 11 talvolta anche dichiarate; come fu la terza guerra punica, deliberata per consiglio di Marco Catone, la cui autorità anche dopo la morte fu grandissima. 80 Si preferisca, dunque, la saggezza di un buon decreto alla prodezza di una fiera battaglia; con questa riserva però, che si anteponga il deliberare al combattere non già per paura della guerra, ma solo per riguardo dell'utile comune. A ogni modo, quando è necessaria, si intraprenda pure una guerra, ma sempre e solo con l'evidente scopo di procurare la pace. In verità, l'uomo forte e costante si riconosce in questo: le avversità non lo turbano, la lotta non lo sgomenta e non l'abbatte; sempre presente a se stesso e sempre padrone del suo spirito, egli non si discosta mai dalla ragione che lo guida. 81 E se questo è privilegio d'un animo forte, è poi segno di grande ingegno presagire con la forza del pensiero le cose future, a anche all'occorrenza stabilire quello che può accadere in bene ed in male, a che cosa si debba fare, quando qualcosa sia accaduto, né fare in modo che poi si debba dire: “Non lo credevo”. Queste sono le opere di un animo grande ed elevato a che fa affidamento nella assennatezza a nella riflessione: gettarsi invece alla cieca nel combattimento e combattere corpo a corpo col nemico è selvaggio e brutale. Ma quando la circostanza a la necessità lo richiedono bisogna prendere le armi a preferire la morte alla schiavitù a al disonore. 82 Quanto poi alla distruzione a al sacco delle città non si proceda a caso a con crudeltà. È dovere di un uomo grande punire i colpevoli nelle agitazioni, rispettare la moltitudine, non allontanarsi mai in qualsiasi condizione dalla rettitudine a dall'onestà. E come vi sono molti, 1'ho già detto, che antepongono le azioni militari alle civili, cosi si trovano molti, ai quali le risoluzioni affrettate e pericolose sembrano più nobili a più splendide di quelle tranquille e meditate. 83 E' ben vero che noi, col fuggire il pericolo, non dobbiamo mai correre il rischio di passare da imbelli e da codardi; ma è anche vero che dobbiamo rifuggire dal buttarci allo sbaraglio senza ragione, che è la cosa più dissennata del mondo. Perciò, nell'affrontare i pericoli, dobbiamo seguire il metodo dei medici, che, ai malati leggeri, porgono blandi rimedi, riservando di necessità alle malattie più gravi le cure pericolose e incerte. Nella bonaccia, pertanto, invocare la tempesta è gran demenza; ma superare la tempesta in qualunque modo, è vera saggezza, tanto più se il vantaggio di una pronta risoluzione supera il danno di un'incerta e dubbiosa esecuzione! D'altra parte, le pubbliche imprese sono pericolose tanto per coloro che le affrontano, quanto per lo Stato. 84 Vi sono poi molti i quali non esitano a sacrificare per la patria non solo le ricchezze, ma anche la vita, ma non farebbero il minimo sacrificio della loro fama, neppure se lo riehiedesse lo stato. La versione completa di questa produzione può essere richiesta gratuitamente all'indirizzo email